< Avventure di Robinson Crusoe
Questo testo è stato riletto e controllato.
Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Cantiere di costruzione
46 48

Cantiere di costruzione.



A
conti fatti, s’io per una parte ravvisava in tutto il tenore dei discorsi di Venerdì una salda affezione per me e una intenzione la più risoluta di non lasciarmi, vedeva per l’altra come il desiderio di rivedere il suo nativo paese si fondasse sopra un ardente amore di patria o su la speranza del bene ch’io potessi fare ai suoi compatriotti: impresa per la quale non sentiva in me medesimo le cognizioni opportune a tentarla nè la menoma vocazione. Pure la fortissima tentazione, come ho già detto, di avventurarmi ad una fuga trovava un incentivo troppo possente nei diciassette naufraghi o spagnuoli o portoghesi di cui parlommi il medesimo Venerdì. Per conseguenza, senza frapporre indugi, mi diedi a cercare in compagnia di Venerdì un albero atto a farne una piroga o canotto acconcio al viaggio divisato. Certamente vi erano nell’isola alberi quanti sarebbero bastati ad allestire una piccola flotta non di piroghe o canotti, ma anche di vascelli di linea; ma ciò che ebbi principalmente in animo, si fu d’averne uno ben vicino al mare per poterlo lanciare in acqua appena costrutto, e non rinnovare lo sconcio occorsomi un’altra volta. Finalmente Venerdì adocchiò l’albero a proposito; che Venerdì s’intendea meglio di me su la qualità di legnami più adatti a tali lavori. Non saprei nemmen oggi determinar la famiglia di piante cui apparteneva l’albero che atterrammo: somigliava molto a quello che chiamiamo fustic, o partecipava della natura di questo e del legno di Nicaragua cui s’avvicinava ancora nel colore e nell’odore. Il parere di Venerdì sarebbe stato di renderlo concavo ad uso di barca mediante il fuoco, ma fattigli vedere gli stromenti opportuni a conseguire la stessa meta con miglior garbo, gl’insegnai adoperarli, e devo lodarmi in ciò del suo profitto e della sua agilità di mano. Dopo un mese d’improba fatica avevamo terminata la nostra barca, che era da vero assai elegante. Questo comparve massimamente, poichè co’ nostri segoli che gli mostrai come volevano essere usati, l’avemmo ridotta esternamente alla perfetta forma di navicella. Ciò non ostante dovemmo in appresso impiegare una buona quindicina di giorni per far sì che sopra cilindri di legno ruzzolasse a palmo a palmo sino alla superficiedell’acqua; ma quando ci fu, essa avrebbe trasportato comodissimamente una ventina di persone.

A malgrado della sua ampiezza rimasi attonito al vedere con qual disinvoltura o prestezza il mio Venerdì la governava, la voltava per ogni verso, la spingeva col remo. Gli chiesi pertanto se voleva e se dovevamo arrischiarci sovr’essa.

— «Sì, rispose, potere e volere, anche se soffiar vento grande.»

Nondimeno io aveva nell’animo un altro divisamento ch’egli non conosceva: ed era quello di provvederla d’albero e vela e di un’ancora e d’una gomona. Quanto all’albero non mi costava fatica il procacciarmelo: aveva già posto l’occhio sopra un bel cipresso giovine, ben diritto, non distante di lì, perchè di simili piante abbondava quell’isola. Detto a Venerdì di atterrarlo, gl’insegnai ancora il modo di foggiarlo convenientemente al mio scopo. Per le vele ne presi tutto il carico io. Sapeva bene d’avere una bastante scorta di vele vecchie o piuttosto di pezzi di vele; ma essendo state presso di me da ventisei anni, nè avendomi preso alcun pensiere di custodirle debitamente, perchè non m’immaginava mai che mi venisse il destro di valermene nè poco nè assai, teneva per fermo che fossero affatto infracidite; e molte di esse erano veramente. Pur ne trovai due pezzi che avevano tuttavia assai buona cera, e con questi postomi all’opera, non senza grande fatica e dando sgarbati puntacci, come potete credere, per mancanza d’aghi da cucire, finalmente riuscii a fare una brutta cosaccia triangolare, simile a quelle vele che chiamansi in Inghilterra spalle di castrato, e che si fermano al piede con un po’ di colla e con uno sprocco alla cima: di tali vele sono provveduti i nostri scappavia, ed io sapea maneggiarle, perchè ne aveva di simili la barca entro cui fuggii di Barbaria, siccome ho narrato nel principio della mia storia.

Impiegai presso a due mesi in quest’ultimo lavoro, vale a dire nell’adattare il mio albero e le mie vele; perchè lo volli finito di tutto punto, e vi aggiunsi un piccolo puntello ed una specie di controvela pei casi in cui ne fosse occorso di navigar controvento, e ancora attaccai un timone alla poppa. Io era certo il più goffo di quanti mai furono fabbricatori di navigli; pure conoscendo l’utilità, anzi la necessità di un tale lavoro, mi vi posi tanto attesamente, che infine in qualche modo mi cavai d’impaccio; benchè pensando ciò che mi è costato il fare e disfare, credo mi sia bisognata più fatica in ciò, che nel fabbricare l’intera barca.

Compiute tutte le predette cose mi restava ad ammaestrare il mio Venerdì su quanto concerneva il governo della mia barca; perchè, quantunque sapesse regolare assai bene un canotto col remo, non conosceva nulla di ciò che riguardava timone o vela; ed anzi rimase stupido quando vide me che faceva voltare la scialuppa col soccorso del timone e la spalla di castrato gonfiarsi e moversi a seconda delle variazioni del nostro veleggiare. Nondimeno con un poco di pratica lo ridussi ad addimesticarvisi sì che divenne un esperto uomo di mare, salvo il sapersi valere della bussola: su l’uso della quale ben poche cose potei far entrare nella sua testa. Pure, siccome vi erano poche nuvole in volta, e rare volte o quasi mai il cielo si copriva di nebbie in quelle parti, il bisogno della bussola non era grande, perchè si lasciavano sempre vedere le stelle in tutta la notte, e la spiaggia per tutto il giorno, eccetto nella stagione delle piogge, durante la quale niuno si curava d’andare attorno nè per terra nè per mare.

Cominciava ora il ventesimo settimo anno della mia relegazione, se bene, per dir vero, i tre ultimi da che aveva questa buona creatura con me, dovrebbero levarsi fuori del conto, perchè grazie a Venerdì il mio soggiorno su queste spiagge era divenuto tutt’altro. Celebrai l’anniversario del giorno in cui v’arrivai con gli stessi affetti di gratitudine alla divina misericordia che le altre volte; ma le cagioni di tale mia gratitudine erano molto ora accresciute, poichè aveva questi nuovi testimoni presenti della cura che la providenza avea preso di me, oltre alla speranza che mi confortava di una imminente indubitabile liberazione; che questa idea mi si era suggellata con tanta forza nella mente, ch’io tenea per fermo di non rimanere un altr’anno in quest’isola. Ciò non ostante non trascurai il solito governo delle mie cose domestiche; non il lavoro della terra, non le piantagioni, non il munirla di siepi, non la vendemmia; feci in somma tutte le cose mie, siccome negli anni addietro.

Arrivata intanto la stagione piovosa, mi trattenni in casa più dell’usato. Ormeggiammo con quanta sicurezza potemmo la nostra nuova fregata, traendola in quella picciola baia donde, come ho già narrato, sbarcai le mie zattere nel tornare addietro dal vascello naufragato. Rimurchiatala su la spiaggia col soccorso dell’alta marea, ordinai al mio Venerdì di scavare una piccola darsena, ampia abbastanza per contenerla, e inclinata quanto era d’uopo per tornarla a mettere in mare; calata la marea, la riparammo con un buon argine per tenerne fuori l’acqua e mantenerla asciutta, quando il grosso fiotto Calata la marea, la riparammo con un buon argine per tenerne fuori l’acqua e mantenerla asciutta sarebbe tornato. Per difenderla poi dalla pioggia adunammo un grande fascio di rami d’albero, de’ quali le facemmo un coperchio fitto come il tetto di una casa. Indi così disposte le cose, aspettammo i mesi di novembre e decembre nei quali divisava tentar la mia impresa.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.