< Avventure di Robinson Crusoe
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Daniel Defoe - Avventure di Robinson Crusoe (1719)
Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
Male nell’osso medicato dalla bontà di una moglie;
sciagura non preveduta
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AVVENTURE


di


ROBINSON CRUSOE



Male nell’osso medicato dalla bontà di una moglie;

sciagura non preveduta.


L
usato proverbio detto in tante occasioni nell’Inghilterra: Mal nell’osso, incurabile, non si è mai verificato meglio che nella storia della mia vita. Ognuno si avrebbe immaginato che dopo trentacinque anni d’angosce, dopo una serie di variate calamità, per cui ben pochi uomini, se pur ve ne furon mai, sono passati; dopo sett’anni trascorsi nell’abbondanza di tutte le cose, venuto già vecchio e avendo sperimentate, bisogna certo convenirne, tutte le possibili condizioni della vita di un privato, dopo tutto ciò ognuno si avrebbe immaginato che la mania de’ viaggi manifestatasi in me, come raccontai, con tanta violenza sin dal primo istante che entrai nel mondo, fosse omai domata; che la parte volatile del mio cervello fosse svanita o almeno condensata abbastanza, perchè a sessanta anni prevalesse in me il gusto di restarmene a casa, e rinunziassi finalmente ad ogni idea di rischiare per l’avvenire e le mie sostanze e la mia vita.

Per pensar così v’era di più: i soliti allettamenti dei venturieri erano tolti da me. Io non aveva bisogno di fare una fortuna; nulla di cui andare in cerca. Se avessi guadagnati dieci mila sterlini non sarei stato ricco maggiormente, perchè aveva già quanto bastava per me e per coloro cui doveva trasmettere le mie sostanze. Questo mio stato si aumentava ogni giorno, perchè poca essendo la mia famiglia, non avrei saputo spendere l’intera mia rendita, semprechè non mi fossi voluto mettere in quello sfarzo che appartiene ai grandi, attorniarmi cioè di numerosi servi, tenere un ricco traino di cavalli, vivere in continue feste, allegrie e simili cose di cui non aveva notizia e per le quali non mi sentiva inclinato. In conclusione, non c’era nulla di meglio a fare per me dello starmene tranquillo, del godermi in pace i guadagni da me fatti e del vederli aumentare ogni giorno nelle mie mani.

Ma tutte le predette considerazioni, non producevano effetto su me o almeno non abbastanza, per resistere alla continua stravagante bramosia d’andare attorno, malattia cronica da cui m’era impossibile il liberarmi. Soprattutto la voglia di rivedere la mia nuova piantagione nell’isola e la colonia che vi lasciai mi girava per la testa continuamente. Erano questi i miei sogni di tutta la notte, le mie immaginazioni della intera giornata. La mia fantasia si era fissa sì gagliardamente e tenacemente su ciò, che io ne parlava dormendo, e, quando io vegliava, nulla potendo rimoverla dalla mia mente, si cacciava con violenza in tutti i miei discorsi al punto di divenire stucchevole, perchè io non sapeva mai tirare a mano, mai toccare altro cantino: mi rendeva indiscreto e molesto ai circostanti, e ben lo sentiva io medesimo.

Ho spesse volte udito dire da persone di retto discernimento che tutto quanto si racconta nel mondo su gli spettri e le apparizioni è dovuto alla forza delle immaginazioni umane e ai possenti effetti della fantasia su le menti; e che nulla havvi quaggiù di corrispondente alle apparizioni di spiriti, a’ fantasmi che camminino e cose simili; che il solo affissarsi appassionatamente che fanno gli uomini sui discorsi avuti con gli amici loro defunti finchè viveano, li rappresenta ad essi come reali tanto che per qualche straordinario caso giungono a persuadersi di vedere questi trapassati, di parlare con loro, di udirne le risposte, quando in vero nulla havvi di verace che l’ombra della cosa foggiata dai vapori dei loro cervelli, allorchè veramente non vedono nulla.

Quanto a me nemmeno a quest’ora so dire1 se cose simili alle apparizioni di spiriti e di persone che camminino dopo esser morti, abbiano una reale esistenza, o se quanto ne viene raccontato di così fatto sia soltanto effetto di vapori e di alienazione delle umane fantasie. Ma posso bene accertare che la mia immaginazione, fossero poi vapori, o chiamateli come volete, mi travagliava sì fortemente, mi trasportava così che mi credea sul luogo, nella mia antica forticazione, all’ombra di quegli stessi alberi. Io vedeva il mio vecchio spagnuolo, il padre di Venerdì e i ribaldi scorridori da me lasciati nell’isola. Anzi io parlava con essi, li guardava accigliato, come se stessero dinanzi a me, ed era perfettamente desto; e ciò andava sì oltre, ch’io stesso atterriva di queste immagini a me create dalla mia fantasia. Una volta, in una di queste mie visioni o sogni, se così vi piace nominarli, io fui compreso di tutto l’orrore che poteva destarsi in me al racconto fattomi dallo Spagnuolo o dal padre di Venerdì d’una ribalderia di que’ tre mascalzoni. Costoro, mi si diceva (e ciascun mio personaggio era presente), aveano tentato l’eccidio di tutti gli Spagnuoli, posto fuoco alle provvigioni ch’essi aveano portate seco per affamarli. Io in vero non aveva mai udito nulla di ciò; niuna di tali cose era mai stata autenticata da qualche fatto che fosse a mia notizia; pur tutto questo si era scolpito sì fortemente nella mia immaginazione, era sì verace per me, che quando più tardi vidi coloro, non sapeva persuadermi che tutto ciò non fosse, che tutto ciò non dovesse essere accaduto. Oh! come nell’atto della visione che vi racconto, mi accesi all’udire la querela degli Spagnuoli, come feci presto a far condurre i rei al mio tribunale, a processarli, ad ordinare che fossero impiccati. Che parte di vero vi fosse in tutto ciò, si vedrà a suo tempo. Certamente, o queste immaginazioni si fossero così disposte nella mia mente, o in quell’estasi un segreto consorzio di spiriti ve le avesse infitte, vi era, lo ripeto, una gran parte di vero; non dico d’una verità specificata e letterale, ma generalissima nella sostanza; perchè veramente le scelleraggini, la perfida condotta di que’ cialtroni induriti nella iniquità era stata tale, avea tanto oltrepassato il limite d’ogni mia descrizione, che quella mia specie di sogno si accordava tanto col fatto, che se in appresso avessi usato severità con coloro, cioè se gli avessi fatti impiccare, avrei operato rettamente, nè sarei stato condannabile al cospetto di Dio o a quello degli uomini. Ma si torni alla mia storia.

In questa disposizion d’animo passai molti anni. Io non sapea che cosa fosse goder la vita, che cosa fosse l’avere ore piacevoli, lieti divagamenti fuor quelli che avevano in sè stessi qualche correlazione con l’idea tiranna de’ miei pensieri. Mia moglie che mi leggeva interamente nell’animo, così parlommi sul serio una notte.

— «Io vi credo dominate da qualche segreto impulso della Providenza che v’abbia predestinato ad imprendere nuovi viaggi, nè vedo altra cosa che vi rattenga da ciò fuor de’ legami in cui vi stringe lo stato di padre e soprattutto quello di buon marito. È vero che non potrei reggere all’idea di separarmi da voi; sono per altro certa qual sarebbe, se venissi a mancare io, la prima delle vostre risoluzioni. Non vorrei, se i turbamenti cui soggiace il vostro animo fossero, come sembra, il segnale di una determinazione venuta dall’alto, esserne io unicamente un ostacolo all’adempimento; laonde se giudicaste opportuno, se credeste bene di.....»

Qui si fermò. La pose in iscompiglio il modo concentrato con che io stava ascoltando le sue parole.

— «Perchè non proseguite, diss’io, perchè non terminate il discorso che avete cominciato?»

M’accorsi allora dalle lagrime che le spuntavano sul ciglio, quanto fosse gonfio il suo cuore.

— «Parlate, allora soggiunsi, mia cara. Desiderate forse ch’io vada via?»

— «Tutt’altro! ella rispose con affettuosissimo accento. Sono ben lontana dal concepire un tal desiderio: ma se voi aveste deliberato di partire, piuttosto che essere un ostacolo alle vostre determinazioni, verrei con voi; perchè, se bene mi sembri una risoluzione molto fuor di tempo ai vostri anni, pure se la cosa avesse ad esser così (e qui nuovamente si diede a piangere), io non vorrei abbandonarvi. Se l’inspirazione vi viene dal cielo, dovete seguirla: è vano il resisterle. Ma se il cielo prescrive a voi come un dovere il partire, rende ad un tempo un dover mio l’accompagnarvi, o disporrà altrimente le cose io modo, che in me non troviate un inciampo.»

Questo affezionato contegno della mia compagna mi riscosse alcun poco dal mio delirio; onde cominciai a pensare meglio ai casi miei. Sedata alquanto la mia smania di vagare pel mondo, mi diedi a far pacatamente queste considerazioni. «Che bisogno ho io con sessanta anni su la groppa e dopo una vita tutta di fastidî e di patimenti terminata in sì bella e comoda maniera, che bisogno ho di comprarmi nuovi rischi e di cacciarmi nuovamente nella vita del venturiere, buona solamente pei giovani e per gli spiantati?»

Oltre a queste considerazioni, pensai ai miei obblighi verso la moglie, un figlio già nato e quello che nascerebbe, perchè ell’era incinta. Meditai come avessi già tutto quello che il mondo potea darmi, nè vi fosse cagione perchè io pescar dovessi pericoli per amor del guadagno; declinar le mie forze col crescer degli anni, e dover io pensare a congedarmi dalle ricchezze accumulate anzichè ad aumentarle. Quanto alla possibilità di un impulso celeste che mi obbligasse a tentar nuovi viaggi, mia moglie veramente lo avea detto, ma questo comando del cielo io non sapeva vederlo. Così dopo molte considerazioni e lotte con la mia immaginazione, fattomi forza per ragionare a mente fredda e fuor d’ogni preoccupazione, che è quanto, cred’io, in simili casi ciascuno dovrebbe fare, riuscii finalmente a domare la mia fantasia. Mi acchetai a quegli argomenti che meglio calzavano ad un posato raziocinio, e che mi forniva in abbondanza la presente mia condizione.

Soprattutto, come espediente più efficace al mio fine, risolvei distrarmi con altre cose, e darmi a tali occupazioni, che mi tenessero tanto legato il pensiere da non poter correre alle antiche fantasie, perchè osservai che queste mi assalivano principalmente quand’era ozioso e non aveva nulla da fare, almeno per qualche momento. Con questo proposito comperai un piccolo podere nel territorio di Bedford, ove deliberai di andare io stesso a mettere stanza. Quivi era una piccola casa acconcia ad abitarvi, e circondata di campi atti a ricevere grandi miglioramenti. Ciò s’affaceva per molti rispetti alla mia grandissima inclinazione alla coltura, al governo, al piantare e migliorar terreni; e, ciò che era più, essendo quel podere in una provincia molto mediterranea, io era fuor dell’occasione di conversare con uomini di mare, e di pensare a cose che si riferissero alle remote parti del mondo.

In una parola, andai ad abitare sul mio fondo; e, stabilita quivi la mia famiglia, mi provvidi d’aratri ed erpici, di carra di varie fogge, di cavalli, di bestiame grosso e minuto; poi datomi seriamente all’opera, non passò un mezz’anno ch’io era divenuto uno schietto gentiluomo campagnuolo: non pensava più che a governare i miei famigli, a far coltivare la terra, a mettere siepi, a far piantamenti e simili lavori rurali; onde mi parea di vivere la più felice vita che la natura potesse additare, o cui potesse ripararsi un uomo battuto non interrottamente dalle disgrazie.

Io fittaiuolo de’ miei propri terreni non aveva affitti da pagare, non patti che mi vincolassero: io poteva costruire o abbattere a mio piacimento; gli alberi ch’io piantava mi appartenevano; i miglioramenti ch’io faceva andavano alla mia famiglia; abbandonata ogni idea di vagare attorno, la vita non avea sconforti per me in questo mondo. Da vero io credeva ora di godere quel mezzano stato della vita che il padre mio raccomandavami con tanto fervore: specie di celeste vita somigliante a quella descritta dal poeta per la vita campestre:

Scevra di vizi, di rimorso e affanni,
     Ai disagi non è vecchiezza in preda,
     Non gioventude a seducenti inganni.

Ma in mezzo a tanta felicità, un colpo non preveduto del destino venne a confondermi tutto ad un tratto, nè solamente mi fece una ferita inevitabile ed incurabile, ma con le sue conseguenze mi fe’ ricadere nelle mie antiche propensioni a vagare pel mondo: male, come ho detto, che io aveva nell’osso. Questo ritornò ad abbrancarmi, e, siccome la recidiva d’una violenta malattia, piombò su me con tale irrestibile forza, che niun’altra impressione me ne poteva omai liberare. Questo colpo fu la morte di mia moglie.

Non intendo qui di comporre un’elegia ad onore di essa, non di descrivere le sue particolari virtù, non di far la corte al bel sesso col tesserle un’orazione funebre. Essa era, in una parola, il perno di tutti i miei affari, il centro di tutte le mie imprese; la prudenza di lei era il solo regolatore che mi manteneva in quel fortunato equilibrio a me sì necessario per non ricadere negli stravaganti e rovinosi disegni fra cui la mia mente ondeggiava. Ella valeva a governare i miei fantastici ghiribizzi meglio di quanto avessero potuto le lagrime di una madre, i consigli paterni, quelli d’un amico o la facoltà della mia ragione. Io che mi tenea fortunato nel lasciarmi vincere dalle sue lagrime, nell’arrendermi alle sue preghiere, non vi so dire a qual grado mi trovassi derelitto e sbalestrato sopra la terra dopo averla perduta.

  1. Il lettore non perderà certamente di vista che il protagonista di questa storia viveva nel secolo decimosettimo

Note

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