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Traduzione dall'inglese di Gaetano Barbieri (1842)
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Presente di una Bibbia; digressione non priva d’attrattiva; partenza dall’isola.
Nella mattina precedente a questa mia visita mi era venuto in mente che tra le cose necessarie distribuite e prima e dopo ai miei coloni, non aveva pensato a lasciar loro una Bibbia; nel che mi mostrai bene più mal avvertito rispetto a loro, che non fu a mio riguardo quella mia buona amica, quella vedova inglese quando nel farmi giugnere da Lisbona un carico del valore di cento sterlini v’introdusse tre Bibbie e un libro delle preghiere. Da vero la carità di quest'ottima donna fu più estesa nelle sue conseguenze, di quanto se lo avesse immaginato ella stessa, perchè il suo donativo servì al conforto e all’ammaestramento d’individui che ne profittarono assai meglio di me.
Io avea dunque presa meco una di queste Bibbie nel venire alla casa di Guglielmo Atkins, e fu allora quando mi raccontò con eccesso di gioia l’amicizia intrinseca che avevano contratta insieme la nuova battezzata e la giovine inglese. Gli chiesi se in quel momento erano insieme; mi rispose di sì. Entrato pertanto in compagnia di lui, le trovai di fatto che stavano discorrendola seriamente fra loro.
— «Ah mio signore! disse Atkins, quando Iddio ha peccatori da richiamare a sè o estranei da ricevere nel suo grembo, non gli manca mai un apostolo; mia moglie ha fatto acquisto d’un nuovo maestro. Io capiva bene quanto fossi immeritevole e incapace; questa giovine l’ha mandata il cielo; ella basta alla conversione di una intera isola di selvaggi.»
Divenuta rossa quella buona creatura si alzava per andarsene, ma io la pregai a fermarsi.
— «Voi avete per le mani, le dissi, un santo lavoro, e spero che Dio vi benedirà col farvelo riuscire in bene.»
Parlammo insieme alcun poco, indi avendo veduto, benchè non lo domandassi, che non si trovavano lì attorno libri di sorta alcuna, mi posi le mani in tasca e trattane fuori la Bibbia, mi volsi ad Atkins.
— «Vi ho condotto qui, amico, un assistente che dianzi forse non avevate.» Il poveretto rimase sì sopraffatto dalla gioia alla vista del mio donativo che per qualche tempo non fu buono di dire una parola; finalmente riavutosi, prese il sacro volume con entrambe le mani, e così si voltò verso la moglie.
— «Non te lo dissi, Maria, che il nostro Dio, anche da stare lassù, avrebbe esaudite le nostre parole? È questo il libro che lo pregai mandarmi quando c’inginocchiammo tutt’e due fra le boscaglie. Iddio ne ha ascoltati e ci ha mandato il libro.»
Nel dir queste cose, lo traevano tanto fuor di sè e la contentezza del dono ricevuto e la gratitudine verso il donatore che gli scorrevano le lagrime in su le gote come ad un fanciullo che piange.
Restò attonita la selvaggia fatta cristiana e lo dovea, perchè corse in un equivoco che non isfuggì a nessuno di noi. Ella credea fermamente che quel libro fosse inviato dal cielo dietro la supplica di suo marito. Egli è vero che la providenza lo avea veramente mandato e che, intendendo la cosa in questo senso, la donna non avrebbe creduta una falsità. Certo, a quanto mi parve, non sarebbe stato difficile il rifermare per allora quella semplice creatura nella persuasione che fosse venuto espressamente un messaggiero dall’alto per portare quel libro a suo marito; ma si lavorava ad un’opera troppo seria per imbrattarla con illusioni, onde dissi alla nuova istruttrice:
— «Sarebbe un grave fallo il nostro se profittassimo dello stato intellettuale di questa nuova convertita, non ancora istrutta pienamente di tutte le cose, per darle a divedere il falso. Vi prego dunque farle capire come sia un parlar figurato l’affermare che Dio risponde alle nostre suppliche, ogni qual volta nel corso della sua providenza conduce le cose ad un fine analogo ai voti espressi nelle preghiere che gli facciamo; ma le insegnerete ancora che non dobbiamo aspettarci queste risposte per vie miracolose e poste fuori dell’ordine della natura; ed è anche questa una grazia della providenza medesima.»
E ciò fece l’amica della selvaggia a poco a poco, onde v’assicuro io che non c’entrò inganno di niuna maniera. Avrei creduta la più abbominevole delle colpe il solo tollerarlo. Ma la sorpresa di Atkins è difficile a descriversi, e nemmen qui c’era inganno sicuramente. Potrebbe giurarsi non esservi mai stato uomo al mondo grato ad un servigio prestatogli come lo fu egli per quella Bibbia, nè uomo che siasi allegrato tanto d’una Bibbia per un motivo migliore. Benchè questo Guglielmo Atkins fosse ne’ tempi addietro un verissimo rompicollo, un disperato, un furioso, un famoso malvagio egli fu ciò non ostante una lezione permanente per chi ha figli da educare; e la lezione è: che per quanto apparisca caparbio, insensibile alle ammonizioni un fanciullo, il padre non dee lasciarsi cadere le braccia e disperare del buon successo de’ propri sforzi; perchè, se mai Dio arriva nella sua provida bontà a toccare la coscienza di questo fanciullo divenuto adulto, la forza della prima educazione ritorna, la primitiva istruzione de’ genitori non è perduta; quantunque sia stata per molti e molti anni lasciata da banda, una volta o l’altra ne sentiranno il benefico effetto. Così accadde con quel povero uomo. Ancorchè ignorantissimo e divenuto affatto digiuno delle cristiane dottrine, trovò, avendo che fare con una persona assai più ignorante di lui, che quella menoma parte degl’insegnamenti del suo buon padre, non cancellatasi mai affatto dalla sua memoria e opportunamente tornatavi, gli fu giovevole.
— «Fra le cose de’ miei prim’anni ricorsemi alla mente, mi diceva Atkins, vi fu tutto ciò che ho udito dal mio povero padre su l’inestimabile valore della Bibbia, su i conforti e le benedizioni da essa versati su le famiglie, su i popoli, su gl’individui; ma di tanti pregi d’un tal libro non mi sono per mia disgrazia accorto sino al momento in cui, posto al caso d’istruire pagani, selvaggi e barbari, ho dovuto sentire che mi mancava l’oracolo scritto della nostra fede.»
Anche la novella sposa dell’uomo da tutti i mestieri fu contenta di trovarsi lì una Bibbia, benchè, a dir vero, ne possedesse un esemplare ella ed un altro il suo giovine padrone; ma questi libri non vi erano stati infino a quell’ora sbarcati.
Ora, poichè ho narrate tante cose so i meriti di questa giovine, non posso starmi dall’aggiugnere una storia che risguarda lei e me in parte ancora, e che contiene alcun che di notabile assai ed istruttivo.
Ho già raccontato a quali estremità questa povera creatura si vedesse ridotta allorchè la sua padrona, consunta dalla fame, morì a bordo dello sfortunato bastimento popolato d’individui, tutti, come ne ho fatto la descrizione, sul punto di morire affamati. Ho detto parimente come la signora, il figliuolo di lei e questa cameriera fossero stati trattati peggio degli altri nella distribuzione dei viveri di cui finalmente furono lasciati del tutto senza; onde la signora morì, i due altri provarono in più spiccata guisa gli stenti ultimi della fame. Un giorno ch’io stava discorrendo con questa cameriera su tal genere d’orribile angoscia a cui essa e il suo giovine padrone andarono soggetti, le domandai se mi saprebbe descrivere la natura degli spasimi che sofferse e i sintomi che si mostrano a mano a mano nel progresso di tale calamità. «Credo di poterlo» ella mi rispose e mi raccontò con molta chiarezza ciò che siete per leggere.
— «Erano già alcuni dì che stavamo assai male ne’ nostri pasti, e soffrivamo fami tremende. Venne finalmente quel giorno in cui non ne fu dato nutrimento di sorta alcuna, se si eccettui un po’ di zucchero e di vino mescolato con acqua. Nel primo giorno di questo totale digiuno mi sentii un certo vuoto e sconvolgimento allo stomaco; poi, venendo la notte, una grande voglia di sbadigliare e dormire. Postami in letto nella grande stanza della foresteria, dormii circa tre ore, e mi trovai alquanto ristorata nello svegliarmi; forse fu perchè prima d’andare a letto aveva bevuto un bicchiere di vino. Dopo essere rimasta svegliata tre ore, verso le cinque della mattina il vuoto e la molestia dello stomaco si fecero sentire più gagliardamente, onde tornai a coricarmi, ma senza potere prendere sonno del tutto perchè era da vero spossata ed inferma. Così continuai tutto il secondo giorno fra stravaganti alternative, prodotte or dal senso della fame, or dalla nausea dello stomaco, talvolta da impeti di vomito.
«Alla seconda notte mi toccò parimente d’andare a letto così digiuna, avendo solo bevuta una tazza d’acqua. Addormentatami, sognai di trovarmi alla Barbada in mezzo ad un mercato zeppo di cose buone a mangiarsi, d’averne fatta provvigione d’alcune, poi d’essermi posta a tavola e d’aver mangiato con grande appetito. Mi parve d’aver con ciò satollato il mio stomaco come chi venga via da un pranzo lautissimo; ma svegliatami, qual fu l’oppressione del mio spirito all’accorgermi ch’io provava più che mai le angosce della fame! Bevei l’ultimo bicchiere di vino che mi restava mettendovi entro un po’ di zucchero e sperando che quanto v’è di sostanzioso in questa droga, mi tenesse luogo di nutrimento; ma non essendo nel mio stomaco alcuna sostanza su cui gli organi della digestione potessero esercitare l’ufizio loro, l’effetto derivato dal vino fu di sollevarmi disgustosi vapori dallo stomaco e portarmeli alla testa, onde io rimasi per qualche tempo, così m’han detto, stupida, insensata e come ubbriaca.
«Nella mattina del terzo giorno, dopo aver passata la notte fra sogni strambi, confusi e sconnessi e sonnecchiato più che dormito, mi svegliai rabbiosa e fatta furente dalla fame. Il delirio del mio furore famelico era tale che, se fossi stata una madre e avessi avuto a canto il mio bambino, non giurerei, semprechè questa considerazione non m’avesse tornata padrona del mio intelletto, non giurerei di non aver potuto divenire capace di un matricidio. Durò tre ore tal mia frenesia, nel qual tempo diedi due volte in pazzie che non ne fa di minori qualunque poveretto rinchiuso nel Bedlam (l’ospitale dei pazzi), come mi raccontò il mio giovine padrone e come potete sentirvelo confermare da lui.
«In uno di questi accessi di demenza caddi battendo la faccia contro di un angolo del letticciuolo della mia padrona con tanta violenza che mi fece sanguinare il naso. Veduto ciò, il mozzo di camera mi portò un picciolo bacino, entro cui, sedutami sul tavolato, lasciai piovere molta copia di sangue, dal che, come accade dopo un salasso, fu abbattuta la violenza della mia febbre e scemato anche in qualche parte l’ardor vorace della mia fame; per allora ricuperai la ragione. Poi mi riassalsero le nausee; mi provai a vomitare, ma non potei rigettar nulla, perchè nulla eravi nel mio stomaco. Dopo avere perduto il sangue per qualche tempo, caddi in tal deliquio che mi credettero morta; ma rinvenuta bentosto, mi sentii nelle viscere un’angoscia che mi è difficile lo spiegare, non simile ai dolori colici, ma una straziante convulsione che la fame eccitava in essi; verso notte si sedò alquanto, convertendosi in un’ardente voglia di tale o tal altro cibo, simile, io suppongo, alle voglie delle donne incinte.
«Bevei un’altra tazza d’acqua inzuccherata, ma il mio stomaco ebbe a schifo lo zucchero e la rigettò immantinente; ne presi indi un’altra d’acqua semplice, e questa la ritenni. Mi posi in letto pregando di cuore il buon Dio che mi chiamasse ad un mondo migliore traendomi da questi stenti. Acchetato l’animo mio in tale speranza, dormii alcun poco; indi svegliatami, credei di morire allora sopraffatta e rifinita dai vapori che esalano da uno stomaco vuoto. Raccomandai la mia anima a Dio, e se qualcuno m’avesse gettata in mare, l’avrei avuta per una carità.
«In tutto il descritto tempo la mia padrona stava coricata vicino a me, moribonda anch’essa, come ben doveva immaginarmelo, ma fornita di maggior pazienza, che non ne aveva io, nel sopportare la sua disgrazia. Ella diede l’ultimo tozzo di pane rimastole al mio giovine padrone, al suo figliuolo, che non voleva accettarlo; ma ella lo costrinse a mangiarlo: fu questo, io penso, che gli salvò la vita.
«Sul far del mattino m’addormentai nuovamente, e allo svegliarmi fui sorpresa da un impeto di pianto, a cui succedè un secondo accesso di famelica frenesia. Tornai dunque nel mio vorace furore e in una condizione sempre più orrida che per lo innanzi; se la mia padrona si fosse in quel momento trovata morta, son certa che, ad onta del mio tenerissimo amore per essa, avrei mangiato un brano delle sue carni con quell’appetito e indifferenza onde si mangia ogn’altra carne atta a mangiarsi. Una o due volte mi sentii spinta a lacerarmi coi denti la carne delle mie braccia. Finalmente, avvedutami del bacino ove stava il sangue sgorgatomi dal naso il dì innanzi, vi corsi precipitosa e trangugiai quel sangue subitamente e con ingorda avidità come se mi fossi maravigliata ch’altri non m’avessero prevenuta e temessi che qualcuno venisse a portarmi via tal genere di pietanza. Ne inorridii di poi; nondimeno ciò valse a sedare alquanto gl’impeti della mia fame; indi bevuta un’altra tazza d’acqua, mi sentii calma e ristorata per alcune ore.
«Queste cose eran avvenute nel quarto giorno in cui stetti men male fin verso la notte. Allora nel giro di tre ore provai una dopo l’altra tutte quelle dolorose sensazioni cui era soggiaciuta dianzi; vale a dire il parossismo della febbre, il sonnecchiare, i dolori strazianti dello stomaco, poi la voracità, di nuovo la nausea, la frenesia, il pianto e la voracità un’altra volta, e così in ciascun quarto d’ora: orrida vicenda che stremò le mie forze oltre ogni misura; mi gettai finalmente sul letto senz’altro conforto che la speranza di non esser viva nella successiva mattina.
«In tutta questa notte non presi sonno; perchè la mia fame si era trasformata in una colica tormentosa prodotta dall’aria che in vece del cibo avea trovata la via ne’ miei intestini. In tale stato penai fino a giorno, allorchè mi sorpresero i pianti e la disperazione del mio giovine padrone, il quale veniva a dirmi che sua madre era morta. Mi alzai un poco a sedere sul letto, perchè la mia debolezza non mi permetteva d’alzarmi; vidi per altro che la mia padrona vivea tuttavia, benchè desse soltanto tenuissimi segni di vita.
«Le nuove convulsioni dappoi al mio stomaco derivate da questa continuata mancanza d’ogni alimento, furono tali che non valgo a descriverle. Gli spasimi, le angosce della fame che provai possono soltanto essere paragonate con l’agonia della morte. Io era in tal posizione quando udii i piloti che stavano sul piano superiore alla mia stanza gridare: Una vela! una vela! e urlare e far salti come se fossero impazziti.
«Io non era buona d’alzarmi dal mio letto, e molto meno la mia padrona, e il figliuolo di lei si trovava sì rifinito ch’io credea stesse morendo; nessuno di noi potè dunque aprir l’uscio della stanza, nè per conseguenza raccogliere alcun che sul motivo da cui procedea tutto questo sconquasso. Erano già due giorni che non avevamo veruna relazione con la ciurma del vascello, niuno della quale si lasciò più vedere dopo averci detto che non avevano più un morsello di sostentamento nemmen per sè stessi. Anzi in questi due giorni pensarono, come me lo hanno raccontato da poi, che tutti e tre fossimo morti. Tale era il caso nostro quando ne foste mandato dal cielo a salvare quelle vite di noi che potevano ancora esser salvate. In quale stato ci trovaste lo sapete al pari e anche meglio di me.»
Tal fu la relazione di quella giovine; pittura la più precisa degli stenti della fame portata all’ultimo grado; la qual disgrazia, in mezzo a tutte le mie traversie, non mi essendo mai intervenuta, confesso che fu un racconto per me interessantissimo. Tanto più inchino a crederne i particolari, chè una gran parte di essi mi era stata raccontata precedentemente dal giovine padrone della mia narratrice; non per altro, bisogna dirlo, sempre con ugual nitidezza, e ne è chiaro il perchè. Gli pesava troppo l’idea d’avere forse avuta salva la vita a costo dei giorni della sua buona madre; la povera cameriera al contrario non poteva avere ritegno rispetto alla sua padrona; perchè, se bene essendo dotata di una complessione più robusta di questa donna attempata e in oltre assai cagionevole, potesse lottare più a lungo con la fame, pure fu ridotta agli estremi un po’ più presto di questa stessa padrona, che si serbò fino all’ultimo (ed era da compatire poichè lo faceva pel figlio) una briciola di pane senza farne parte ad una sì amorosa servente. Non v’ha dubbio che, ammessa la verità del caso qui raccontato, se il nostro vascello, o qualchedun’altro, non fosse stato condotto da una grazia speciale della providenza a scontrarsi in que’ poveri sgraziati, fra pochi giorni sarebbero stati tutti morti, quando mai non si fossero sbramata la fame col mangiarsi a vicenda. E ciò ancora gli avrebbe tenuti in vita ben poco, perchè erano lontani cinquecento leghe da qualunque terra e posti fuor d’ogni possibilità di un soccorso che non fosse miracoloso, come fu appunto un vero prodigio l’abbattersi in noi. Ma si lasci questa digressione, e si torni alle disposizioni che lasciai per la mia colonia da cui mi partiva.
Vi ho parlato de’ pezzi d’un palischermo da connettersi insieme unicamente per farne un legno atto a mettersi in mare, portati meco fin quando salpai dall’Inghilterra, con l’intenzione di farne un presente alla mia colonia. Or non solo non glieli feci vedere, ma non lasciai nè manco che ne sospettassero l’esistenza, e ve ne dico il perchè. Trovai, almeno ne’ primi momenti del mio sbarco, tali semi di divisione fra loro, ch’io vidi pienamente come sarebbe stata una cattiva politica per parte mia il mettere in mano di essi questo sussidio che gli avrebbe stimolati, al menomo piccol disgusto che sorgesse fra loro, a separarsi e ad andarsene via gli uni dagli altri; forse anche a darsi alla vita di pirati e trasformar la mia isola in un covo di ladroni anzichè essere una piantagione di morigerati e religiosi coltivatori, come io aveva nell’animo di renderla. Per lo stesso principio non dissi loro nulla nè de’ due pezzi di cannone che aveva portato meco, nè del soprappiù de’ due cannoni corti fatti prendere a bordo da mio nipote. Pensai d’aver fatto abbastanza col porre quegli abitanti in istato di sostenere una guerra difensiva contro a qualunque invasore senza dar loro un incentivo ad imprendere guerre offensive o a vagare attorno, facendosi assalitori degli altri. Mi serbai non pertanto i palischermi e i cannoni per giovarli in altra maniera, come sarà detto a suo luogo.
Terminato or quanto io m’era prefisso di ultimare nell’isola, e sicuro di lasciarli tutti in una buona e florida condizione, mi recai a bordo del mio bastimento ai 6 di maggio dopo essere stato con essi venticinque giorni; e poichè li vedeva tutti risoluti a rimanere nell’isola finchè io, quando a Dio ne sarà in piacere, non venissi a levarneli, gli promisi di loro provvedere, appena giunto al Brasile, di nuovi soccorsi alla prima opportunità che me ne capiterebbe; e soprattutto di spedire a quella mia colonia alcune diverse specie d’armenti, come pecore, animali porcini e buoi. Quanto alle due vacche e ai vitelli che aveva portati meco dall’Inghilterra, gl’indugi avuti nel nostro viaggio ci costrinsero a macellarli per mancanza di fieno onde nutrirli.
Nel dì successivo pertanto spiegammo le vele, dando il saluto della partenza ai coloni con cinque spari di cannone. In ventidue giorni circa arrivammo alla baia di tutti i Santi nel Brasile: e il solo avvenimento degno di ricordanza, che occorse durante quella traversata, e quello che m’accingo ora a narrare.