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CASTEL DEBOLE
Non lo invento io.
Castel Debole non è ora che un povero casale sul Reno, tra Borgo Panigale e Casalecchio, cioè tra la prima e la seconda stazione della ferrovia Bologna-Firenze; ma una volta, quando si chiamava Castel Forte, era una rocca inespugnabile che dominava un guado importante del fiume, pochi chilometri al ponente di Bologna. Ed ecco la sua leggenda, che non ha nulla d’inverosimile.
Verso il mille (le date sono incertissime) Castel Forte era di Maghinardo, o Manardo, figlio di Ugolino da Tizzano. Non so da quanto tempo la famiglia da Tizzano possedesse quel feudo; ma pare che non fosse da molto. A ogni modo, quando Ugolino morì, Manardo era appena ventenne, e la morte del padre, seguìta pochi giorni dopo quella della madre e di Bertrada sua zia paterna, lo afflisse per modo che voleva farsi monaco dell’abazia di Labante. La sua vocazione era tenuta viva da un prete, che la leggenda chiama sacerdos Medulanus, senza dirne il nome.
L’affare era più grave di quel che paresse. Bologna era già guelfa, e i feudatari che la circondavano erano ghibellini. Cominciava la gran lotta tra i Comuni e i feudi. I conti di Panico, ghibellini sfidati, dominavano gran parte della valle del Reno, sbarrando le comunicazioni tra Firenze e Bologna. Ora Castel Forte, che dominava un guado importante, faceva gola alle due parti; e i bolognesi molto probabilmente non erano estranei alle pie esortazioni che il sacerdos Medulanus prodigava al giovane Manardo. Stavano per ottenere il castello coll’aiuto di Dio, quando i conti da Panico pensarono di mantenerlo alla loro parte coll’aiuto del diavolo.
Berta, castellana di Malfolle e parente dei conti da Panico, era vedova con una figlia chiamata Ilda nella leggenda; ma il nome è probabilmente sfigurato, essendo più comune allora quello di Elda. Comunque sia, fu dopo un colloquio con Azzo da Panico che ella si decise a recarsi in pellegrinaggio all’abazia di Nonantola presso Modena; e con la figlia e poca gente scese alla pianura. Giunse a Castel Forte il 22 luglio, poichè la leggenda dice che fu il giorno festivo di Santa Maria Maddalena, in die Plenilunii.
Quel che segue è detto in poche righe nella leggenda; ma siccome è facile immaginare i particolari, eccoli qui.
La madre era molto astuta e la figlia molto bella. Su questo, come vedrete, non può cader dubbio; ma benchè non sia difficile capire qual fosse il piano combinato tra Azzo da Panico e Berta da Malfolle per far andare a male la vocazione di Manardo, è curioso il modo con cui l’astuta vedova e la sua bella figlia l’eseguirono.
Da Panico a Castel Forte, anche con le stradacce d’allora, si vien presto e il giorno era ancor alto quando le due donne chiesero ospitalità al pio Manardo. L’ospitalità era esercitata largamente in quei tempi, specialmente tra i castellani che, alla lontana, erano sempre un po’ parenti. Le donne venivano col pretesto di un devoto pellegrinaggio, il giorno era festivo, e naturalmente Manardo le accolse bene.
Furono servite di rinfreschi nella più bella sala del castello.
Tutto il lusso possibile a quell’epoca abbelliva la sala d’onore. La vicinanza della città e le proficue scorrerie del defunto signore contro i castelli guelfi della pianura, avevano fatto di Castel Forte una delle più ricche dimore del Bolognese.
La graziosa figura d’Elda, in cui fioriva tutta la solida e plastica sanità montanina, spiccava superbamente sulle pareti brune, rivestite di quercia scolpita e di cuoio. I suoi grandi occhi, un po’ sorpresi dalla novità delle cose e delle facce, si fissavano negli occhi del pio giovane coll’ardimento ingenuo dell’adolescenza, e le labbra, il cui roseo turgore tradiva il destarsi della sensualità, si aprivano spesso a un sorriso inconsciamente procace. Ogni moto della giovinetta aveva l’eleganza tentatrice, la morbidezza femminea cui la chiesa di quei tempi e il sacerdote Medulano opponevano i più possenti esorcismi; e tutte le promesse della tentazione, tutte le seduzioni del peccato parlavano ai sensi da quegli occhi limpidi e profondi, da quelle forme fiorenti di gioventù e di bellezza.
Quella viva incarnazione d’amore che sorrideva inconscia della sua potenza, turbò profondamente il povero Manardo, cui i doveri dell’ospitalità imponevano di servire con le sue mani le pellegrine. Invano abbassava gli occhi, poichè un piedino maraviglioso, serrato in una fina e appuntata scarpetta di cuoio giallo, si affacciava irrequieto all’orlo della veste come per prendere anch’egli la sua parte nei turbamenti del giovane. Credeva ad una malìa di Satana e tentava inutilmente di non vedere e di non sentire, rannicchiandosi nei suoi divoti pensieri; ma la voce fresca e tranquilla di Elda veniva a distrarlo. Sentiva ogni suo moto senza guardarla ed aveva la coscienza di essere in pericolo senza aver la forza di sottrarvisi.
Berta tentava di tener vivo il discorso, ma si facevano dei lunghi silenzi, durante i quali il giovane moveva le labbra, pregava.
A sera fu peggio.
I caldi tramonti di luglio non sono fatti per le meditazioni ascetiche. Il sole che discende rosso dietro ai piani modenesi, saetta i raggi orizzontali sui colli dalle forme curve, quasi muliebri, li veste di un colore roseo che par di carne. Sembra che la terra intorpidita dall’arsura diurna si risvegli come ad una nuova aurora e frema alla carezza delle fresche aure serali. Le foglie immobili cominciano ad agitarsi lente lente e il fiume, già fulgido specchio d’argento, prende il color verde degli occhi delle ondine tentatrici. Tutto si risveglia, anche il desiderio.
Le prime ore della notte, col tremulo bagliore delle stelle, con le vampe tiepide e profumate che alitano per la valle, con quel mistero della penombra dove s’indovina un fermento di amore e di fecondità, danno una molle sensazione che pare un principio di ebbrezza. Ai profondi silenzi succedono larghe vibrazioni di voluttà, e passano le lucciole a sciami sulle stoppie arse, cantano gli usignoli nelle macchie, e il fiume mormora gli ineffabili epitalami della notte. Nelle tenebre tiepide si compiono nozze misteriose, e l’amore palpita nel grembo della terra come il sangue nelle arterie dell’uomo.
È allora che il pieno disco della luna si leva e sale diffondendo la sua luce fredda sui campi deserti. Le ombre nere si allungano sui piani argentei e la corrente risplende qua e là di pagliuzze d’oro. Tutto a poco a poco si calma e riposa nella formidabile solennità della notte.
Il povero Manardo sentiva i fiotti del sangue bollente salirgli alle gote ed al cervello. Ebbe le vertigini di chi si affaccia all’abisso e chiese di nuovo la pace alla preghiera.
Proprio sull’ultima sponda del fiume, circondata da pochi salici e da una siepe di carpini, era una sottile colonna di pietra che reggeva una madonnina scolpita. Fu là che Manardo s’inginocchiò, chiedendo la calma del sangue alla fresca brezza notturna e la pace dell’anima alla Vergine sua protettrice. E stava chino umilmente, quasi prosteso a terra, allorchè un suono di passi ed un fruscìo di vesti lo scosse. Erano le donne. Lo sentì e rabbrividì come ad un pericolo mortale, ma subito fu colto da un gran disprezzo di sè medesimo e della sua debolezza. Dunque egli era così poco avanti nella grazia, che una tentazione delle più comuni lo poteva turbare sino alle midolla delle ossa? Gli vennero in mente esempi di santi che avevano resistito a più forti lusinghe, che avevano anzi sfidato il peccato e, per virtù della fede, erano usciti vincitori nella lotta da loro stessi cercata. Volle esser forte, volle vincere l’interno nemico a forza di volontà e di fede, volle castigare la propria fiacchezza condannandosi a rimaner lì, inchiodato sulle ginocchia, finchè le donne non fossero partite.
Ma non partivano. Si erano fermate a pochi passi da lui, dietro i carpini. Udiva le loro parole, sentiva il fruscìo delle loro vesti sui rami bassi e capì.... Si spogliavano per scendere nel fiume.
La sua condizione diventava terribile, ma tuttavia si ostinò a non muoversi, come se al di là della siepe non ci fosse nessuno. Si teneva il capo stretto tra le mani invocando il soccorso divino, ma un pensiero attraversava le sue preghiere: — Se guardassi? Lo scacciava inorridendo; ma ritornava, e gli dava la febbre. Appoggiava la fronte alla colonna per sentire il refrigerio di quel freddo, sentiva distintamente coll’orecchio le pulsazioni frettolose del cuore.
Ma sentiva anche le donne parlare sottovoce, ed ogni parola rivelatrice era un nuovo assalto. Sentiva sciogliere i cordoni, e le vesti cader sordamente a terra, ed egli si chiamava vile perchè gli veniva l’idea di turarsi le orecchie. La sabbia scricchiolò sotto un piede ignudo che scendeva al fiume, e a un tratto la voce argentina di Elda vibrò nel silenzio, dicendo: — Ah, come è fresca!
La madre dietro ai carpini rispose: — Avanti! avanti!
Il fiume non è profondo, ma dopo alcuni passi fatti con l’acqua sino alla caviglia, si trova improvvisamente uno scalino giù dal quale si dà un tuffo sino alla cintola. Manardo ascoltava suo malgrado il rumore del piedino di Elda nell’acqua, allorchè la giovinetta gittò un grido di spavento. Egli si trovò ritto senza saper come, e.... guardò!
Elda aveva gridato dando il tuffo sino alla cintola nell’acqua fredda. Non era nulla ed ora rideva; ma.... era il plenilunio!
A quella fascinatrice rivelazione della bellezza, Manardo rimase con gli occhi sbarrati, coi nervi tesi e il singhiozzo nella gola riarsa. La fanciulla, ignorando di esser vista, concedeva tutto il candore delle forme agli sguardi del giovane. Rideva, e le divine curve del torso emergevano dall’acqua che le aveva abbracciate con una carezza fosforescente. E ritta sulle anche, sotto i baci della bianca luna, levò le braccia e le portò indietro per sciogliersi i capelli, lasciando ingenuamente trionfare tutta la gloria della sua virginea e superba nudità.
Manardo si sentì soffocare. Gli mancò la vista e cadde rovescio con un rantolo disperato.
Rinvenne disteso sull’erba, e le due donne, appena rivestite, lo soccorrevano. Berta sorrise vedendolo aprir gli occhi, mentre Elda si allontanava arrossendo.
Non so se le nozze fossero celebrate dal sacerdote Medulano, che dovette intenderla male. Certo il castello rimase per allora ai Ghibellini, e i Bolognesi, per dispetto, d’allora in poi lo chiamarono Castel Debole.