< Brani di vita < Libro primo
Questo testo è completo.
Nel bosco
Libro primo - Nebbia in montagna Libro primo - Proprietà letteraria


NEL BOSCO


Scrivo a cento passi dall’idillio.

A cento passi di qui, sulla schiena del monte, c’è un bosco di querce, non molto alte, perchè la scure le martirizza troppo, ma fitto e frondoso. In molte macchie il sole non entra mai e l’erba rimane sempre verde, di quel verde oscuro che rivela il terreno grasso e fresco. Ma il monte non scende verso mezzodì col dolce pendio di un monte dabbene e tranquillo. L’acqua di un torrentello chiassoso lo rose sotto, ed una frana gigantesca tolse l’uniformità alla sua architettura troppo regolare. Dall’alto si vede tutta la possente rovina e la fuga dei massi precipitati al fondo, accavallati, squartati. Una valanga di scogli divelti rovinò giù da questo lato del monte, che rimase come un muro scheggiato, dove, tra risalto e risalto, riescono a saltare solo le capre. Chi si affaccia all’orlo della frana vede in giù il precipizio, il vuoto.

Eppure tra le rocce accatastate in fondo, le querce, qua e là, rinacquero. Scendendo per altra via sino al torrente, sparisce la sensazione dell’orrido che si prova guardando dall’alto, e si gusta una nuova forma dell’idillio, un nuovo aspetto del paesaggio. Anche qui ci sono ombre fresche ed erbe sempre verdi. L’edera, le vitalbe, i muschi si abbarbicano agli scogli e li vestono, i rovi pendono dai crepacci ed i fiori gialli della ginestra si aprono a centinaia per le coste dirute. Il torrente, castigato dalla prima estate, ha perduto la voce e scivola tra i sassi quasi vergognoso. Chi cerca il silenzio lo trova qui, meglio che tra i certosini.

L’idillio è completo per chi bada ai canti dei fringuelli che fanno all’amore nel bosco profondo, od alle note velate dell’usignolo che sonnecchia nei cespugli, cantando in questa tranquillità anche nelle ore meridiane, a dispetto della storia naturale. Tutto ispira la tranquilla melanconia dell’egloga virgiliana, anche il grido rauco della ghiandaia, anche lo strillo acuto del falco, anche il chiocciare pettegolo del merlo che si leva e fugge. Trilli, canti, grida che non sembrano rompere il silenzio solenne, il raccoglimento calmo del luogo e dell’ora. Perchè cercate un Dio pauroso e bieco nel silenzio forzato de’ monasteri, nel raccoglimento voluto ed imposto delle chiese senza luce e de’ chiostri senza vita? Qui bisogna venire a cercare il Dio vero e vivo, il Dio che non ha bisogno di teologi e di sacerdoti; e così nella rivelazione della natura, lo cercarono i pagani e lo trovarono. Il nostro Dio è fuori, dove sbocciano i fiori, dove maturano i frutti e susurrano il suo nome le querce mosse dal vento e cantano le sue lodi gli uccelli nella libertà del bosco. Il nostro Dio è fuori dalle cripte buie, nei cieli azzurri, nei campi ricchi dell’oro delle messi, nel mare immenso, nella verità della giustizia, nel giubilo della bellezza. Fuori dalle chiese è la religione.

Conoscete il vecchio racconto? Al tempo di Augusto e di Tiberio, non ricordo bene, un navigatore attraversava l’Egeo e moveva verso l’Italia. Il vento era propizio e la ciurma sonnecchiava nella quiete del meriggio: solo il nocchiero vegliava. Ad un tratto una voce lo chiamò da lontano, lo chiamò chiaramente per nome; ma il mare era deserto ed il nocchiero si credette vittima di una illusione. Tre volte la voce misteriosa che aleggiava sull’onda, tre volte chiamò il navigante, che finalmente rispose. Disse allora la voce: — Va in Roma e reca la novella che il gran Pane è morto! — A queste parole seguì un tumulto di grida, uno scoppio di lamenti e di pianti, poi tutto svanì nella profondità dello spazio e nel silenzio meridiano.

Ebbene, la voce mentì. Il gran Pane vive ancora sul mare e sulla terra ed assiste al nubiloso tramonto della gran favola giudea.

Egli non ha che un’arma per vincere e trionfare: la libertà. La libertà che uccide tutte le religioni, o traendole allo scetticismo col libero esame, o resistendo alla tirannìa di dogmi irragionevoli, o reagendo contro la compressione del dispotismo canonico: questa libertà del mare e dei boschi, che diviene a poco a poco la libertà de’ consorzi civili. La voce misteriosa mentì. Il gran Pane non è morto.

Di quanti stolti pregiudizi ci avvelenava questa vecchia religione che vive ormai soltanto perchè si è trasformata in partito politico! I polemisti cattolici che infuriano contro il verismo invadente, e lo accusano di far l’apoteosi del brutto, hanno dimenticato troppo presto che nella loro religione la bellezza è il demonio. Hanno dimenticato che S. Ambrogio, uno de’ Padri più tolleranti, tratta la donna di janua diaboli, via iniquitatis, scorpionis percussio, e gli altri non hanno abbastanza vituperi e sporcizie per la bellezza femminile, per l’amore e per la vita. Ogni fiore nasconde un demone, ogni gioia un peccato, ogni minuto di libertà una eternità di dannazione. L’ideale della perfezione è la Tebaide, e Domenico Morelli interpretava fedelmente lo spirito del cristianesimo romano quando ai diavoli che tentano S. Antonio dava le squisite forme della bellezza muliebre. La perfezione cattolica sta nella sporcizia di S. Francesco, nella deformità ulcerosa di S. Rocco, nelle macerazioni contro natura, nel terrore di Dio, del demonio e del mondo. La bellezza e la gioia sono peccati.

Questi boschi che il paganesimo aveva popolato di liete fantasie, il cattolicismo li ha popolati di tentazioni e di demoni. L’anacoreta non fugge solo il mondo, ma la natura, cercando la sterilità del deserto; e i monaci occidentali che si contentano delle cime sassose della Verna o di Subiaco, sono già troppo lontani dalla perfezione dell’anacoreta; sono soldati della Chiesa accasermati su quelle cime, ma pronti a discendere al combattimento non appena l’obbedienza li chiami. E in quei boschi stessi, dove il paganesimo avrebbe visto animarsi la natura e i fauni uscir dalle macchie e le ninfe dalle fonti e dagli alberi, il fedele non trova più che la tradizione di spaventose lotte de’ santi coi diavoli, impressioni miracolose di piedi e di mani nel sasso, sabbati di streghe, reliquie paurose delle pugne antiche tra il cristianesimo e la natura. È prescritto che la creatura debba amare senza fine il Creatore, ma odiare senza misura il creato. La legge di Cristo, che in principio fu d’amore e parve un socialismo uguagliatore ed umano, dopo il trionfo divenne legge di odio universale, santificazione di tutte le tirannie più bestiali e feroci.

Ma il mondo si muove. Alle Esposizioni i soddisfatti vanno vedendo con terrore i prodromi di quell’arte dagli intenti sociali, che videro già e maledissero nelle lettere. Tutto si agita, e chi tende l’orecchio sente i rumori misteriosi che fremono nella foresta quando il succhio comincia a risalire pei tronchi irrigiditi dall’inverno e le gemme inturgidiscono e nel silenzio si desta la vita. Già si comincia ad amare il mondo ed a cercarvi quel che ci promisero al di là della tomba. Sfumano i vecchi ideali, sogni senza forme precise, aspirazioni indefinite ed oziose ad un bello intangibile, ad un bene impossibile, e comincia la ricerca assidua della verità definita, del bello e del bene che possiamo raggiungere. Non c’è bisogno di una Sibilla Cumea per vaticinare la fine di una età e l’inizio di una nuova; tutti lo sentiamo intimamente, anche quelli che, come bimbi, si turano le orecchie per paura del tuono.

E torneremo ad una poesia dove anche l’idillio sarà ammesso, quell’idillio che si scomunica da molti col nome di Arcadia. Già il Carducci, nel Canto dell’amore, ci additava le nuove forme di una poesia della natura, di quella poesia la cui perfezione spaventa nelle Odi barbare. Quello non è l’idillio dell’Arcadia davvero, eppure chi negherà che in quei versi non si trovi una viva ed evidente rappresentazione della natura? Si grida alla poesia pagana! E che per ciò? Al postutto il mondo pagano non si corruppe se non quando abbandonò la via della libertà, di quella libertà che oggi cerchiamo. Perchè non saremo piuttosto pagani che flagellanti?

Le querce susurrano parole d’amore e le fronde si cercano, e le cime si chinano leggermente come per accarezzare le cime vicine. Cantano sempre gli uccelli e cantano d’amore. Fino le stridule cicale cantano a modo loro l’inno della vita.

Chiedetelo a questi boschi, che ve lo diranno. La legge vecchia fu legge d’odio: la nuova sarà di amore.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.