< Canti (1835)
Questo testo è completo.
XXXVIII. Dal greco di Simonide
Spento il diurno raggio Dello stesso


Ogni mondano evento
È di Giove in poter, di Giove, o figlio,
Che giusta suo talento
Ogni cosa dispone.
5Ma di lunga stagione
Nostro cieco pensier s’affanna e cura,
Benchè l’umana etate,
Come destina il Ciel nostra ventura,
Di giorno in giorno dura.
10La bella speme tutti ci nutrica
Di sembianze beate,
Onde ciascuno indarno s’affatica;
Altri l’aurora amica,
Altri l’etade aspetta;
15E nullo in terra vive
Cui nell’anno avvenir facili e pii
Con Pluto gli altri iddii
La mente non prometta.
Ecco pria che la speme in porto arrive,
20Qual da vecchiezza è giunto

E qual da morbi al nero Lete addutto;
Questo il rigido Marte, e quello il flutto
Del pelago rapisce; altri consunto
Dall’egre cure, o tristo nodo al collo
25Circondando, sotterra si rifugge.
Così di mille mali
I miseri mortali
Volgo fiero e diverso agita e strugge.
Ma per sentenza mia,
30Uom saggio e sciolto dal comune errore
Patir non sosterria,
Nè porrebbe al dolore
Ed al mal proprio suo cotanto amore.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.