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Canti patrii - Triste dramma
Canti patrii - Tornerà Canti patrii - Versi detti sulle fosse dei morti a Curtatone e Montanara

TRISTE DRAMMA.


A TE, DONNA, CHE SAI.


          «Io ti amerò. Ma tu, là nel regno dei
               morti, non bevere, ti prego, a quella coppa
               che ti farebbe obliare i tuoi vecchi amici.»
                              Antica Epigrafe greca.


I.

     E tu l’amavi: e, come due narcisi
Raccolti ne la conca d’una foglia,
Soli abbracciati, là sopra quel molle
Sedile di velluto, assaporaste
Ore di ciel che il ciel condanna. Assiso
Egli a’ tuoi piè con gli occhi insazïati
Ti divorava. Con le molli dita
Tu gli lambivi i morbidi capelli
Lampeggiando di colpa; e pei notturni
Silenzi non si udía che il celerato
Battito di due cor. Sopra il cristallo
Provocatore dell’opposto speglio
Si dipingea quella esultante festa
De le fibre; e il color di melagrana
De le tue guance, e il giglio de le sue.
Tu guardavi, e languivi. I due custodi
Angeli vostri in un rimoto canto

Inginocchiati, con le man su gli occhi
Pregavano per voi. Oh! invan sul vostro
Giovin capo, lassù, per lo infinito
Scendean tacite tacite le stelle
La curva del ponente. Il vostro amore
Nulla sapea di tenebre o di luce.

II.

     Ei t’adorava; e tutta volta il regno
Di quel nobile cor ti contendea
Una segreta, povera e potente
Rival, la patria. Le smaniglie d’oro
Di cento braccia profumate e aperte
A un amplesso d’amore, un sol per lui
Anello non valean de le catene
De la misera schiava. Ed una notte,
Mentre confuse tra le assurde fila
De la vagante fantasia sognava
L’Italia e te, che Dio fece sì belle
E colpevoli; ei fu tradito; svelto
A’ lari suoi; cinto di funi. Il carro
Che traea quel magnanimo, passando
Per la tua via, fe’ tremolar i vetri
Del loco ove dormivi. Irrequïeta
Ascoltando balzasti; e poi la greca
Testa celavi päurosamente
Sotto le pieghe de’ fragranti lini,
E quella nota di supremo addio
Che t’invïava il desolato, esclusa
Dai verdi schermi de le tue finestre,
Per l’onde de la bruna aura moría.


III.

     Fra le paludi sorge una cittade
Gagliarda e mesta. Il fiumicel che scende
Da Valdisole qui le virgiliane
Onde propaga in curva di laguna,
Riverberando i lividi fortini.
Quivi la notte, allor che il mondo à pace,
Allor che i rai de la infeconda luna
Sopra gli stagni guizzano, ti pare
Veder di larve battagliere l’ampia
Campagna popolarsi, e le insalubri
Melme dei saliceti, e da la lunge
Udir un canto funeral di voci
Fiorentine che vien da Curtatone.
Su gli erti spalti, ove passeggia muta,
L’ode la scólta barbara, e l’assale
Un arcano terror de la imminente
Ruina de l’impero. Ivi nel fondo
D’un baluardo l’amor tuo fu tratto
Al deserto d’un carcere. Non pianse:
Non pregò: non piegò: sulle annerite
Pareti, al fioco lume che piovea,
Con la consolatrice arte di Giotto
Segnò il profilo de le tue celesti
Sembianze; e da quel dì non fu più solo.

IV.

     Spuntava un’alba gelida. Le nebbie
Fumavano dal lago. In mezzo a un campo

Scellerato spingea le immonde braccia
Un patibolo al ciel, quasi pregasse
D’essere fulminato; e una silente
Siepe di plebe, in ira a Dio, fissava
Coi mille occhi la fronte inalterata
D’un morituro. Ei salutò l’Italia
Serenamente.... Un turbine di nebbie
Coperse il resto. A mezzo il dì dai vani
Ad or ad or de le fuggenti nubi
Usciva il sole a battere sul campo
Deserto, su la fune orrida, su la
Pendula salma d’un gentile ucciso,
E su quel collo ahi! livido, che un tempo
Tu coprivi di baci. Un augellino
Su la trave del martire cantava
Scotendosi la brina. E tu dov’eri
Allora, o donna! che facevi? quale
Era il tuo cor? Io poi conobbi il sacro
Loco de la sua fossa, e là una sera,
Lungamente per lui, per gli oppressori,
Per gli oppressi, pregai. Non anco, o bella,
Era il precoce anemone sbocciato
Su la sua zolla, che tu pur cantavi,
Ahi! rallegrata da un novello amore!


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