< Canti (Leopardi - Donati)
Questo testo è stato riletto e controllato.
I
All'Italia
Canti (Leopardi - Donati) II. Sopra il monumento di Dante

I


ALL’ITALIA


     O patria mia, vedo le mura e gli archi
e le colonne e i simulacri e l’erme
torri degli avi nostri,
ma la gloria non vedo,
5non vedo il lauro e il ferro ond’eran carchi
i nostri padri antichi. Or fatta inerme,
nuda la fronte e nudo il petto mostri.
Oimè! quante ferite,
che lividor, che sangue! oh, qual ti veggio,
10formosissima donna! Io chiedo al cielo
e al mondo: — Dite, dite;
chi la ridusse a tale? — E questo è peggio,
che di catene ha carche ambe le braccia;
sí che sparte le chiome e senza velo
15siede in terra negletta e sconsolata,
nascondendo la faccia
tra le ginocchia, e piange.
— Piangi, ché ben hai donde, Italia mia,
le genti a vincer nata
20e nella fausta sorte e nella ria.


     Se fosser gli occhi tuoi due fonti vive,
mai non potrebbe il pianto
adeguarsi al tuo danno ed allo scorno;
ché fosti donna, or sei povera ancella.
25Chi di te parla o scrive,
che, rimembrando il tuo passato vanto,
non dica: — Giá fu grande, or non è quella? —
Perché, perché? Dov’è la forza antica?
dove l’armi e il valore e la costanza?
30Chi ti discinse il brando?
chi ti tradí? Qual arte o qual fatica
o qual tanta possanza
valse a spogliarti il manto e l’auree bende?
Come cadesti o quando
35da tanta altezza in cosí basso loco?
Nessun pugna per te? non ti difende
nessun de’ tuoi? L’armi, qua l’armi: io solo
combatterò, procomberò sol io.
Dammi, o ciel, che sia foco
40agl’italici petti il sangue mio.

     Dove sono i tuoi figli? Odo suon d’armi
e di carri e di voci e di timballi:
in estranie contrade
pugnano i tuoi figliuoli.
45Attendi. Italia, attendi. Io veggio, o parmi,
un fluttuar di fanti e di cavalli,
e fumo e polve, e luccicar di spade
come tra nebbia lampi.
Né ti conforti? e i tremebondi lumi
50piegar non soffri al dubitoso evento?
A che pugna in quei campi
l’itala gioventude? O numi, o numi!
pugnan per altra terra itali acciari.
Oh misero colui che in guerra è spento,
55non per li patrii lidi e per la pia

consorte e i figli cari,
ma da nemici altrui,
per altra gente, e non può dir morendo:
— Alma terra natia,
60la vita che mi desti ecco ti rendo. —

     Oh venturose e care e benedette
l’antiche etá, che a morte
per la patria correan le genti a squadre,
e voi sempre onorate e gloriose,
65o tessaliche strette,
dove la Persia e il fato assai men forte
fu di poch’alme franche e generose!
Io credo che le piante e i sassi e l’onda
e le montagne vostre al passeggere
70con indistinta voce
narrin siccome tutta quella sponda
coprîr le invitte schiere
de’ corpi ch’alla Grecia eran devoti.
Allor, vile e feroce,1
75Serse per l’Ellesponto si fuggia,
fatto ludibrio agli ultimi nepoti;
e sul colle d’Antela, ove morendo
si sottrasse da morte il santo stuolo,
Simonide salía,
80guardando l’etra e la marina e il suolo.

     E di lacrime sparso ambe le guance,
e il petto ansante, e vacillante il piede,
toglieasi in man la lira:
— Beatissimi voi,
85ch’offriste il petto alle nemiche lance
per amor di costei ch’al sol vi diede;
voi, che la Grecia cole e il mondo ammira.
Nell’armi e ne’ perigli
qual tanto amor le giovanette menti,

90qual nell’acerbo fato amor vi trasse?
Come sí lieta, o figli,
l’ora estrema vi parve, onde ridenti
correste al passo lacrimoso e duro?
Parea ch’a danza e non a morte andasse
95ciascun de’ vostri, o a splendido convito:
ma v’attendea lo scuro
Tartaro, e l’onda morta;
né le spose vi fôro o i figli accanto,
quando su l’aspro lito
100senza baci moriste e senza pianto.

     Ma non senza de’ Persi orrida pena
ed immortale angoscia.
Come lion di tori entro una mandra
or salta a quello in tergo e sí gli scava
105con le zanne la schiena,
or questo fianco addenta or quella coscia;
tal fra le perse torme infuriava
l’ira de’ greci petti e la virtute.
Ve’ cavalli supini e cavalieri;
110vedi intralciare ai vinti
la fuga i carri e le tende cadute,
e correr fra’ primieri
pallido e scapigliato esso tiranno;
ve’ come infusi e tinti
115del barbarico sangue i greci eroi,
cagione ai Persi d’infinito affanno,
a poco a poco vinti dalle piaghe,
l’un sopra l’altro cade. Oh viva! oh viva!
beatissimi voi
120mentre nel mondo si favelli o scriva.

     Prima divelte, in mar precipitando,
spente nell’imo strideran le stelle,
che la memoria e il vostro

amor trascorra o scemi.
125La vostra tomba è un’ara; e qua mostrando
verran le madri ai parvoli le belle
orme del vostro sangue. Ecco, io mi prostro,
o benedetti, al suolo,
e bacio questi sassi e queste zolle,
130che fien lodate e chiare eternamente
dall’uno all’altro polo.
Deh! foss’io pur con voi qui sotto, e molle
fosse del sangue mio quest’alma terra.
Ché, se il fato è diverso, e non consente
135ch’io per la Grecia i moribondi lumi
chiuda prostrato in guerra,
cosí la vereconda
fama del vostro vate appo i futuri
possa, volendo i numi,
140tanto durar quanto la vostra duri.

  1. [p. 167 modifica]Il successo delle Termopile fu celebrato veramente da quello che in essa canzone s’introduce a poetare, cioè da Simonide; tenuto dall’antichità fra gli ottimi poeti lirici, vissuto, che piú rileva, ai medesimi tempi della scesa di Serse, e greco di patria. Questo suo fatto, lasciando l’epitaffio riportato da Cicerone e da altri, si dimostra da quello che scrive Diodoro nell’undecimo libro, dove recita anche certe parole di esso poeta in questo proposito, due o tre delle quali sono espresse nel quinto verso dell’ultima strofe. Rispetto dunque alle predette circostanze del tempo e della persona, e d’altra parte riguardando alle qualitá della materia per se medesima, io non credo che mai si trovasse argomento piú degno di poema lirico, né piú fortunato di questo che fu scelto, o piú veramente sortito, da Simonide. Perocché se l’impresa delle Termopile fa tanta forza a noi, che siamo stranieri verso quelli che l’operarono, e con tutto questo non possiamo tenere le lacrime a leggerla semplicemente come passasse, e ventitré secoli dopo ch’ella è seguita: abbiamo a far congettura di quello che la sua ricordanza dovesse potere in un greco, e poeta, e dei principali, avendo veduto il fatto, si può dire, cogli occhi propri, andando per le stesse cittá vincitrici di un esercito molto maggiore di quanti altri si ricorda la storia d’Europa, venendo a parte delle feste, delle maraviglie, del fervore di tutta un’eccellentissima nazione, fatta anche piú magnanima della sua natura dalla coscienza della gloria acquistata, e dall’emulazione di tanta virtú dimostrata pur dianzi dai suoi. Per queste considerazioni, riputando a molta disavventura che le cose scritte da [p. 168 modifica]Simonide in quella occorrenza fossero perdute, non ch’io presumessi di riparare a questo danno, ma come per ingannare il desiderio, procurai di rappresentarmi alla mente le disposizioni dell’animo del poeta in quel tempo, e con questo mezzo, salvo la disuguaglianza degli ingegni, tornare a fare il suo canto; del quale io porto questo parere, che o fosse maraviglioso, o la fama di Simonide fosse vana, e gli scritti perissero con poca ingiuria (Lettera a Vincenzo Monti, premessa alle edizioni di Roma e di Bologna).


Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.