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PER I CITTADINI
[XXII GENNAIO MCMXVI]
PER I CITTADINI
I
Quando la notte cade
su la città che strascica l’arsura
della fatica
pei labirinti delle sue contrade,
5e nella casa amica
è la lampada accesa da man pura,
e tra le quattro mura
il silenzio si fa ne’ cuori attenti,
e l’imagine cara della Patria
10viene e trema nel cerchio del chiarore,
e tu senti sgorgare il sangue suo
presso e lontano
ed una santità gli occhi ti vela
che non è pianto ed è più che dolore,
15e nell’anima tua stilla quel sangue,
gronda quel sangue sopra la tua mano:
quivi è l’Iddio verace,
e sia lodato.
II
Quando si leva l’alba dei guerrieri
20su la città di cenere ove il passo
dei primi artieri
è come d’avanguardia scalpitare,
e tu ansi nel mare
dei sogni con un’ansia in cuor confusa,
25e all’anima socchiusa
ecco t’appare
più vicina dei sogni
la trincea tetra, la penosa bolgia,
tra maceria e steccaia
30il fango imputridito
le piaghe non fasciate
i morti non sepolti
gli smorti vólti
dei vivi senza sonno
35fitti nel limo sino all’anguinaia,
e il cuor ti morde l’onta,
e balzi in piedi, e l’anima t’è pronta
ad ogni evento
ad ogni prova
40ad ogni dono,
e tutto armato di dolor t’avanzi
ed imprendi, nel giorno che t’è innanzi,
il taciturno tuo combattimento:
quivi è l’Iddio verace,
45e sia lodato.
III
Quando la donna veglia senza velo,
bontà senza figura,
le piaghe in carne viva,
ardendo come lampada votiva
50sotto la bianca volta;
quand’ella ascolta
l’agonia che sorride
favellando a un’imagine futura
immortalmente;
55quando al ferro che incide e che recide
ella in silenzio il dolce paziente
porge con cuor che trema e man sicura,
senza battere gli occhi;
quando i ginocchi
60ella piega e le tempie
alate abbassa,
sostenenendo il bacino
che del sangue fraterno
e del muto supplizio si riempie,
65ma nell’ombra del suo
carnal pallore
il confino dell’anima trapassa
per amor dell’amore sempiterno:
quivi è l’Iddio verace,
e sia lodato.
IV
70Quando ella fila
la bianca lana e col fil bigio agucchia,
e non canta ma pensa
al combattente che nell’alpe immensa
è bianco su la neve ch’egli ammucchia
75dinanzi alla sua fossa,
o prega per colui che nella tana
cupa ha il colore della terra smossa,
il color che le scorre tra le dita
leni di maglia in maglia;
80e nel rombo del cuore
ascolta ella il fragor della battaglia
cieca e lontana,
su la malga lontana
vede ella d’improvviso la ferita
85schiudersi nella neve che s’arrossa
o mescolarsi al fango scalpitato
che la corrompe,
e il filo bianco torce col suo cuore
palpitante ella e il bigio
90conduce col suo cuore vigilante
ella, e un prodigio
di carità trasfonde
nella lana il calor del focolare,
nella lana la tempra dell’usbergo:
95quivi è l’Iddio verace,
e sia lodato.
V
Quando colui che perse il figliuol primo
bevuto sino all’ultima sua stilla
dal sitibondo Carso
100che mai non si disseta,
e il suo secondo ne’ ghiacciai scomparso
di là da quella mèta
che si trapassa per non ritornare,
e il terzo sul calcàre
105candido come ossame
al gelo della luna,
riverso, incoronato con le spine
di ferro ch’ei tagliò tra legno e legno
confitti come croce al sacrificio
110dell’eroe sovrumano;
quando colui non piange né dà segno
di lacrime ma pone la sua mano
su la spalla dell’ultimo suo nato,
su l’omero del fresco adolescente
115fulgido di bellissimo dolore,
che ricevuto ha in sé la grazia e il sangue
dei suoi fratelli e il fiato
come se dentro il calice d’un fiore
si celebrasse nova eucaristia;
120quando colui non piange ma per via
con la man dolcemente
sospinge il giovinetto e l’accompagna
e l’offre e lo sacrifica e lo dona
e dice all’Indicibile «Perdona
125se più non ho che questo,
ma questo prendi e me con lui se valgo»:
quivi è l’Iddio verace,
e sia lodato.
VI
Quando il ricco ha rossore
130degli agi suoi, e non s’indugia a mensa
né poltrisce, se pensa
che alcun del sangue suo
ha per tovaglia il sacco o la fascina,
ha per coltre la melma febbricosa
135nella fossa che pute;
né si riscalda al ceppo sfavillante
che croscia su gli alari,
perché sogna le bianche
sentinelle perdute
140nei deserti di neve, nella cerchia
dei picchi invitti come il diamante,
ai limitari della bàite irsute
che la sizza scoperchia,
al sommo della rupe
145onde non più discende chi vi sale;
ma rinunzia egli i beni ed è l’eguale
del povero che offre
tutto che strappa alla fatica dura
e il ben senza figura
150riceve in abondanza
per solo amore dell’amor che soffre:
quivi è l’Iddio verace,
e sia lodato.
VII
Quando la vecchia inferma e triste e sola,
155che logora con gli ossi delle dita
le lente avemarie senza parola
tra morte e vita
nella sua stanza fredda
come la soglia del sepolcro, pensa
160che le rimane
un’ultima reliquia
d’oro consunto,
forse nel mondo l’ultimo suo pane,
e si leva e s’affanna e la ritrova,
165ed oblia la dimane
poi che il suo vespro è giunto;
ed esce, quasi cieca, per l’incerta
via seguitando il suon delle campane,
la melodia di Cristo antica e nova;
170ed in silenzio reca quell’offerta
all’urna che non parla;
e poi torna nell’ombra per morire,
e l’angelo è nell’ombra ad aspettarla;
ed un alito fresco
175come canto novello
allevia la parete, che dispare;
e nella povertà di san Francesco,
nella felicità del Poverello,
ella non ha più fame né più sete;
180e l’angelo sommesso le ripete
il canto del Beato
«Ma chi è dato più non si può dare.
Vivi morendo in pace»:
quivi è l’Iddio verace,
185e sia lodato