< Canzoniere Vaticano latino 3793
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Canzoniere Vaticano latino 3793 Canzoniere Vaticano latino 3793




Mettendo a luce secondo la lezione di un codice assai celebrato, le Rime dei nostri antichi poeti, non crediamo dover premettere un lungo discorso a provare la utilità della nostra non piccola fatica. Ben sappiamo che pubblicazioni di tal fatta non si volgono ad ogni sorta di lettori, ma a quei pochi soltanto, pei quali hanno particolare importanza le prime origini della nostra letteratura; e a questi basterà sol qualche cenno sul metodo che abbiamo creduto seguire, e sulle ragioni per le quali ad essi vogliamo specialmente raccomandata questa impresa nostra.

Un caso fortunato fece venire alle nostre mani copia diligente del codice vaticano 3793, conosciuto ormai, per qualche estratto e per ripetute citazioni, come il più cospicuo repertorio di poesie liriche del due e del trecento. Ceduta da noi codesta copia alla Regia Commissione dei Testi di Lingua per la non lieve somma che era costata la trascrizione delle quasi duecento carte ond’è il codice composto, volle il benemerito Presidente di quella, che a noi restasse affidata la cura di prepararne la stampa; al che volentieri ci sobbarcammo, chiedendo soltanto che, nè noi nè altri potendo via via raffrontare le stampe col testo, un esperto conoscitore di antiche scritture, a maggior nostra guarentigia, facesse previa e diligente collazione di tutta la copia coll’originale. Dopo di che ci mettemmo all’opera, con quella maggior alacrità che le occupazioni nostre e la natura del lavoro ci concedevano.

Ma, appena gettato l’occhio qua e là sul testo, di subito potemmo notare, che se il manoscritto vaticano può a buon dritto nomarsi il più ricco fra quanti ci tramandarono antiche rime volgari, non potrebbe però esser vantato pel più corretto: sicchè sarebbe apparsa fatica e spesa gettata via il riprodurlo senza provvedere in qualche modo a tale mancanza. Vedevamo pur anche che il meglio sarebbe stato condurne la pubblicazione secondo quel metodo, col quale la scienza odierna vuol che siano trattati, non che i testi greci o latini od orientali, ma quelli pure dei primordi delle nuove letterature. Se non che, a voler porre in opera quell’ottimo metodo molte difficoltà ci si facevano incontro, quasi che insuperabili; e sopratutto mancavaci una compiuta notizia di tutti i manoscritti di rime antiche, sparsi per le Biblioteche pubbliche o private d’Italia e di fuori. Or chi ha pratica di questi nostri studj sa bene come, difettando ogni sorta di sussidj in proposito, e pur anco esatti cataloghi a penna o a stampa, e talune biblioteche più ricche di tali manoscritti restando tuttavia di difficile o impossibile accesso, vana speranza era quella di poter metter fuori una raccolta dei rimatori antichi italiani, la quale potesse veramente ambire al nome di critica; condotta, cioè, sulle varianti di tutti i codici fra loro ragguagliate, e corredata di utili indicazioni sulla età e sul pregio di ciascun testo, e sulle relazioni di tutti l’uno coll’altro. Senza grave dispendio, senza molti anni di lavoro e ripetuti viaggi in molte città, a noi, per ragione di ufficio costretti a star la maggior parte del tempo fissi in un luogo, era impossibile attuare quel concetto, che pur conoscevamo solo degno del presente stato degli studj. Ma perchè intanto il meglio, impossibile a conseguirsi, non impedisse quel poco di bene che pur poteva venire dalla più generale conoscenza del nostro codice, divulgato ch’ei fosse per la stampa, ci risolvemmo a fare quello che potevamo, non quello che avremmo voluto: sentendo nonpertanto dentro di noi di dover implorare perdono dagli intendenti. E questo tanto più speriamo vorranno concederci, considerando che l’opera nostra potrà diventare principale fondamento ad una futura pubblicazione critica degli antichi rimatori, se ciascun zelatore di questi studj vorrà, nei proprj luoghi e secondo la propria possibilità, far quella parte di lavoro che, raccogliendone poi e confrontandone i risultati, facilmente ci condurrà al fine desiderato. E fin d’ora diciamo, che ove altri voglia esserci largo di aiuto, è nostra intenzione di radunare e discutere in un volume a parte tutte le comunicazioni che privatamente o pubblicamente ci verranno pôrte, sia di nuove lezioni, sia di correzioni congetturali: sicchè l’edizion nostra possa per tal modo comparire meno indegna di lode, e meno scarsa di utilità. La buona prova che già ci è avvenuto di fare dell’amore che a questi studj si porta in Italia, allorquando pubblicando nel Propugnatore venti sonetti estratti da questo stesso codice nostro, vedemmo spontaneamente esserci mandate da parecchi valentuomini, notevoli osservazioni sulla lezione di quelli, sicchè ai sonetti potemmo in breve aggiungere un commentario di erudite indicazioni e di sagaci congetture, ci fa ben certi che con non minore premura vorranno i fautori delle filologiche discipline concorrere ad un’opera, della quale sono da noi vivamente richiesti.

Ma poichè ci era forza lasciar da banda quel metodo che sarebbe stato a ogni altro preferibile, dovemmo contentarci di rivolgere le nostre cure alla migliore pubblicazione del testo, quale ce l’offriva il codice vaticano. E sebbene la riproduzione fedele, e come fotografica, di esso, a prima vista ci sembrasse siffatta che ad ogni modo gli studj dovessero vantaggiarsene, ella fu da noi, dopo più maturo esame, scartata: e credemmo avesse a riescire cosa più gradita e proficua l’offrire le rime antiche in una forma, che scostandosi il meno possibile della lettera del testo, ne porgesse tuttavia una lezione, per quanto potevasi, intelligibile ed accettabile. Curammo, dunque, la virgolazione e la punteggiatura: sciogliemmo i nessi: i versi evidentemente errati nella misura o nella rima, restituimmo alla lezione, che visibilmente appariva essere stata alterata o guasta: riordinammo, ov’era possibile, lo schema sconvolto della strofa. Così ponemmo riparo ad una parte non piccola delle mende ond’è bruttato il codice vaticano; ma di ogni cangiamento da noi arrecato così alla ortografia, ove siamo stati parchissimi di mutazioni, come alla dicitura, stimammo dover nostro dar altrui precisa contezza, restituendo in nota la propria forma dell’originale. E se non potevamo dalla comparazione di tutti i codici rilevare quella lezione che criticamente apparisse preferibile, volemmo almeno che per le rime già anteriormente edite, il lettore, senza bisogno di affaticarsi da sè, vedesse i luoghi ne’ quali il nostro testo era da più degli altri, e così anche quelli in che fosse da meno; e perciò scrupolosamente radunammo a piè di pagina tutte le varianti offerte dalle raccolte a stampa. Laonde, se non abbiamo potuto dare un testo che veramente corrisponda al desiderio ed al bisogno degli studiosi, rade volte avverrà che, per le poesie già divulgate almeno, raffrontando insieme la nostra e l’altrui lezione, non se ne possa comporre una forma comunemente accettabile per buona. Cosicchè, per le poesie già note può dirsi essersi fatto un passo innanzi, perchè per la prima volta si presentano esse in pubblico con un qualche apparato critico, nè molti sono i luoghi dai quali, nè con una nè con altra lezione non cavisi un chiaro significato; ma le inedite hanno maggior bisogno degli strumenti dell’arte critica: chè le avvertenze nostre non cadono su tutti i passi che manifestamente richiedono studio, ma soltanto su quelli, intorno ai quali ci accadde di poter fare qualche congettura o proposta.

Noi dunque, lo ripetiamo ancora una volta a dissipare ogni equivoco, non ad altro abbiamo mirato, nè ad altro rivolgemmo la speranza, se non a gettar le fondamenta di una edizione veramente critica delle Rime Antiche. È, per le poesie a stampa, una lezione di più che si aggiunge alle anteriori; per le non poche inedite che daremo via via, sarà una prima lezione, che potrà migliorarsi col confronto di altre, e col sussidio efficace della dottrina filologica.

Invitando, intanto, coloro che hanno amore a queste discipline a dar opera che l’Italia abbia finalmente una collezione delle Rime Antiche ridotte a buona forma, non ci nascondiamo, nè vogliamo altrui dissimulare, le difficoltà che si parano innanzi. Perchè, se anche col mezzo di ottimi apografi e di critici ragguagli, arriveremo in certi casi ad una lezione emendata da molte magagne, non però così facilmente e per tempo potremo augurarci di possedere purgato da ogni macula tutto il corpo dei rimatori del primo secolo; e ciò, sopratutto per due ragioni, che brevemente verremo indicando.

È, in primo luogo, da notare come, per una gran parte delle Rime Antiche, la lezione che ne possediamo abbia sofferto, già innanzi agli arbitrj ed errori dei copisti, un notevole cangiamento dalla forma sua originale e genuina. Per le poesie degli autori siciliani ciò è ormai condotto alle ragioni della massima evidenza. Il testo che ne abbiamo è dovuto a menanti toscani che, più o meno consapevolmente, recarono il primitivo dettato siciliano alla loro propria dicitura, spesso per ciò scompigliando la strofa e distruggendo la rima, o, per conservarla, altra sostituendone di lor capo, come per più di un esempio si troverà provato nella presente nostra edizione; e tutto invita a supporre che (sebbene in minor misura, per essersi già di buon’ora composto un formulario del dire amoroso in rima, misto di toscano e di siculo), cosiffatto travestimento sia stato operato anche nelle poetiche composizioni delle altre provincie italiane. Bisognerebbe. dunque, ritrovare i primissimi apografi di coteste poesie: e il vero è invece che i manoscritti presentemente in essere evidentemente appaiono trascritti da toscani. Dov’è andato, ad esempio, quel Libro Siciliano ricordato da Giammaria Barbieri, dal quale ei trasse e pubblicò nella Origine della poesia rimata, un canto siciliano di Stefano Protonotario, e alcuni frammenti, in dialetto pur essi, di Re Enzo, di Lanfranco Maraboto e di Garibo, nativi tutti dell’isola, e scriventi secondo le forme di quel dialetto? Ben hanno cercato i Professori Grion e Corazzini collo studio del vernacolo siculo negli antichi secoli, di ricondurre alcune rime siciliane alla loro probabile lezione originale: ma un lavoro di tal fatta ognun vede che, quanto legittimo nelle sue ragioni ed ingegnoso, altrettanto è di natura sua arbitrario ed incerto nei resultati; e sempre più atto a persuaderci che per le rime almeno de’ non toscani, dovremo contentarci di un toscano travestimento, più o men simile all’originale, ma ad ogni modo da esso diverso, sino a che la fortuna non ci metta innanzi un manoscritto che le contenga nel loro genuino dettato. Fino a tal desiderabile ritrovamento, i confronti dei codici toscani non ad altro realmente saranno utili se non a darci un testo più chiaro e leggibile, e fors’anche più vicino al primitivo, senza poter però tener mai luogo di questo; dappoichè dovrassi sempre considerarlo di seconda mano.

È da ritenere, in secondo luogo, che la lirica antica italiana, quella almeno che antecede il dolce stil nuovo iniziato dal Guinicelli, e perfezionato dai migliori fiorentini e massimamente da Dante, è pallido reflesso della poesia provenzale. Della quale, come avviene il più delle volte in simili casi, furono prese a modello e di preferenza imitate le parti men buone, cioè le sottigliezze nella espressione e le bravure nella versificazione: tanto più che gli esempj recenti e più famosi erano di quei Trovatori che usarono la rima cara e il cantar di maestria. Nè la ricercata oscurità e l’affettato avviluppamento dello stile, proprj ai nostri antichi, potrebbero pur concepirsi senza riferirne le cagioni a quelli che ad essi furono maestri e duci, e pei quali la volgar poesia, appena nata, porta già nei falsi vezzi e nello studio delle mal superate difficoltà, i segni di una precoce cascaggine senile. L’impulso stesso del poetare venuto dall’alto per signorile perfezione di costume, e il luogo ove ebbe origine la novella usanza, che fu la Corte, fecer sì che il primo tentativo di rima volgare fosse in Italia un composto assai strano, punto spontaneo anzi molto artificioso, di metafisica cavalleresca e di sottile ed ardua dizione. Ond’è che le Rime antiche, quand’anche potesse avverarsene la lezione genuina, resterebbero tuttavia, come già sono, in molti luoghi oscure e quasi indecifrabili, non possedendo più noi moderni quel segreto che le faceva intelligibili ai fedeli d’amore, iniziati dallo studio e dall’uso a codesta particolar forma di sentimenti e di stile. Perciò laddove Gabriele Rossetti volle vedere un gergo settario di politico significato, null’altro sta nascosto, a parer nostro, se non un gergo meramente letterario. Nè, collo studio comparativo e coll’aiuto specialmente dei provenzali, sarà difficile ricostruire la forma dei pensieri e degli affetti proprj alla scuola cortigiana e cavalleresca, e già qualche cosa si è fatto in proposito; ma più arduo ci sembra, e quasi da niuno tentato sinora, lo scoprire e determinare la significazione speciale che si dette a certe frasi e parole, la ragione di alcune bizzarre composizioni ritmiche, il valore di talune forme, allegorie, metafore, immagini, divenute quasi sacramentali in codesta scuola. E’ sarà soltanto con una ricerca accurata e paziente per tutto il vasto campo degli antichi rimatori, radunando molti esempj e insieme illustrandoli l’un coll’altro, che si potrà in parte sciogliere questo enigma forte, componendo per tal modo una propria poetica della maniera cortigiana. Ci è ignoto se a tanto giungeremo; ma certo è che questa nostra pubblicazione porterà a tal opera il contributo di molti componimenti finora ignoti, onde le verrà nuovo e valido aiuto. Ma quando potrà ritrovarsi la primitiva forma idiomatica di quelle rime, quando meglio si possederanno i segreti retorici della prisca scuola di poesia, quando la conoscenza e lo studio di tutti i manoscritti avrà somministrato ricca messe di varie lezioni, allora diremo più che avviato il lavoro critico su questi testi, nè altre difficoltà rimarranno alla loro piena intelligenza, se non quelle provenienti dalla naturale inesperienza degli antichi rimatori a trattare uno strumento non ancora abbastanza pieghevole ed esercitato , qual era nei secoli decimoterzo e decimoquarto l’idioma volgare delle varie provincie italiane.

Ed ora eccoci a dare qualche ragguaglio sul nostro codice. Del quale primamente fece uso nel 1840 Francesco Massi, pubblicando per occasione di nozze un Saggio di Rime illustri inedite del secolo XIII, scelte da un codice antico della Biblioteca Vaticana, senza dare più speciale indicazione del medesimo. Onde il merito di averlo per primo segnalato agli studiosi, rimarrebbe a Francesco Trucchi, che ne tolse fuori non poche poesie inedite per la sua nota Raccolta, e ne tenne parola nel Discorso preliminare, attribuendogli la denominazione di Libro reale, riscontrata sulla copia del Bembo, cioè sul codice vaticano di n.° 46401, che è copia del nostro. Toccando dell’età del manoscritto, dice il Trucchi che „per molte ragioni si può francamente affermare che fu scritto tra il 1265 e il 1275, contenendo le poesie di non meno di cento trovatori italiani, tutti anteriori a Lapo Gianni, a Cino, a Guido e a Dante Allighieri„ (Poesie italiane inedite di dugento autori, Prato Guasti, 1840, I, p. LXVI). Ma che tal asserzione fosse erronea fu mostrato dal Visconte Colomb de Batines nel N. 14 dei Ricordi Filologici e Letterarj, con queste parole: „Parlando del prezioso codice vaticano 3793, cui il Trucchi mal chiama in foglio, perchè è in quarto, e’ dice che per molte ragioni, cui ha cura di non manifestare, si può francamente affermare che fu scritto fra il 1265 e il 1275. Io comincerò dall’impugnare il fatto paleograficamente: e poi farò notare al signor Trucchi che al foglio 99 di esso codice si legge la canzone di Dante: Donne che avete intelletto d’amore. Ora, essendo Dante, secondo la comune opinione, nato nel 1265, non poteva aver composto quella canzone mentre bagnava ancor le labbra alla mammella, o avendo al più 10 anni. Il codice dunque, non può essere stato scritto tra il 1205-1275; e di fatto un allievo della scuola delle carte di Parigi, al cui giudizio ho sottoposto quel codice, lo reputa degli ultimi anni del secolo Xlll, o de’ primi del XIV„.

Maggiori ragguagli troviamo in uno scritto del Prof. Giusto Grion, ove si dà anche l’indice di tutti i componimenti inseriti nel codice, e che fu stampato nella prima dispensa dei Romanische Studien di Edoardo Boehmer (Halle, 1871, p. 61-118 .): e noi li, riferiamo con tanta maggior fiducia, in quanto corrispondono colla descrizione dataci dall’esperto paleografo che collazionò la nostra copia, il dott. Jeep. Dice adunque il Grion, che il codice appartenne sul principiare del secolo XVI al Cardinal Bembo, acquistato probabilmente dal padre di lui in Firenze, quando col figlio ancor giovinetto, vi si trovava ambasciatore veneto, in quel tempo in che Lorenzo de’ Medici faceva raccogliere gli antichi poeti per farne dono al principe napoletano Federigo di Aragona, e Angelo Colocci metteva insieme la sua collezione, contenuta nel codice vaticano 4818. Sul primo foglio membranaceo si legge scritto da mano più moderna: De varie romanze volgare: i sei fogli rimanenti presentano di mano di chi scrisse il codice i principj delle CCCXV canzoni che primamente vi si contenevano: il foglio ottavo, di mano del Bembo, quello di altre quattro poesie: quindi la semplice numerazione progressiva sino al CCCXL. Segue poi un foglio in bianco, segnato col N. 8, sul cui verso è scritto di mano del cardinale: vedi se tatti li li signati ms Camillo ha scripto. Sul decimo foglio trovavasi in caratteri del secolo XV il nome del felice uomo, che allora possedeva quel codice: oggi lo scritto è cancellato e, ad eccezione dell’ultima parola, coperto di quattro cancellature: ma con quasi piena sicurezza si può ancora leggere: Io fui libro di niccolo acher (?) di bene alberghatore, e poi chiarissimamente e della stessa mano:

     Qui me furatur vel redat vel moriatur
     at talem mortem quod suspendatur aforchatur.

I seguenti fogli pergamenacei 1-170 danno la raccolta di canzoni e sonetti, parte col nome dell’ autore, parte senza.

Dopo il foglio 8, ne mancano due che mancavano già al tempo del Bembo, poiché il seguente comincia perchè meglio me p ella Bene avere, e il Bembo vi scrisse sopra: Poi non mi ual merce ni ben seruir vide in lº regali fol. 49. 92 hic deest principium. Sotto gli ultimi versi della incompiuta canzone, notò il Cardinale: Desunt septem. Dalla canzone di N. 305 comincia lo scritto di una seconda mano; e quello ancora di un’altra, colla 312ª e seguenti. Al verso del foglio 104 e nelle due facciate del 105 si riscontra, di grafia del XV secolo, un indice della seconda parte del codice; e ad alcuni fogli bianchi segue una raccolta di sonetti, probabilmente per opera del primo scrittore del codice.

Conclude il Grion col notare, come l’assegnazione di data fatta dal Trucchi non combini, secondo già osservò il Batines, con la sicura età della canzone dantesca, composta nell’89; ma se questa sola fra le liriche dell’Allighieri trovasi nel codice, si può congetturare che fosse scritto poco dopo codest’anno. Quanto poi alla denominazione di Libro Reale, essa non può appartenergli , perchè non solo nel codice 4823, ma anche in questo stesso, e segnatamente a carte 6 e 20, ricorre di mano del Bembo un richiamo al Libro reale, evidentemente come a diverso manoscritto2. Ed ora, dopo che avremo ringraziato i signori Teodorico bandoni e Leone del Prete di alcuni consigli onde ci sono stati a nostra richiesta cortesi, null’altro ci rimane da aggiungere, se non chiedere venia di alcune ineguaglianze ortografiche in che siamo caduti nella stampa dei testi, e raccomandare quest’opera nostra, di poca gloria ma non di poca fatica, alla benevolenza degli studiosi.

A. D’Ancona — D. Comparetti.




  1. Così il Trucchi; ma avrebbe dovuto dire 4823.
  2. Avendo voluto essere anche maggiormente sicuri della descrizione del prof. Grion, abbiamo pregato l’amico nostro Avv. Ernesto Monaci di riscontrare il codice vaticano e ne abbiamo ricevuto il seguente ragguaglio: »La descrizione del codice vaticano 3793 fatta dal Grion mi sembra esatta, e dopo averla ripassata col codice alla mano punto per punto, ben poco mi occorre da aggiungere. Ha detto il Grion che il codice spettò al Bembo e di ciò non v’ha dubbio, ma è credibile che abbia spettato anche al Colocci. Infatti nel catalogo dei codici colocciani passati alla Vaticana trovasi registrato questo manoscritto «de varie romanze volgare». E si può dubitare se le postille sparse nei fogli di questo codice siano da riferirsi al Bembo, o non piuttosto ad Angelo Colocci. La scrittura del Bembo e quella del Colocci sono somigliantissime tra loro (per quanto posso giudicare dagli autografi veduti), e da questo lato non saprei per chi risolvermi, sebbene un indizio a distinguere le due mani, potrà forse dopo più maturo esame cavarsi dalla maggiore o minor grossezza delle forme. Ma oltracciò (chè la distinzione sarebbe in favore del Colocci) è da considerare, che in quella specie d’indice degli autori, scritto al foglio 101 e seguenti dal solito annotatore si legge «cielo 54»; indicazione per la quale la poesia sotto il N. 54 (Rosa fresca aulentissima ecc.) in questo codice anonima, viene attribuita a Cielo. È noto l’abbaglio del Colocci su questo nome, ma nessuno sa che ne fosse partecipe il Bembo ancora. Per cui mi sembra questo un argomento da farci inclinare a credere quelle postille del Colocci anzichè del Bembo.
    Di tali postille alcune furono ommesse nella descrizione del Grion, altre si leggono un po’ diversamente. Ecco i singoli luoghi.
    f. 1. (indice dei capoversi) fra i cp. XIII e XIV è notato «allibro pal. b. u (?) e (?)» — e fra i cp. XV-XVI «allibro bianco»
    f. 9. vedi se tucte le segnate ms. Camillo ha scripte».

    f. 10. Non si può, leggere se non «Io fui l.b...».
    f. 5. La nota «discordo» è del copista delle canzoni.
    n.° 48. «î li... Dante noĩa federigo»
    n.° 51. «Dante lo noĩa î hic... ( lib...? )»
    n.° 61. «Vide lemosin discor î 120» (o 129?)
    n.° 84. «Vide ĩ vita federici Ante..... n. fol. 43 (168)» (sic)
    n.° 90. Dopo «familia fiorentina». rasura di circa 3 lettere e poi «44»
    n.° 121. «In auĕtura» con richiamo al v. 2 della canzone seguente.
    n.° 112. «...Tenson .....e noĩa Gallo da pisa»
    n.° 121. «itĕ Discor»
    n.° 303. «Andre de firenze nello reale 31»
    n.i [300-309] d’altro carattere.
    n.i [310-315] d’altro carattere.
    n.i [310-321] d’altri caratteri.
    n.° [860] «di naldo da colle» è di mano del secolo XV.
    Fra i n.i 315 e 316 il Grion omise di registrare altra composizione, frammentaria, che dopo alcune cancellature comincia: «S’io mi son gentileta di bella legiadria — non dei per gelosia» ecc.»
    Copia del codice vaticano 3793 è l’altro pure vaticano 4823, secondo anche è notato sull’antico foglio di guardia e sul foglio 27. Dicono che questa copia la facesse fare il Bembo; ma a che scopo una volta che possedeva l’originale? Io inclino a crederlo di provenienza del Colocci. Ed invero alcuni fogli sembrano scritti addirittura da lui (v. in ispecie i ff. 24. 473-7); e quasi tutte di pugno del Colocci sembrano le numerose postille marginali che s’incontrano ad ogni pagina; le quali per lo più non sono che spogli di voci tratte da quelle rime, e adoperate nell’«Index verborum seu Vocum collectus per Angelum Colotium ex Petrarcha, Siculi, Rege roberto, Barbarino» (in cod. vat. 3217 autogr. del Colocci). Una di tali postille, che sta accanto al n.° 228 (ora tornate in usanza ecc.) dice: «Vide se bĕbo (Bembo) ha questa rima». Di pugno del Colocci finalmente sembra anche molta parte degli indici, in fine: uno dei quali (foglio 457) è intestato «SONETTI DI SICULI». Ed è noto che del Colocci fu appunto questo modo di appellare non solo i siciliani ma in genere tutti i rimatori dell’epoca sveva, e infatti questa serie di siculi comincia coll’«Abate di Tiboli» e con «Ugo Massa da Siena», e prosegue con la «Compiuta donzella di Firenze», e con altri di altre provincie d’Italia.»
    Oltre alle rime esistenti nel vaticano 3793, questo codice ne contiene delle altre nei ff. 1-24, 446-449, 451, 453-456, spettanti a Dante, Cino, M. Ant. da Ferrara, Petrarca, Guido Cavalcanti, Dodo da Lucca, Ventura Monaci, Ser Gaudio, Tommaso da Messina, nonchè parecchie anonime. E più assai è da credere che ne contenesse dapprincipio, avvegnachè i ff. 1-25 sostituiscono una numerazione più antica, la cui infima cifra è 81; e quattro tavole di capoversi che si leggono nei ff. 459 e seguenti rimandano a molte altre rime che qui non si trovano. Ma di ciò più opportunamente sarà parlato in una Statistica degli antichi Canzonieri italiani esistenti in Roma, che sto compilando».

Note

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