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CASTEL GAVONE
CAPITOLO I.
Nel quale si narra di due viaggiatori
che amavano saper molto e dir poco.
A’ dì 26 novembre dell’anno 1447 della fruttifera incarnazione (così dicevasi allora, nè io mi stillerò il cervello a rimodernare la frase), due cavalieri, che pareano aver fretta, galoppavano in sulle prime ore del mattino per la strada maestra che, svoltate le rupi di Castelfranco, lunghesso la marina del Finaro, risale verso il borgo.
Che risalga è un modo di dire, trovato da noi, i quali abbiam sempre la mente alle carte geografiche, e ci raffiguriamo il settentrione su in alto e l’ostro umilmente segnato nel basso. La strada di cui parlo era per contro ed è tuttavia in pianura, come la spiaggia che rasenta e come la valle in cui piega. Questa valle, che per amore del Medio Evo io dirò del Finaro, ma che i lettori possono, senza scrupoli di coscienza, chiamar di Finale, è stretta, ma piana, e la si abbraccia tutta quanta in un colpo d’occhio. Essa è conterminata da tre montagne; due la fiancheggiano, accompagnandola cortesemente fino al mare; un’altra la chiude a tramontana, o, per dire più veramente, la divide in convalli, dandole in tal guisa la forma di una ipsilonne, il cui piede si bagna nel Tirreno e le braccia si allungano verso il padre Appennino, che in quei pressi per l’appunto incomincia, spiccandosi dall’altura del Settepani, ultimo anello della catena delle Alpi marittime.
Nella inforcatura dell’ipsilonne (poichè ho presa a nolo questa inutilissima tra le lettere dell’alfabeto, ne spremerò tutto il sugo) si alza il monte del Castello, che ha il borgo del Finaro alle falde. Due torrenti, Aquila da levante e Calice da ponente, scendono dalle convalli, circondano il borgo, si maritano sotto le sue mura (stavo per dire sotto i suoi occhi), pigliano il nome di Pora e in un letto che è lungo un miglio, o poco più, consumano le nozze modeste, vigilate in sulla foce dalle due montagne accennate più sopra; Monticello a levante, che finisce poco lunge dalla spiaggia nei dirupi bastionati di Castelfranco, e Caprazoppa a ponente, ruvida schiena di monte che s’inarca a mezza via, indi si abbassa, si prolunga a dismisura verso mezzogiorno e coll’estremo suo ciglio si getta a piombo nel mare.
Tra questi due monti, e lungo la spiaggia, si stende ora una piccola ma ridente città, che porta il nome di Finalmarina. Al tempo di cui narro, si diceva in quella vece la Marina del Finaro e non era che un’umil terra di duecento fuochi; laddove il borgo feudale, murato in capo alla valle, ne noverava ben quattrocento, e, coronato dal suo castel Gavone, dimora e sede di giustizia ai marchesi Del Carretto, comandava su tredici borgate minori, sparsa sui greppi che gli sorgevano intorno, e per le valli che gli serpeggiavano da tergo.
Intanto che io tengo a bada il lettore benevolo, i due cavalieri hanno avuto il tempo di varcar la Marina, offrendo spettacolo di sè ad alcune frotte di pescatori, che traggono a terra le reti, e dando una sbirciata a due galere, che stanno sulle ancore in un cantuccio della rada, coi provesi legati agli argani della spiaggia. Giunti a poca distanza dal torrente, hanno voltato a destra, verso la valle, dalla cui apertura una severa ma bella veduta si affaccia loro allo sguardo.
La Caprazoppa, co' suoi massi enormi, sporgenti da ripide falde scarsamente vestite di umili cespugli ed erbe di facile contentatura, riceve ed ammorbidisce nella sua tinta rossigna, qua e là chiazzata d'azzurro, la vivida luce del sole. Laggiù, in capo alla valle, il cui fondo è ancora a mezzo velato dall'ombra della costiera di Monticello, s'innalza il dorso alpestre, su cui è murato il castello Gavone, superba mole solitaria, fiancheggiata da quattro torri, che siede a custodia dei passi sottostanti. Veduto a quella distanza, così solo in mezzo alle balze digradanti, il nobile edifizio comanda l'ammirazione e la riverenza. Lo si direbbe un avvoltoio, posato alteramente sulla sua rupe, in atto di spiare intorno e meditare da qual parte abbia a calarsi veloce, per afferrar la sua preda. Non lunge dal castello, la rupe si deprime un tal poco, indi risale, si gonfia e tondeggia in ampio dorso sassoso. È questa la roccia di Pertica, che, veduta da settentrione, apparisce dirupata, inaccessibile, come una di quelle rocche incantate che vide e ritrasse la fantasia dell’Ariosto. La vetta del monte, le bianche torri di Castel Gavone e i sottoposti declivii, risplendono al sole; il borgo del Finaro non si vede, ascoso com’è dietro un colmo di piante, ma lo s’indovina dalla merlatura di qualche torrione, o dalla guglia di qualche campanile, che sbuca dal verde.
I due cavalieri s’erano avviati per una stradicciuola sulla riva sinistra del torrente. Poco o nulla, inoltrandosi, potevano più scorgere di quella scena meravigliosa, che, allo svoltare della Marina, s’era parata dinanzi a loro. Il luogo era piuttosto basso; la prospettiva chiusa da alberi frequenti, da siepi e casolari. Ma eglino, a quanto pareva, non si curavano molto di godere la bella veduta, bensì di trovare un certo edifizio, che doveva esser meta, o stazione, del loro viaggio.
Ora, sebbene da quelle parti là non fossero mai stati, tale era la forma, e così chiara l’insegna del luogo cercato, che essi non ebbero mestieri di pigliar lingua da alcuno, per ritrovarlo. La forma era comune, anzi rustica a dirittura, ma notevole per un largo terrazzo sormontato da una pergola, su cui alcuni ceppi di vite, serpeggiando lunghesso i muri, erano saliti ad intrecciare i nodosi lor tralci, che per la stagione inoltrata apparivano spogliati di fronde. L’insegna, poi, era un ramo di pino, sporgente sull’angolo dell’edifizio, vicino ad un muro di cinta, nel quale si apriva il portone, per dar àdito alla casa e all’orto attiguo.
Giusta le apparenze, il padrone del luogo, o fittaiuolo che fosse, raccoglieva nella sua persona le due dignità di ortolano e di ostiere.
I due cavalieri giunsero davanti al portone spalancato, che lasciava scorgere un’aia pulita e lucente, sebbene non d’altro fosse composta che di terra battuta, con un frascato in aria, all’altezza del primo piano, e qua e là alcune rozze tavole e panche niente più appariscenti, secondo il costume delle osterie di campagna. Di là dall’aia, e proprio di rincontro al portone, si dilungava un pergolato, che risaliva tra due file di pilastri sul fianco della collina.
— Dovrebbe esser qui; — disse il più vecchio dei due, uomo intorno ai sessanta, dal volto abbronzato e dalle membra poderose, strette in un farsetto di pannolano, su cui era buttato alla scapestrata un corto mantello. — Questa veduta risponde benissimo a ciò che vi ha detto il magnifico messere Ambrogio Senarega. C’è il terrazzo colla pergola, c’è la frasca sull’uscio, il viale coperto in fondo dell’aia....
— E l’insegna che dice tutto! — interruppe il compagno, d’una ventina d’anni più giovine e più nobilmente vestito. — Vedi, Picchiasodo; qui sul portone sta scritto a lettere da speziali: «Fermatevi all’Altino; c’è buona l’accoglienza, e meglio il vino.»
— L’oste si vanta; — rispose il Picchiasodo; — ma gli darò io una ripassata al suo vino, e se non mi va, il primo pezzo di muro che mando a rotoli, vuol esser questo, dov’egli ha posto l’insegna. —
Intanto, erano entrati sotto il portone.
L’oste, faccia contenta e grulla (così almeno portava l’apparenza), si fece innanzi premuroso, con un ragazzone e una nidiata di bambini alle spalle. — Entrate, magnifici messeri! — gridò egli, cavandosi umilmente la berretta e mettendo inchini su inchini. — Maso, piglia i cavalli e conducili in istalla.
— No, non occorre: — disse il più giovine dei due viaggiatori, che in quel mezzo scendeva d’arcione.
— Metteteli soltanto al coperto; ci si ferma per poco.
— E se il tuo vino non è buono, si parte subito! — aggiunse quell’altro, che rispondeva al nome di Picchiasodo.
— Ah, per questo, — rispose l’oste con aria di sicurezza profonda, — non ho niente paura. Vedrete, messere, sentirete che vino! Non fo per dire, ma ci ho il meglio della vallata. Soltanto alla tavola del nostro magnifico Marchese si può bere il compagno.
— Vedremo.... confronteremo! — disse gravemente messer Picchiasodo.
Ed era per aggiunger dell’altro; ma il suo compagno gli diede un’occhiata, che ebbe il potere di arrestargli la parola tra i denti.
— Venga dunque il tuo vino! — ripigliò l’oratore interrotto. — E siccome io m’immagino che voi, messer Pietro, non vi disporrete a mandarlo giù così di buon mattino, senza un briciolo d’accompagnatura....
— No certo; — ribadì l’altro sollecito. — Non ci sei che tu, per ber vino ad ogni ora, come se fosse acqua di fonte.
— Ah, baie! Io e lui siamo amici vecchi, messere, e si sta come pane e cacio. A proposito di cacio, hai tu qualcosa da ungere il dente? Di’ su!
— Comandate, magnifici messeri! — fu pronto a dir l’oste, a cui erano rivolte le ultime parole del Picchiasodo. — C’è pane e cacio, uova da farne una frittata in un batter d’occhio, e se vi piace, posso anche ammannirvi un pollo allo spiedo....
— Ottimo amico! Ostiere degno della mia stima e della mia pratica! — gridò con burlesco fervore quell’altro. — Portaci il pollo, la frittata, il cacio, il pane, tutto quello che hai! —
L’oste, serviziato per indole e giubilante per quella mattutina ventura, non se lo fece dire due volte, e, comandato al Maso che accompagnasse i due forastieri al pian di sopra, ov’era luogo più degno di loro, entrò difilato in cucina, per ammannire alla svelta tutto il meglio della credenza. La moglie si diede a pelare un pollo, ostia innocente, acciuffata in quel punto sull’aia e messa a morte senza processo; il figlio più grandicello a rattizzare il fuoco e disporre il menarrosto; un altro a raccattare nell’orto due talli d’indivia e due carciofi primaticci; egli a trar fuori dall’armadio il pane, il cacio, il vasellame e tutto l’altro che bisognasse. Volea fare le cose a modo, mastro Bernardo; dare in tavola i principii, servire per bene i suoi ospiti, che gli pareano persone d’assai.
— Per altro, diceva egli (e qui faceva capolino la natural diffidenza del campagnuolo), o come va che due cavalieri di quella fatta, avviati al Finaro, si fermino qua, all’insegna dell’Altino? Capisco che alla Marina non abbiano trovato il fatto loro; ma qui siamo a cento passi dal borgo, e, con quelle cavalcature vistose, in quattro salti erano a casa. —
Onesta considerazioni mastro Bernardo le faceva ad alta voce, in quella che spicciava le sue faccende. Il Maso, che tornava in quel punto da apparecchiare la tavola, lo intese e da buon cortigiano entrò a dire la sua.
— Padrone, o che credete, che l’Insegna dell’Altino la non ci abbia il suo buon nome per tutto il paese? Chi non lo sa, che il miglior vino di Calice viene a farsi bere nella nostra osteria? E non sono già soli i terrazzani, che ci hanno la divozione a questo santo, ma anco i forestieri, che pure non avrebbero a risaperne gran cosa. Vi ricordate, padrone, quel pezzo grosso di genovese, che c’è capitato due volte e non c’era luogo al mondo che gli piacesse di più?
— Uhm! — brontolò mastro Bernardo, che in sulle prime aveva fatto bocca da ridere. — Brutta gente, quei genovesi! E se questi due fossero della pasta di quell’altro, meglio sarebbe dar loro acquetta, che vino di Calice!
— Ho dunque a portar loro l’acquetta? — chiese il ragazzone, con aria che volea parere melensa.
— Di che acquetta mi vai tu novellando?
— Non sapete, mastro Bernardo? quel vinello fiorito, che è sempre in fin di botte, perchè oramai nessuno lo vuole?
— Ehi, bada a te, mascalzone! Vuoi forse trincartelo tu, che fai sempre a screditarlo? Ci ho a fare un nipotino ancora, prima che tu ne assaggi!
— Un nipotino su quel vinello? Sarà acqua schietta, allora — notò il Maso tra sè.
E raumiliato in vista, ma contento d’aver detto la sua, andò a spillare il migliore, per servir degnamente i due forastieri; indi, colmate le bottiglie, si affrettò a portarle di sopra, insieme col pane e i camangiari. Si affrettò, dico, ma non fu tanto sollecito a ritornare, come al padrone pareva che egli ragionevolmente dovesse; epperò n’ebbe da mastro Bernardo un’altra ripassata delle solite.
— Diamine! — sclamò il Maso. — Come ho a fare? Cinquantadue scalini non si salgono e non si scendono mica in un batter d’occhio!
— Cinquantadue! Tanti ce n’ha dal pian terreno al terrazzo.
— E appunto lassù ho dovuto apparecchiare. Hanno voluto così. —
Mastro Bernardo rimase lì a mezzo, colla mano sullo schidione e le ciglia inarcate.
— Che diavolo! — gridò egli sbalordito. — Sul terrazzo? in fin di novembre?
— La giornata è bella; — notò il ragazzo. — I due messeri hanno detto che par primavera e vogliono profittarne per godersi la vista....
— Della Caprazoppa! — interruppe l’ostiere.
— Eh, già, della Caprazoppa; — soggiunse il Maso. — Voi stesso, padrone, non dite che la valle è stretta, ma bella a vedersi? E poi, non si vede soltanto la Caprazoppa, di qua. Si guarda a manca, e si vede il mare; a destra, e si vedono le case del borgo, il castel Gavone e la roccia, di Pertica, Così l’hanno intesa i due forastieri, e, scambio di mettersi a tavola, sono andati a sedersi sul murello, per contemplare il paese.
— Uhm! uhm! — borbottò mastro Bernardo. — Che fossero davvero due genovesi? Bisognerà sincerarsene.
— Padrone, — ripigliò il Maso, — s’ha a darlo in tavola, il pollo?
— Non ancora; lo porterò io, quando sarà rosolato per bene. Va intanto lassù, moccicone, e vedi se non hanno mestieri di te. —
Cuoceva assai più del suo pollo, l’ostiere. Natura l’avea fatto curioso; amore della sua terra lo facea sospettoso per giunta. E qui cade in acconcio un cenno storico, il più breve che per me si potrà, donde il lettore benevolo avrà qualche lume intorno alla diffidenza di mastro Bernardo.
Quel tratto di paese, che dopo il 1100 formò il marchesato del Finaro, era compreso per lo innanzi nel marchesato di Savona, e facea parte del patrimonio di quel famoso Abramo, che la leggenda disse nato d’ignoti pellegrini e rapitore d’una figliuola di Ottone I, ma che la storia chiarisce figlio d’un conte Guglielmo, venuto di Francia, con trecento lance, in aiuto al marchese Guido di Spoleto.
Di questo Aleramo, che ben potè avere ottenuta in moglie l’Adelasia della leggenda, poichè egli appare esser stato carissimo ad Ottone I, e da lui fatto signore di largo dominio, nacquero i marchesi di Monferrato e, ramo minore, ma non manco rigoglioso ed illustre, i signori Del Carretto, marchesi di Savona e d’altre terre sull’Appennino. Venuto a morte nel 1268 Giacomo Del Carretto, sesto della discendenza d’Aleramo, l’eredità sua andò spartita in tre figli, e l’ultimo d’essi, Antonio, ebbe per suo terziere, e trasmise ai suoi successori, il Finaro.
Congiunti d’antico parentado ai marchesi di Monferrato, prossimi consanguinei dei marchesi di Millesimo, di Ponzone, di Cortemiglia e via via, di tutti i borghi delle Langhe, ultimi rimasti sulla Riviera di ponente a rappresentarvi il feudalismo invasore delle regioni settentrionali d’Italia, non potevano i marchesi del Finaro esser veduti di buon occhio dalla genovese Repubblica, che, utilmente pei futuri destini dalla penisola, sebbene non sempre con mezzi leciti e con nobiltà d’intento, mirava al dominio di tutta Liguria. Però non istettero molto a nascere e ad infierir le contese. E Genova, fattasi, nel 1305, per cessione sforzata d’uno tra que’ marchesi, padrona di una parte del territorio, a viemmeglio assicurarsene il possedimento, innalzava sollecitamente sulla marina del Finaro la ròcca di Castelfranco, che aveva a perder di poi.
Ma Castelfranco e i diritti di Genova sulla terza parte del Finaro, avevano cionondimeno a rimanere continuo argomento di litigio tra la Repubblica e i marchesi Del Carretto. La quistione sarebbe stata presto risolta colla peggio di questi, se le intestine discordie genovesi non avessero condotta la città in gravi distrette e travolto il suo reggimento in balìa dei signori di Milano. E i marchesi del Finaro ne fecero lor pro, alleandosi coi nemici di Genova, accogliendone ad onore i fuorusciti, dando aiuto ai capitani di ventura, mandati a guerreggiarla, e quinci e quindi occupando le terre circonvicine, che ella aveva per sue.
In questa maniera di guerra, si chiarì più audace de’ suoi antecessori il marchese Galeotto, uomo d’animo grande oltre lo stato, e, ne’ suoi avvedimenti contro Genova, sovvenuto dal patrocinio di Filippo Maria Visconti, signor di Milano. E appunto nella primavera di quell’anno, che fu, siccome si è detto, il 1447, una nave del Finaro, impadronitasi d’una nave genovese de’ Calvi, l’avea tratta come buona preda al marchese. Dolse ai genovesi lo sfregio sul mare, più che non avessero potuto gli altri danni molteplici in terra; perciò fu deliberato di trarne vendetta sollecita, e tanto più allegra, in quanto che, essendo al termine di sua fortuna, e altresì di sua vita, il Visconti, ed ospite di Galeotto essendo il fuoruscito Barnaba Adorno, antico doge, balzato di seggio da Giano Fregoso in quell’anno, i vecchi nodi coi nuovi pareano stringersi al pettine, e molti torti si vendicavano in uno.
Per altro, infiammati i genovesi alla guerra, Giano Fregoso mirava a sfruttare quello sdegno cittadino per utile suo; e copertamente faceva proposta di pace a Galeotto, chiedendogli in moglie Nicolosina, la sua bella figliuola, e in balìa l’ospite Adorno, il cui riscatto, già fermato in diecimila genovini d’oro, prometteva egli di costituire in dote alla sposa. Disdegnò le celate proposte il marchese, mentre pure incalzavano le intimazioni della Repubblica, aperte queste e solenni. E in quelle proposte di Giano, e in queste intimazioni del Doge, parecchie ambascerie s’erano spese, tra il marzo e il novembre, ma tutto senza alcun frutto presso il marchese. Egli, o fidasse nell’aiuto de’ consanguinei, stretti in lega con lui, o dal medesimo spesseggiar dei messaggi argomentasse debolezza ne’ suoi nemici, o non pigliasse consiglio che dal suo animo prode, si tenne saldo nel niego.
E pronto si teneva altresì alla prova dell’armi. Il borgo era munito d’ogni maniera di difese; Castelfranco, scolta avanzata del Finaro, mentendo alle ragioni per cui era stato costrutto, si mostrava preparato a sostener l’urto de’ suoi fondatori. Senonchè, i genovesi parevano piuttosto propensi a minacciare, che a muover guerra risoluta e gagliarda. L’ultima ambasceria, quella di messere Ambrogio Senarega, non avea l’aria di recare ai Del Carretto le ultime ragioni della Repubblica; epperò se ne aspettava un’altra, con grande molestia dei finarini, i quali vedevano le loro valide braccia rapite all’utile lavoro dei campi o delle officine, per aspettare un nemico che non veniva mai, e tutti li costringeva a quell’uggioso stato di aspettazione, che non è guerra, nè pace, e non dà modo di godere i frutti di questa, nè di sperare imminenti le conseguenze, buone o triste, di quella.
E adesso il lettore intenderà di leggeri con che animo mastro Bernardo, da buon cittadino e da oste a cui premeva il suo traffico, paventando il futuro, si facesse a considerare il presente, e con che po’ di sospetto dovesse badare a que’ due forastieri, i quali, in cambio di starsene in una camera al caldo, andavano a far sosta sul terrazzo, e più assai che di gustare i principii di tavola, si mostravano teneri di studiar prospettiva.
L’impazienza rosolava mastro Bernardo, ben più che i carboni ardenti non rosolassero il pollo. Ne avvenne, che egli si tenesse ancora nelle dita una serqua di giratine, e messo il pollo in un vassoio di terra savonese (che cominciava allora a soppiantare le terre cotte di Majorica), lo portasse egli in persona a’ suoi ospiti.
Erano ambedue seduti sul murello dell’altana, quando l’ostiere comparve dall’abbaino, col suo piatto fumante tra mani.
Picchiasodo fu il primo a vederlo,
— Degno ostiere! — gridò egli, tirando dentro una gamba, che tenea cavalcioni sul muricciuolo. — Tu hai fatto le cose alla spiccia.
— Magnifici messeri, — disse Bernardo inchinandosi, nell’atto di deporre il vassoio in mezzo alla tavola, — temevo non aveste a spazientirvi e a prendere in uggia l’Altino....
— In uggia? che diavol dici? in uggia questo paradiso terrestre? Io ci ho succhiato una dozzina di olive indolcite, e stavo per isfogliarci un carciofo, davanti a questa bella veduta.
— Un po’ chiusa.... — notò timidamente l’ostiere.
— Tu sei modesto, mio caro.... A proposito, il tuo nome?
— Bernardo, ai vostri comandi.
— Diciamo dunque mastro Bernardo. Ora, vedi (e frattanto Picchiasodo con certi colpi di trinciante, che non erano da scalco, faceva a spicchi il pollo infilzato nel forchettone, per darne il meglio a messer Pietro), a me piacciono quei monti, che chiudono la vista.... quei monti che calano addosso al paese, come falconi sulla preda.
— Ci sarà una strada; — entrò a dire con piglio di mezza domanda il compagno.
— Una strada? sicuro; — rispose l’ostiere; — quella che voi facevate, messeri.
— Eh, quella, si sa; ma un’altra su quella costiera, o qui, dall’altra banda.... Queste montagne non saran mica inaccessibili.
— Occhio alla pentola, Bernardo! — disse l’ostiere tra sè. — Son genovesi, costoro, o ch’io non so più a quanti dì è san Biagio.
E ad alta voce soggiunse:
— No, magnifici messeri; ci sono alcuni passi, ma da non farne conto; buoni per menare al pascolo le capre, e nient’altro.
— Male! — sclamò il Picchiasodo, battendo le labbra. — Strade ci vogliono, mastro Bernardo; strade ci vogliono, perchè la gente a modo non abbia a scavezzarsi il collo.
— Le strade larghe tirano i nemici in casa, — sentenziò l’ostiere, temperando l’agro dell’osservazione con un suo riso melenso.
— E la strette non invitano gli amici; — replicò il più giovine e il meno loquace dei due forastieri. — Per ventura nostra, abbiam fatto il giro più lungo, a venir qua, ed abbiamo azzeccato una strada da amici.
— Amici! Beato chi ne ha!
— E ne ha sempre chi merita. Ne ha, verbigrazia, in buon dato il tuo magnifico marchese, messer Galeotto, che è un cortese e liberal cavaliere.
— Dite anche giusto ed umano, — soggiunse mastro Bernardo con impeto, — che in tutta la nobilissima stirpe dei signori Del Carretto non è il più leale, il più degno dell’amore e della venerazione del popolo.
— Tu lo ami molto, a quel che pare.
— Messere, che dirvi? Siam povera gente e si conta nulla; ma se bisognasse buttarci nel fuoco per lui....
E mastro Bernardo fece l’atto di dar la capata.
— Qualche volta riesce un po’ duro di pagare la taglia; — notò il Maso, che si rodeva da un pezzo di non poter dire la sua.
— Che c’entri tu, mascalzone? Ti paion cose da dirsi, coteste?
Eh, mastro Bernardo, — soggiunse l’altro, stringendosi nelle spalle, — non vi lagnate voi qualche volta, e non avete detto ancora l’altro dì....
— Che tu se’ un pendaglio da forca o ch’io vo’ lardellarti la lingua, per farne vivanda regalata al diavolo, tuo padrone. Va via, e vedi se la Rosa ha in pronto la frittata. Perdonate, magnifici messeri! Quel tristanzuolo mi ha fatto perdere la tramontana, colle sue invenzioni. Non dico che qualche volta.... Sicuro, i tempi son grami e le riprese scarse; ma io ho sempre pagato volentieri la taglia, la decima, e tutte l’altre gravezze.... perchè, già, il castello e la chiesa non son mica fatti d’aria, e di qualcosa hanno pure a campare.
— Sta di buon animo! — disse gravemente il Picchiasodo. — Se tu hai qualche volta mormorato del fisco, hai anche puntualmente pagato. La penitenza cancella il peccato, e noi non ne diremo nulla al tuo ottimo signore. Alla sua salute intanto, — aggiunse il solenne bevitore, — e ogni cosa gli vada com’io di gran cuor gli desidero.
— Non son genovesi! — notò mastro Bernardo tra sè. — Indi, a voce alta proseguì:
— Vedo che voi, magnifici messeri, siete amici del nostro Marchese, che Iddio prosperi e innalzi su chi gli vuol male. Di certo siete qua venuti per fargli una sorpresa....
— Vedi il destro arcadore! Ei l’ha imberciata alla prima. Sicuro, siamo venuti a fargli una sorpresa, e sarà più contento egli di veder noi, che non tu di buscarti un genovino d’oro.
— Moneta del nemico, è sempre buona a pigliarsi; — si fece a dire quell’altro, che il Picchiasodo chiamava rispettosamente messer Pietro; — e anche non amando i genovesi, si possono avere in pregio i genovini.
— E’ sono il meglio di quella gente là! — rispose mastro Bernardo, ridendo liberamente, da uomo che non aveva più sopraccapi. — Ma ecco la frittata, magnifici messeri; — soggiunse, vedendo tornare il Maso e levandogli di mano il piatto, con quel disco appetitoso nel mezzo; — guardate se non par d’oro anche questa.
— Or ora ne faremo il saggio; — disse il Picchiasodo. — Ma guardate, messer Pietro, voi che siete così vago della bella natura; guardate com’è bene indorata dal sole quella vetta laggiù. Di’ su, amico ostiere, come si chiama?
— È la roccia di Pertica, — rispose mastro Bernardo.
— La è proprio a cavaliere del castello; — notò il Picchiasodo. — Io, per me, se fossi nei panni del Marchese, temerei sempre di vedermi cascare di lassù un genovese sulla groppa.
— Sì, se un genovese avesse l’ali! — disse asciuttamente mastro Bernardo.
— Che? non ci si sale, fino a quel colmo?
— Che io mi sappia, non ci ha mai posto piede anima nata. E’ bisogna vedere la roccia alle spalle, là dalla parte di Calice. Gesummaria! Se un negromante non ci scava i gradini nel vivo, gli è come volersi aggrappare ad uno specchio.
— Uhm! — borbottò il Picchiasodo. — E quell’altro cocuzzolo sulla Caprazoppa?
— È la roccia dall’Aurèra.
— Mi pare di vederci un segno di strade.
— Strada romèa, messere; ma ora la è guasta per modo che nessuno più se ne giova. Per altro, a che servirebbe, lassù?
— Adagio a’ ma’ passi! — gridò il Picchiasodo. — Qui ti vien meno il tuo senno, degnissimo ostiere. Non mi dir male de’ romani! Non c’eran che loro, per capir certe cose. Vedi; una strada su quel monte la ci voleva, come un bicchier di vino su questo boccone. Strade sui monti, dico io; in pianura, quasi quasi se ne potrebbe far senza; uomo, o macchina, o bestia da soma, tutto ci passa a bell’agio; ma su per l’erta d’un monte, sul fianco d’una costiera, e va dicendo, s’ha a far come Annibale, lavorar coll’aceto. Ne hai tu dell’aceto?
— Padrone, — -entrò a dire il Maso, — c’è quella botte di vinello fiorito, che potrebbe.... —
Così disse il ragazzo, ma non continuò il discorso, poichè mastro Bernardo con una occhiata furibonda gli troncò le parole, e con una pedata non meno espressiva gli fe’ prendere il volo verso l’abbaìno.
— Ne avrete fatto, di strada; — disse l’ostiere, tornando a’ suoi ospiti e cercando di ravviare la conversazione; — ne avrete fatto molta, messeri, pervenire fin qua!
— Molta; — rispose il Picchiasodo, colla bocca impacciata da un boccone più grosso degli altri.
— E.... se è lecito il chiedervi....
— Ostiere! — interruppe quell’altro, con piglio tra il burbero e il faceto. — Che diavol ti piglia, di voler sapere il nostro itinerario?
— Scusate, magnifico messere.... volevo dire.... Siccome so che il nostro Marchese aspetta per l’appunto qualcuno.... —
Il Picchiasodo era per dirgli dell’altro in quella medesima chiave; ma messer Pietro, più accorto, indovinò il profitto che si poteva ritrarre da quelle mezze parole dell’oste, e vogò destramente sul remo al compagno.
— E chi aspetta, di grazia? — domandò egli a mastro Bernardo. — Ne hai già imbroccata una, dicendo che siamo venuti per fare una sorpresa al tuo nobilissimo signore; vediamo dunque; indovina quest’altra!
— Ma.... — disse l’ostiere, gonfiandosi a quella lode (e se avesse avuto un cencio di coda, si sarebbe provato a fare la ruota) — si parla in paese d’un certo matrimonio....
— E di chi? Va innanzi! — prosegui messer Pietro, ugnendogli le carrucole.
— Eh, meglio di me lo saprete voi, magnifico messere. Io non lo conosco, ma dicono sia un uomo d’assai, che ha terra e castella ed ogni ben di Dio, là dalle parti di Torino....
— E la sposa? Che ne dici tu?
— Madonna Nicolosina? Ah, quella è un occhio di sole.... un bottoncino di rosa!... Diecisette anni, messere, diecisette anni a san Nicola, che casca tra dieci dì, salvo errore, ed è già una meraviglia di bellezza, che vengono già da tutte le parti, solo per vederla a passare per via. E buona, per giunta, come il pane, e costumata, poi, e dotta, che nemmanco il parroco di san Biagio ne sa quanto lei. Insomma, una perla, messere, una perla, come madonna Bannina, sua madre, che Iddio conservi lungamente alla casa dei nostri signori.
— Godo che un suo vassallo me la lodi così! — esclamò messer Pietro, con aria tra umile e contenta.
— È lui! è lui! non c’è dubbio; — disse mastro Bernardo tra se. — Non sono io il solo a lodarla, — ripigliò quindi, per dar la giunta alla derrata, — ma tutti i ventimila abitanti del Marchesato l’hanno in quel conto che ella si merita, per la sua bellezza e per la sua virtù, che non han la compagna. E come le son fioccati i partiti! Ce n’è uno che la voleva ad ogni costo, e seguita a volerla.... messer lo Doge di Genova.... Ma sì, gli ha da appiccar la voglia all’arpione, costui! Madonna Nicolosina non è boccone pei Fregosi....
— Ah sì? e perchè mò? — interruppe messer Pietro, facendo bocca da ridere. — Perchè son genovesi?
— Non già per questo; — rispose l’ostiere, con un certo sussiego. — Parliamo suppergiù la medesima lingua e si potrebbe vivere, sto per dire, da buoni fratelli, se qualche volta non ci avessero il ruzzo di spadronare in casa d’altri. Ma vedete, messeri; su quella gente là non ci si può far conto. Potevano essere, sia detto con vostra licenza, il primo popolo del mondo, stimati da per tutto e temuti la parte loro.... Ma no; con mille discordie si sono guastati il sangue, e non possono durarla tre mesi in pace con sè medesimi. Va via di lì, ci vo’ star io, è la regola di tutti que’ maggiorenti, che dovrebbero invece adoperarsi per la tranquillità e per la grandezza del popolo. E si bisticciano sempre, non so da quanti anni, e fanno a rubarsi il comando; oggi Adorno, domani Fregoso, posdimani Adorno da capo, sempre su e giù, si arrabbattano come fagiuoli in pentola. Erano padroni in casa loro, che non li comandava nemmeno l’imperatore; e adesso, vedete, son roba di tutti, che la è una miseria a pensarci. E ancora s’impuntano a dar molestia ai vicini; e vogliono far l’omo addosso a noi altri! Si mettano in pace tra loro, si mettano; comandi chi può e obbedisca chi deve. Che ve ne sembra, messere?
— Mi sembra che tu abbia ragioni da vendere! — rispose messer Pietro, aggrottando le ciglia.
In quella che mastro Bernardo, ringalluzzito del suo trionfo oratorio, si disponeva a meritarsene un altro, ricomparve il Maso sull’altana.
— Padrone! — gridò egli ansimante — Venite giù subito!
— Che c’è egli di nuovo? — dimandò stizzito l’ostiere.
— C’è messer Giacomino che ha mestieri di voi.
— Aspetti; or ora ci andrò.
— Ha premura; — incalzò il ragazzo,
— Se ne vada, allora; potevi dirgli che ci ho forastieri.
— Se gliel ho detto! Ma egli vi vuole ad ogni costo.
— Ha da essere un pezzo grosso, il vostro messer Giacomo! — notò il Picchiasodo. — Va dunque e vedi di contentarlo.
— Oh, gli è un giovinotto, mezzo villano e mezzo soldato, che si crede dappiù di chi si sia, perchè il nostro Marchese lo vede di buon occhio; un superbioso, che va sempre col capo nelle nuvole, e qui non ha mai bevuto un bicchiere.
— Ragione di più per scendere; vedrai che stavolta ti asciuga la cantina.
— Del resto, — soggiunse messer Pietro. — oramai siamo satolli e si parte. Fa intanto stringer le cinghie ai cavalli.
— Sarete serviti, magnifici messeri; e caverò fuori un fiaschetto di malvasia, che vien proprio da Candia, pel bicchier della staffa.
— Sta bene; e tu piglia questo per l’opera tua; credo che basterà. —
Così dicendo, messer Pietro gli pose in mano un genovino d’oro.
— Corbezzoli, se basta! — gridò l’ostiere, facendo tanto d’occhi a quel lucicchìo. — Tornateci domani, sul conto, e doman l’altro, se vi piace; l’Altino è vostro, messere.
— Se non ci avesse a costare che questo, — borbottò il Picchiasodo, — e’ sarebbe a straccia mercato. —
Il genovino d’oro, valeva allora quindici grossi, che erano intorno a tredici lire della nostra moneta presente, ma che, fatto il conto dei tempi diversi e dei mutati prezzi delle derrate, potrebbero ragguagliarsi al doppio di questa valuta. E ciò spieghi la meraviglia della contentezza di mastro Bernardo; il quale si avviò gongolante all’abbaino, per dove era già scomparso il ragazzo.
— Che matrimonio ha da essere! — andava dicendo l’ostiere tra sè. — Non è più di primo pelo, ma e’ ci ha un’ariona da principe, questo messere.... A proposito; la Rosa mi aveva pur detto il suo nome! Tamburlano? No. Canterano? Nemmeno. Certo comincia in ca.... Vediamo un poco!
Messer Pietro si era mosso dalla tavola, alla volta del murello, e pareva volesse dare un’ultima occhiata al paese. Picchiasodo, da uomo più materiale, era ancora al suo posto, e mostrava cogli atti di voler vedere il fondo all’orciuolo del vino.
— Scusate, messere; — disse mastro Bernardo, avvicinandosi a lui; — il nome del vostro compagno?
— Perchè? — dimandò il Picchiasodo, inarcando le ciglia.
— L’ho sulla punta della lingua; — proseguì mastro Bernardo, senza badare al piglio scontento di quell’altro. — Vedete, messere; sono un povero diavolo d’oste, ma ci ho entratura al castello. Mia moglie è sorella della madre di Gilda, la cameriera di madonna Bannina, e il nome dello sposo io l’ho risaputo. Ca.... Casche.... Aiutatemi a dire!
— Casche.... — ripetè il Picchiasodo, per contentarlo.
— Sicuro, Casche.... Ma se non mi date voi una mano...
— Ti cascherà l’asino, lo capisco.
— Ah, bravo! Cascherà.... Ci sono; Cascherano, Grazie tante! Messer lo conte di Cascherano, — soggiunse allora mastro Bernardo, volgendosi a messer Pietro e sprofondandosi fino a terra, — la grazia vostra!
— Per chi vi piglia costui? — chiese il Picchiasodo a messer Pietro, mentre quell’altro si allontanava.
— Lascialo dire; — rispose messer Pietro. — Egli è venuto quassù per farci cantare, ed ha cantato lui per tutti, il baggèo! —