< Castel Gavone
Questo testo è completo.
Capitolo XV
XIV XVI

CAPITOLO XV.

Qui si racconta delle valentie di due sozi,
i quali non erano Teseo a Piritoo.


Non credano i lettori benevoli che l’autore, avendo nel capitolo precedente chiamata madonna Nicolosina l’Elena di Castel Gavone, voglia venire in quest’altro a nuovi riscontri mitologici. Egli ha per contro già, confessato nel titolo che i due sozi di cui parlerà non erano da mettersi a paragone con Teseo e Piritoo, que’ due famosi rapitori di donne.

Compagni di ventura, il principe d’Atene e il re dei Lapiti, rubarono Elena, ancor tenerella di età, la quale toccò in sorte al primo di loro; e il patto essendo corso tra i due che il perdente fosse dal vincitore aiutato a trovarsene un’altra, ne conseguì che Teseo accompagnasse l’amico di là d’Acheronte, per dargli mano al ratto di Proserpina; il secondo, e credo anche l’ultimo, attentato amoroso, di cui fosse fatta argomento quella povera dea. Il primo, se ben ricordate, fu commesso da Plutone, che poi consacrò la sua marachella con un bravo matrimonio e con un permesso alla moglie di andare in campagna da sua madre per sei mesi d’ogni anno.

Or dunque, s’avviarono i due amici all’impresa, ma senza aver fatto i conti con Cerbero. Il quale avventatosi alla gola di Piritoo, lo strangolò senza misericordia, dando tempo a Plutone di mettersi in arme e di far prigione il compare, che fu, anni dopo, liberato a stento da Ercole.

Ognun vede che questi non sono riscontri da farsi con Tommaso Sangonetto e con Giacomo Pico. L’antichità riverente ci ha fatto due eroi di Teseo e di Piritoo, forse perdonando, in ricompensa di più nobili imprese, queste ed altre loro scappatelle di gioventù; laddove i nostri due sozi, non che di lode, non sono pur degni di scusa. Epperò si ha da credere, se non c’è sotto un qualche artifizio acconcio a predisporre l’animo dei lettori, che i nomi de’ due antichissimi eroi siano tirati in ballo per mostrare in che razza di dottrina è ferrato a diaccio l’autore di questo racconto, oramai presso al suo termine.

E per non indugiarci più oltre, facciamo ritorno alle due donne, rimaste così sbigottite al primo indizio della scalata e dello spandersi dei nemici entro le mura del castello Gavone. Vedremo più tardi Don Giovanni di Trezzo e sapremo che diavol fosse quell’altro tafferuglio che lo faceva accorrere con tanta fretta verso le scale.

Madonna Nicolosina, fortemente turbata, era corsa a rifugio nella cameretta di Gilda. Modesta e linda cameretta, già così lieta dimora di colei che chiamavano la più bella ragazza del Finaro, dopo la figliuola del marchese, che era per le grazie della persona e per l’altezza dei natali celebrata bellissima! Pochi e semplici in quel breve spazio gli arredi; un forziere di noce intagliato a rabeschi, nel quale la fanciulla custodiva le cose sue; una scranna, uno specchio alla parete, una lampada sospesa, un letticciuolo, un inginocchiatoio, su cui stava un picciol vaso di maiolica, con entro un mazzolino di fiori, davanti ad un trittico d’avorio, nella cui tavoletta di mezzo era dipinta la Vergine, e sulle altre due santa Caterina e san Biagio, patroni del Borgo. Una volta (e non era corso gran tempo) in quel vaso erano i fiori freschi ogni dì, anche nel cuor dell’inverno; chè ogni stagione, in questi lidi benedetti dal cielo, ne porta. Ma, da parecchie settimane, quel culto gentile era stato posto in oblìo, nè più i fiori erano stati cambiati dinanzi alle immagini dei santi. Sfioriva nel rimorso e nel dubbio la povera Gilda; diseccavano i vecchi fiori dimenticati nel vaso.

Il primo pensiero di Nicolosina fu di aprir la finestra e di spenzolare allo ingiù la lunga e salda appiccatura di lenzuola che avea preparata la Gilda. Il vento soffiava e i suoi buffi gelati entravano pel vano della finestra, facendo tremolare la fiamma nella lampada sospesa. Ma ella non se ne addiede, che in quello stremo d’angoscia niente più poteva ferirla. Gridò, chiamando i finarini, che dovevano essere in quell’ora appiattati nella macchia delle roveri: ma, o non l’udissero costoro, o ancora non fossero giunti, o la voce loro non vincesse le folate del vento, la povera Nicolosina non ottenne risposta al suo grido.

Incominciò allora a tremare. Il fragore dei nemici cresceva nel piano inferiore del castello. Già saliano le scale. Non parevano molti; erano due al più, i primi accorrenti; ma uno solo bastava ad atterrirla, a gelarle il sangue nelle vene. La misera donna già si vedeva dinanzi l’immagine di Giacomo Pico, del suo fiero amatore, non più ginocchioni, in atto supplichevole, bensì ritto e minaccioso su lei, prostrata, abbandonata, senza schermo e senza forza, a’ suoi piedi.

Quella orrenda visione la comprese di spavento ineffabile. Entrando nella camera, aveva chiuso l’uscio dietro di sè. Ma questa difesa non poteva bastarle. Nicolosina corse allora a gittarsi sull’inginocchiatoio, e là, a mani giunte, lacrimosa, con rotti accenti, pregò, supplicò la vergine Maria, tutti i santi del paradiso, per suo padre, per sua madre, per sè. Pur troppo non era da aspettarsi più nulla dagli uomini; se una speranza di salute restava, questa non le appariva più che dal cielo.

Un passo concitato risuonò allora nel corridoio. Il nemico procedeva nelle tenebre, ma pronto e sicuro, come uomo che conosceva la via. Non era un genovese, di certo; lui, dunque, lui? La povera donna levò le braccia verso l’immagine di Maria; raccomandò, non più la sua vita, l’onor suo, a quella donna che in suo vivente aveva tanto sofferto. Se Dio accoglie la preghiera, sotto qualunque nome gli sia rivolta da creature infelici, per fermo doveva udir quella.

Ma invano ella pregava. Un urto poderoso schiantò il serrame che riteneva l’uscio alla parete. Il vento che s’ingolfò nella camera avvertì la povera donna che ogni sua speranza era perduta e che il nemico era giunto là dentro.

— Ah, ah! — disse una voce sarcastica. — La colombella s’è chiusa nel nido? —

Nicolosina fremette, si aggrappò colle mani e coi gomiti all’inginocchiatoio, come un naufrago alla sua tavola di salvezza.

— Per altro, — soggiunse la voce, che non era quella di Giacomo Pico, — meglio era chiuder la finestra che l’uscio. Con questo freddo morrebbe a ghiado l’amore, che pure è tutto di fiamma. —

E Tommaso Sangonetto (che era lui il nuovo venuto, come avranno già indovinato i lettori) andò verso la finestra, per richiuder le imposte.

— Ohe! che novità son queste? — proseguì, vedendo il nodo delle lenzuola raccomandato al colonnino che partiva la finestra. — Si lavorava a tirare il ganzo quassù? Ma bene! Questa non me l’avrei aspettata. Del resto, per gl’innamorati voglion essere scale di seta, o nulla. Stia al fresco, il babbione! Chi tardi arriva, male alloggia. —

Così dicendo, Tommaso Sangonetto, che non pensava una parola di quel che diceva, e bene aveva indovinato perchè ci fosse quella scala posticcia sul davanzale, spiccò il nodo e gittò le lenzuola al vento; indi richiuse le imposte.

— Ah; bene così! — ripigliò. — La lampada non darà più i tratti dell’impiccato. E adesso, vi volgerete da questa banda, bella schifa ’l poco, donna sgargiante, anima dell’anima mia.

— Tommaso Sangonetto, — interruppe Nicolosina, balzando in piedi, tutta fiammeggiante di vergogna e di collera, — rispettate la figlia del vostro signore! —

A quella vista inaspettata, il Sangonetto diede un sobbalzo, che lo ricondusse tre passi indietro, nella strombatura della finestra, da cui si era mosso pur dianzi. Madonna Nicolosina! madonna Nicolosina là dentro! che voleva dir ciò? O non era quella la camera della Gilda? quella stessa camera in cui era venuto la prima volta a portarle la nuova del duello e della ferita di Giacomo, e a sfrombolarle in pari tempo la sua prima dichiarazione d’amore, accolta da lei con tanto sussiego?

Senonchè, Tommaso Sangonetto non era uomo da perdersi d’animo davanti ad una donna, nè per una sostituzione di donna. Pensò brevemente, com’era consentito dall’urgenza dei casi, e disse tra sè: vedi, Tommaso; o viene Giacomo, che s’è accorto del tiro, e noi si cambia posto; o non viene.... e allora, che ci posso far io? —

Questo dilemma gli messe l’animo in pace. Quanto alla dignità di Nicolosina, e a’ suoi alti natali, se ne rideva quel poco! Ci aveva in corpo un fiasco di vino, che doveva dargli coraggio come soldato, e lì per lì se ne trovava d’avanzo.

— Oh, scusate, madonna! — aveva detto a tutta prima, nel colmo dello stupore. — Credevo... non mi potevo immaginare...

Ma presto s’era rimesso in sella. Quel suo dilemma ne faceva testimonianza.

— In fede mia, — soggiunse, dopo un momento di sosta e facendo bocca da ridere, — qui c’è uno scambio. Non me ne lagno, perdinci, non me ne lagno. Direi anzi che ci guadagno un tanto, mia bella contessa.

Nicolosina si ritrasse indietro due passi. Gli occhi luccicanti di quell’uomo le faceano paura. — Sentite, madonna; — ripigliò il Sangonetto, che aveva notato quell’atto di ribrezzo. — Facciamoci a parlar chiaro. Per dare indietro che facciate, non uscirete di qui. Ancora due passi e vi troverete al muro. Non vi schermite dunque inutilmente; non guastate in vani contorcimenti la vostra serena bellezza.

— Mio Dio! mio Dio! — mormorò la povera Nicolosina, giungendo le palme sul seno e levando al cielo uno sguardo atterrito.

— Siete bella, — proseguì il Sangonetto — molto bella, troppo bella, ve lo dico io, che me ne intendo, e, da vent’anni in qua, non fo che studiare di questa importante materia. Non vi aspettavate la mia visita, lo so; ma fuggivate quella d’un altro. Vi basti di averla cansata e di averci, non fo per dire, guadagnato nel cambio. La Nena di Verezzi, che ci ha, senza farvi torto, il primo paio d’occhi di tutto il paese, dice che io sono il più bell’uomo del Finaro. Ah, ah! che ne dite? Non ha, buon gusto la Nena? —

La misera donna fremeva di paura e di orrore insieme, a vedersi quel ceffo dinanzi e a doverne udire le sconcie parole. Per fermo egli era preso dal vino. L’alito impuro dallo stravizzo le offendeva la nari.

Per altro, e non era forse a vedersi in cotesto un aiuto del cielo? che non avrebbe ardito prima d’allora il ribaldo, se i fumi del vino bevuto non gli avessero offuscato il cervello? A questo pensiero un fil di speranza le balenò nella mente, e, vincendo il raccapriccio ond’era tutta compresa, tentò, col dargli risposta, di guadagnar tempo su lui.

— Badate; — diss’ella. — Siam vittime di un tradimento e la vittoria di un istante vi accieca. Ma i vostri concittadini, più fedeli di voi al loro signore non tarderanno a giunger quassù. Non aggravate la vostra colpa, Tommaso Sangonetto. Siete un ribelle; non diventate un infame. Io stessa chiederò la vostra grazia a mio padre, e l’otterrò; ma uscite; uscite, se vi è cara la vita.

— Ah, ah! bene, in fede mia, questo è parlar da padrona! — replicò il Sangonetto, ghignando. — La mia grazia! Voi mi vendete il sol di luglio, mia bella ritrosa. La vostra mi preme, e l’avrò, per amore, o per forza; m’intendete? o per amore o per forza! Do la mia parte di paradiso per voi. Siete mia, per dritto di guerra; non vi pensate di sfuggire la taglia. Vi par dura? Avete il torto. Un po’ per uno a comandare; questa è l’uguaglianza. Eravamo noi i vassalli, noi i censuarii, soggetti a tributo, noi le mani morte, taglieggiabili a misericordia. Ora tutto è cangiato. Non ci son più signori. Repubblica, mi capite? Comanda la repubblica di Genova e noi siamo i suoi mandatari, ci vendichiamo, occhio per occhio e dente per dente. Vi siete goduti per secoli e secoli ogni maniera di privilegi e diritti; parecchi di questi, assai ghiotti pe’ vostri padri e mariti. Vivaddio, ne useremo un po’ noi... E non c’è strilli che tengano! —

Nicolosina trovò nella sue braccia una forza di cui in ogni altra occasione non si sarebbe creduta capace. Tanto può in gentil cuore l’alterezza offesa e il ribrezzo che un tocco d’impure mani gl’inspira. E non pure si sciolse da quel braccio che aveva ardito posarsi su lei, ma colla veemenza d’un assalto improvviso fe’ dare indietro e barcollare un tratto l’insolente ribaldo.

— Ah sì? — sclamò egli, facendosi pavonazzo dalla rabbia e fischiando le parole come un serpente il suo verso. — Dobbiam fare la guerra? Facciamola! Tu cederai, smancerosa, ingannatrice lusinghiera, dovess’io romperti le braccia, come rompo questa lampada che mi dà noia. —

E gli atti seguendo la minaccia, il prode Tommaso strappò la lampa dalla sua catenella e la mandò in pezzi sul pavimento.

Poco dianzi avea fatto quest’altra argomentazione tra sè:

— Giacomo non viene; dunque ha trovato il fatto suo; dunque a te, Sangonetto, e fa conto d’essere andato per la prima volta a Verezzi. Scivolata per scivolata, questa è la meno pericolosa di certo. —

E intanto che egli, non badando al grido di angoscia di Nicolosina, nè ad un altro suono più degno della sua attenzione, ha gittato a terra la lampada, e fatto buio pesto nella cameretta di Gilda, vediamo come e perchè il suo degnissimo compare Giacomo Pico non corresse a dargli la muta.

Salito con lui fino al secondo piano del castello, il Bardineto aveva svoltato da solo verso le stanze di madonna Nicolosina. Il cuore gli battea forte nel petto, così forte che sembrava dovesse ad ogni colpo schiantarsi. Lo compresse rabbiosamente col pugno, ma invano; quel battito gli suonava continuamente all’orecchio, e parea misurargli i minuti che ancora gli restavano a diventare il più infame degli uomini. Il tradimento consumato, la nefandità a cui si disponeva, e senza la quale il suo tradimento sarebbe stato il più inutile tra i delitti, gli turbinavano senza posa nell’anima, e, come le furie antiche, istigatrici e punitrici ad un tempo, lo incalzavano e lo inseguivano, gli toglievano il senno, ma senza levargli altrimenti dagli occhi l’immagine della sua abbiettezza.

Ma che era egli ciò, contro un’ora di vendetta e di ebbrezza? Fosse pur venuta a coglierlo in quel punto la morte! Tanto, egli lo intendeva, che in quell’ora di ebbrezza e di vendetta era pieno il suo vivere.

Sul limitare della camera di madonna, si fermò titubante. L’uscio era socchiuso e la luce trapelava dal vano. Il Bardineto si fe’ scorrer le mani sulla fronte, come per cacciarne l’ultima vampa di rossore, ed entrò.

Il letto a baldacchino, guernito di pizzi d’oro, scorgevasi in fondo alla camera, ma vuoto, senza alcun segno di posatura recente. Giacomo Pico, meravigliato di ciò, corse cogli occhi in giro, e là, ai piedi del letto, ove la cortina pendente dal sopraccielo impediva la via alla luce dei doppieri, immobile, bianca come uno spettro, di rincontro al tappeto istoriato che copriva la parete, gli venne veduta una donna. Immobile, ho detto, ma non come persona morta; che viva, e agitata da una fiera tempesta di affetti, la dicevano gli occhi fiammeggianti nell’orbite, le labbra rattratte da un moto convulsivo, il pugno chiuso sul seno, perfino il tremito del braccio teso che si appoggiava contro la spalliera del letto.

Giacomo Pico rimase come inchiodato al suo posto. Quella donna era la Gilda.

Fu un lungo silenzio tra i due, rotto soltanto dall’ansia dei loro petti frementi. Nessuno dei due abbassò gli occhi davanti agli occhi dell’altro. Si guatavano fisi, e le occhiate si scontravano, torve come folgori in un cielo tempestoso. Pure, nè l’uno nè l’altro avrebbe voluto trovarsi colà; tanto era triste la condizione d’entrambi, tanto sentivano nel lampo dei vicendevoli sguardi l’imminenza dello schianto che doveva lacerarli ambedue.

Giacomo Pico tentò di svagarsi, inebriandosi della sua collera. Si morse le labbra a sangue, diede in un ruggito di fiera e fu per muovere contro di lei. Ma Gilda non gli diede il tempo da ciò.

— Sapevate di trovarmi qui? — gli disse ella con accento vibrato, quantunque oppresso dall’ira.

La domanda poteva offrire uno scampo. Ma il Bardineto ricusò il giovarsene.

— No! — rispose egli furente.

— E allora?.... — gridò di rimando la Gilda, mal chiudendo in quella sua reticenza la furia di mille rimproveri. — Badate, Giacomo Pico; voi sareste un infame. Per chi venivate voi qua?

— Per lei! — rispose Giacomo, sbuffando a guisa di toro ferito.

— Ah, uditelo, demonii d’inferno! — proruppe ella con voce di tuono. — Egli ardisce mostrarsi più nero, più malvagio di voi!

— Smettete i paroloni! — replicò il Bardineto. — Non vi ho amata mai; orbene, sì, questo è il mio torto, di non averlo detto prima! È anche vostra colpa di non averlo indovinato, di esservi abbandonata nelle mie braccia come una femmina sciocca. Maledizione, maledizione per voi e per me! dovevo io imbattermi in due donne, l’una così superba e l’altra così debole?

— Non proseguire, Giacomo! — gridò la Gilda, impallidendo. — Se ami qualcheduno o qualche cosa, al mondo, non proseguire!

Ma Giacomo Pico, riscaldato com’era, inebbriato della sua collera, non le diè retta.

— Ah, voi credevate, — proseguì egli, mentre faceva per la camera le volte del leone, — che io potessi dimenticar quella donna? che io potessi acquetarmi a’ suoi superbi dispregi? Mal conoscete il cuore dall’uomo.

— Disgraziato, fermati! — gridò per la seconda volta la Gilda. — Vive già nel mio seno una vita che ti può maledire! —

E mentre si contorceva nello spasimo, rasciugandosi con una mano il sudor freddo che le stillava dalla fronte, brancolava coll’altra per trovare un appoggio. In buon punto la spalliera del letto le sostenne il fianco spossato.

Il Bardineto la vide e n’ebbe compassione. Ma era detto che le parole sue non dovessero tornar di conforto a quella povera donna.

— È un acerbo dolore per voi; sì, pur troppo; ed una maledizione ch’io merito. Ci siamo ingannati ambedue. Io stesso non vedevo in fondo al mio cuore. È un abisso, credetelo, e più nero che voi non pensiate. Amo io quella donna, o l’odio? Non lo so. Eppure, ella ha da esser mia. È una rabbia in me, una feroce voluttà di vendetta. Sono un traditore per lei, mi capite? un traditore. Voi non potreste dirmi cosa che io già non abbia detto a me stesso. Traditore ed infame. A lei la colpa, a lei la pena di ciò! Dove è dessa? dove l’avete nascosta?

— Non la cercate; — rispose Gilda, con un filo di voce.

— Per l’anima tua, disgraziata, dimmi dov’è? Voglio saperlo, m’intendi?

— Non lo saprete.... dal mio labbro.... mai! Vi basti di avermi trovato qui, in vece sua, per salvarla da voi.

— Ah sì! Diffatti, perchè sei tu qui? e se tu sei qui nella sua camera, — proseguì egli, illuminato da un improvviso raggio di luce, — perchè non sarebbe ella andata a nascondersi nella tua?

— Ah! — sclamò ella, balzando in piedi e guardandolo in volto con occhi atterriti.

— Sta bene! — disse Giacomo Pico. — La tua paura ti tradisce. Essa è là. Ed ora, vedremo se ella mi sfugge. —

Così dicendo, Giacomo Pico andò verso l’uscio. Ma la Gilda, ritrovò in un subito le forze smarrite.

— Voi non uscirete di qui! — gridò ella con piglio risoluto.

E veloce come la folgore, corse all’uscio, lo chiuse, trasse la chiave, e, innanzi ch’egli avesse avuto tempo a raccappezzarsi, andò a gittarla sotto un forziere, che stava in un angolo della camera.

L’arnese era di gran mole e appariva eziandio di tal peso da non potersi smuovere così agevolmente; inoltre, la Gilda si era aggravata colla persona contro la sponda del forziere, e, chiuse le mani intorno agli spigoli, mostrava negli atti e nello sguardo scintillante di esser pronta a resistere con ogni sua possa. Al solo vederla in quella sua minacciosa postura, il drago, custode geloso dei tesori nascosti, non sarebbe parso una favola.

Livido per rabbia impossente, Giacomo Pico ristette alquanto sopra sè. Gli pareva impossibile che una donna avesse a fare così grave ostacolo a’ suoi disegni, alla sua volontà. Eppure, a tanto era giunta costei; e Giacomo Pico, nella incertezza in cui l’avea posto l’atto audace e repentino, cercava inutilmente il modo di romper gl’indugi, senza macchiarsi in un’altra viltà, percuotendo una donna.

Ad un tratto, parve ricordarsi di qualche cosa. Il pensiero doveva tornargli molesto oltremodo, poichè egli si cacciò a furia le mani nei capegli e mise un urlo disperato.

— Maledizione! Sai tu che fai ora? — gridò, avventandosi all’uscio e scuotendolo vigorosamente.

— Salvo la mia padrona! — rispose la Gilda, notando l’inutile sforzo di lui.

— No, per la tua dannazione, tu non la salvi; — ruggì il furibondo. — Tu fai un regalo a Tommaso Sangonetto. Ma se tu credi che questo serrame possa arrestarmi.... —

E smesso di urtare nell’uscio, Giacomo Pico ficcò le dita tra il catenaccio e la parete, cercando di schiantare la staffa piantata nel muro.

— Un regalo!.... al Sangonetto!.... — ripetè macchinalmente la Gilda. — Che hai detto Giacomo? Dov’è il Sangonetto?

— Nella tua camera, perdio! — urlò Giacomo Pico. — Hai inteso ora?

E proseguiva, così dicendo, a trarre il catenaccio con tutta la forza delle sue dita ripiegate ad uncino.

— Nella mia camera!.... lui!.... — sclamò la povera donna, a cui quelle parole mostravano una verità a gran pezza più triste che ella non avesse potuto immaginare da prima. — Ah vile, tre volte vile! Dio di Giustizia, tu lo hai udito, tu lo hai condannato! —

E mentre il Bardineto, con un ultimo sforzo, veniva a capo di schiuder l’uscio restìo, quella donna si scagliò furibonda come una tigre su lui, e, tratto un pugnale di sotto alla cintura, glielo cacciò nelle reni.

Era quello il pugnale che, il giorno della sua caduta, la povera Gilda aveva strappato di pugno a Giacomo Pico.

Si voltò in soprassalto il ferito, sentendo il freddo acuto della lama penetrargli nelle viscere. Voleva piombare su lei, e le sue mani si spiccarono dall’uscio che avea ceduto in quel momento a’ suoi sforzi. Ma non gli venne fatto; e neppure gli bastò l’animo per sostenere lo sguardo iracondo di quella Nemesi vendicatrice.

Rimase attonito; mille pensieri, mille immagini confuse gli traversarono la mente. Il triste dramma della sua vita gli lampeggiò nello sguardo, in quello sguardo così fiero da prima, e in ultimo così raumiliato.

Sentì allora venir meno le forze. Con moto istintivo le mani si stesero, per aggrapparsi al catenaccio, da cui si erano un istante spiccate. Ma non fece più in tempo e cadde sulle ginocchia.

La Gilda buttò il pugnale lungi da sè, ruppe in un grido di terrore e forsennata si gittò ai piedi di Giacomo.

— Hai fatto bene; — le disse egli con voce interrotta. — Sono un vile... tre volte vile!... Eppure non ero nato per finire così!...

— Giacomo! Ed io ti ho ucciso! gridò ella con accento disperato, strappandosi i capegli dalle tempia.

— No... hai fatto bene... ti dico. — soggiunse il morente, con voce sempre più fioca. — Vile... tre volte vile! —

Così dicendo, girò attorno gli occhi smarriti, come cercando la luce che gli sfuggiva. Mosse ancora le labbra, balbettando parole confuse; allungò le braccia quasi volesse trattenersi anche un istante tra i vivi; indi reclinò il capo sul petto e stramazzò, colle membra prosciolte, sul pavimento. Giacomo Pico era morto.


Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.