< Catone in Utica
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Atto terzo

ALTRA REDAZIONE

della scena v e seguenti dell’atto terzo

[Conoscendo l’autore molto pericoloso l’avventurare in iscena il personaggio di Catone ferito, tanto a riguardo del genio delicato del moderno teatro, poco tollerante di quell’orrore che faceva il pregio dell’antico, come per la difficoltá d’incontrarsi in attore che degnamente lo rappresenti, cambiò in gran parte l’atto terzo di questa tragedia nella maniera che siegue. L’aggiunta di un tal cambiamento entra fra le prescrizioni dell’autore medesimo, da noi osservate esattamente, come converrebbe che il fosser sempre da qualunque stampatore (Avviso dell’edizione parigina).]

SCENA V

Luogo ombroso circondato d’alberi, con fonte d’Iside da un lato e, dall’altro, ingresso praticabile d’acquedotti antichi.

Emilia con gente armata.

È questo, amici, il luogo ove dovremo
la vittima svenar. Fra pochi istanti
Cesare giungerá. Chiusa è l’uscita
per mio comando, onde non v’è per lui
via di fuggir. Voi, qui d’intorno occulti,
attendete il mio cenno. (la gente si dispone) Ecco il momento
sospirato da me. Vorrei... Ma parmi
ch’altri s’appressi. È questo
certamente il tiranno. Aita, o dèi;
se vendicata or sono,
ogni oltraggio sofferto io vi perdono. (si nasconde)

SCENA VI

Cesare e detta.

Cesare. Ecco d’Iside il fonte. Ai noti segni
questo il varco sará. Floro, m’ascolti?...
Floro!... Nol veggio piú. Sin qui condurmi,
poi dileguarsi! Io fui
troppo incauto in fidarmi. Eh! non è questo
il primo ardir felice. Io di mia sorte
feci in rischio maggior piú certa prova.
(nell’entrare s’incontra in Emilia, che esce dagli acquedotti con la sua gente, la quale circonda Cesare)
Emilia. Ma questa volta il suo favor non giova.
Cesare. Emilia!
Emilia.  È giunto il tempo
delle vendette mie.
Cesare. Fulvio ha potuto
ingannarmi cosí?
Emilia.  No, dell’inganno
tutta la gloria è mia. Della sua fede
giurata a te contro di te mi valsi.
Perché impedisse il tuo ritorno al campo,
a Fulvio io figurai
d’Utica su le porte i tuoi perigli.
Per condurti ove sei, Floro io mandai
con simulato zelo a palesarti
questa incognita strada. Or dal mio sdegno,
se puoi, t’invola.
Cesare.  Un femminil pensiero
quanto giunge a tentar!
Emilia.  Forse volevi
che insensati gli dèi sempre i tuoi falli
soffrissero così? Che sempre il mondo
pianger dovesse in servitú dell’empio
suo barbaro oppressor? Che l’ombra grande
del tradito Pompeo
eternamente invendicata errasse?
Folle! Contro i malvagi,

quando piú gli assicura,
allor le sue vendette il ciel matura.
Cesare. Alfin che chiedi?
Emilia.  Il sangue tuo.
Cesare.  Sí lieve
non è l’impresa.
Emilia.  Or lo vedremo. Amici,
l’usurpator svenate.
Cesare. Prima voi caderete. (cava la spada)

SCENA VII

Catone e detti.

Catone.  Olá! fermate.
Emilia. (Fato avverso!)
Catone.  Che miro! Allor ch’io cerco
la fuggitiva figlia,
te in Utica ritrovo in mezzo all’armi!
Che si vuol? Che si tenta?
Cesare. La morte mia, ma con viltá.
Catone.  Chi è reo
di sí basso pensiero?
Cesare. Emilia.
Catone.  Emilia!
Emilia.  È vero:
io fra noi lo ritenni. In questo loco
venne per opra mia. Qui voglio all’ombra
dell’estinto Pompeo svenar l’indegno.
Non turbar nel piú bello il gran disegno.
Catone. E romana, qual sei,
speri adoprar con lode
la greca insidia e l’africana frode?
Emilia. È virtú quell’inganno,
che dall’indegna soma
libera d’un tiranno il mondo e Roma.
Catone. Non piú: parta ciascuno. (la gente d’Emilia parte)
Emilia.  E tu difendi
un ribelle cosí?

Catone.  Suo difensore
son per tua colpa.
Cesare.  Oh generoso core! (ripone la spada)
Emilia. Momento piú felice
pensa che non avrem.
Catone.  Parti, e ti scorda
l’idea d’un tradimento.
Emilia. Veggo il fato di Roma in ogni evento. (parte)

SCENA VIII

Cesare e Catone.

Cesare. Lascia che un’alma grata
renda alla tua virtú...
Catone.  Nulla mi devi.
Mira se alcun vi resta
armato a’ danni tuoi.
Cesare. (guardando attorno)  Partí ciascuno.
Catone. D’altre insidie hai sospetto?
Cesare.  Ove tu sei
chi può temerle?
Catone.  E ben, stringi quel brando:
risparmi il sangue nostro
quello di tanti eroi.
Cesare. Come!
Catone.  Se qui paventi
di nuovi tradimenti,
scegli altro campo, e decidiam fra noi.
Cesare. Ch’io pugni teco! Ah, non fia ver! Saria
della perdita mia
piú infausta la vittoria.
Catone.  Eh! non vantarmi
tanto amor, tanto zelo: all’armi, all’armi!
Cesare. A cento schiere in faccia
si combatta, se vuoi; ma non si vegga,
per qualunque periglio,
contro il padre di Roma armarsi il figlio.
Catone. Eroici sensi e strani
a un seduttor delle donzelle in petto.

Sarebbe mai difetto
di valor, di coraggio
quel color di virtú?
Cesare.  Cesare soffre
di tal dubbio l’oltraggio!
Ah! se alcun si ritrova
che ne dubiti ancora, ecco la prova.
 (mentre snuda la spada, esce Emilia frettolosa)

SCENA IX

Emilia e detti.

Emilia. Siam perduti.
Catone.  Che fu?
Emilia.  L’armi nemiche
su le assalite mura
si veggono apparir. Non basta Arbace
a incoraggire i tuoi. Se tardi un punto,
oggi all’estremo il nostro fato è giunto.
Catone. Di private contese,
Cesare, non è tempo.
Cesare.  A tuo talento
parti, o t’arresta.
Emilia.  Ah! non tardar; la speme
si ripone in te solo.
Catone. Volo al cimento. (parte)
Cesare.  Alla vittoria io volo. (parte)

SCENA X

Emilia.

Chi può nelle sventure
uguagliarsi con me? Spesso per gli altri
e parte e fa ritorno
la tempesta, la calma, e l’ombra e il giorno:
sol io provo degli astri

la costanza funesta;
sempre è notte per me, sempre è tempesta.
               Nacqui agli affanni in seno;
          ognor cosí penai;
          né vidi un raggio mai
          per me sereno in ciel.
               Sempre un dolor non dura;
          ma, quando cangia tempre,
          sventura da sventura
          si riproduce, e sempre
          la nuova è piú crudel. (parte)

SCENA XI

Gran piazza d’armi dentro le mura di Utica. Parte di dette mura diroccate. Campo da’ cesariani fuori della cittá, con padiglioni, tende e macchine militari.

Nell’aprirsi della scena si vede l’attacco sopra le mura, Arbace al di dentro tenta rispinger Fulvio, giá inoltrato con parte de’ cesariani dentro le mura; poi Catone, in soccorso d’Arbace; indi Cesare, difendendosi da alcuni che l’hanno assalito. I cesariani entrano per le mura. Cesare, Catone, Fulvio ed Arbace si disviano combattendo. Siegue fatto d’armi fra i due eserciti. Fuggono i soldati di Catone rispinti: i cesariani gl’incalzano; e, rimasta la scena vuota, esce di nuovo

Catone con ispada rotta in mano.

Vinceste, inique stelle! Ecco, distrugge
un punto sol di tante etadi e tante
il sudor, la fatica. Ecco soggiace
di Cesare all’arbitrio il mondo intero.
Dunque (chi ’l crederia!) per lui sudâro
i Metelli, i Scipioni? Ogni romano
tanto sangue versò sol per costui?
E l’istesso Pompeo pugnò per lui?
Misera libertá! Patria infelice!
Ingratissimo figlio! Altro il valore
non ti lasciò degli avi,
nella terra giá doma,
da soggiogar che il Campidoglio e Roma!

Ahi non potrai, tiranno,
trionfar di Catone. E, se non lice
viver libero ancor, si vegga almeno
nella fatal ruina
spirar con me la libertá latina. (in atto di uccidersi)

SCENA XII

Marzia da un lato, Arbace dall’altro, e detto.

Marzia. Padre!
Arbace.  Signor!
Marzia e Arbace.  T’arresta!
Catone.  Al guardo mio
ardisci ancor di presentarti, ingrata?
Arbace. Una misera figlia
lasciar potresti in servitú si dura?
Catone. Ah, questa indegna oscura
la gloria mia!
Marzia.  Che crudeltá! Deh! ascolta
i prieghi miei.
Catone.  Taci.
Marzia. (s’inginocchía)  Perdona, o padre;
caro padre, pietá! Questa, che bagna
di lagrime il tuo piede, è pur tua figlia.
Ah! volgi a me le ciglia;
vedi almen la mia pena;
guardami una sol volta, e poi mi svena.
Arbace. Placati alfine.
Catone.  Or senti:
se vuoi che l’ombra mia vada placata
al suo fatal soggiorno, eterna fede
giura ad Arbace; e giura
all’oppressore indegno
della patria e del mondo eterno sdegno.
Marzia. (Morir mi sento!)
Catone.  E pensi ancor? Conosco
l’animo avverso. Ah! da costei lontano
volo a morir.

Marzia.  No, genitore; ascolta: (s’alza)
tutto farò. Vuoi che ad Arbace io serbi
eterna fé? La serberò. Nemica
di Cesare mi vuoi? Dell’odio mio
contro lui t’assicuro.
Catone. Giuralo.
Marzia.  (Oh Dio!) Su questa man lo giuro.
 (prende la mano di Catone, e la bacia)
Arbace. Mi fa pietade.
Catone.  Or vieni
fra queste braccia, e prendi
gli ultimi amplessi miei, figlia infelice.
Son padre alfine; e nel momento estremo
cede ai moti del sangue
la mia fortezza. Ah, non credea lasciarti
in Africa cosí!
Marzia.  Questo è dolore! (piange)
Catone. Non seduca quel pianto il mio valore.
               Per darvi alcun pegno
          d’affetto, il mio core
          vi lascia uno sdegno,
          vi lascia un amore,
          ma degno di voi,
          ma degno di me.
               Io vissi da forte:
          piú viver non lice.
          Almen sia la sorte
          ai figli felice,
          se al padre non è. (parte)
Marzia. Seguiamo i passi suoi.
Arbace.  Non s’abbandoni
al suo crudel desio. (parte)
Marzia. Deh! serbatemi, o numi, il padre mio. (parte)

SCENA XIII

Cesare, portato da’ soldati sopra carro trionfale formato di scudi e d’insegne militari, preceduto dall’esercito vittorioso ed accompagnato da Fulvio.

               Coro. Giá ti cede il mondo intero,
          o felice vincitor.
               Non v’è regno, non v’è impero,
          che resista al tuo valor.

(Terminato il coro, Cesare scende dal carro, il quale disfacendosi, ciascuno de’ soldati, che lo componevano, si pone in ordinanza con gli altri).

Cesare. Il vincere, o compagni,
non è tutto valor: la sorte ancora
ha parte ne’ trionfi. Il proprio vanto
del vincitore è il moderar se stesso,
né incrudelir su l’inimico oppresso.
Con mille e mille abbiamo
il trionfar comune,
il perdonar non giá. Questa è di Roma
domestica virtú: se ne rammenti
oggi ciascun di voi. D’ogni nemico
risparmiate la vita; e con piú cura
conservate in Catone
l’esempio degli eroi
a me, alla patria, all’universo, a voi.
Fulvio. Cesare, non temerne: è giá sicura
la salvezza di lui. Corse il tuo cenno
per le schiere fedeli.

SCENA ULTIMA

Marzia, Emilia e detti.

Marzia. Lasciatemi, o crudeli! (verso la scena)
Voglio del padre mio
l’estremo fato accompagnare anch’io.

Fulvio. Che fu?
Cesare.  Che ascolto!
Marzia. (a Cesare) Ah, quale oggetto! Ingrato!
Va’, se di sangue hai sete, estinto mira
l’infelice Catone. Eccelsi frutti
del tuo valor son questi. Il men dell’opra
ti resta ancor. Via! quell’acciaro impugna,
e in faccia a queste squadre
la disperata figlia unisci al padre. (piange)
Cesare. Ma come?... per qual mano?
Si trovi l’uccisor.
Emilia.  Lo cerchi invano.
Marzia. Volontario morí. Catone oppresso
rimase, è ver, ma da Catone istesso.
Cesare. Roma, chi perdi!
Emilia.  Roma
il suo vindice avrá. Palpita ancora
la grand’alma di Bruto in qualche petto.
Cesare. Emilia, io giuro ai numi...
Emilia.  I numi avranno
cura di vendicarci. Assai lontano
forse il colpo non è. Per pace altrui
l’affretti il cielo; e quella man, che meno
credi infedel, quella ti squarci il seno. (parte)
Cesare. Tu, Marzia, almen rammenta...
Marzia.  Io mi rammento
che son per te d’ogni speranza priva,
orfana, desolata e fuggitiva.
Mi rammento che al padre
giurai d’odiarti; e, per maggior tormento,
che un ingrato adorai pur mi rammento. (parte)
Cesare. Quanto perdo in un dí!
Fulvio.  Quando trionfi,
ogni perdita è lieve.
Cesare. Ah! se costar mi deve
i giorni di Catone il serto, il trono,
ripigliatevi, o numi, il vostro dono. (getta il lauro)



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