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Capitolo IV.
La funzione dell’arte.
Che cos’è adunque l’arte, se eliminiamo il concetto della bellezza, fatto solo per ingarbugliare inutilmente il problema? Le sole definizioni dell’arte che attestino l’intenzione di lasciar da banda il concetto del bello, sono le seguenti: 1.° secondo Schiller, Darwin, Spencer, l’arte è un’attività che si riscontra anche tra gli animali, e nasce dall’istinto sessuale e dall’istinto del giuoco; e Grant Allen aggiunge che siffatta attività s’accoppia a un gradevole eccitamento del sistema nervoso; 2.° secondo Véron, l’arte è la manifestazione esteriore di commovimenti interiori, ottenuta per mezzo di linee, di colori, di moti, di suoni, di parole; 3.° secondo Sully, l’arte è la produzione d’un oggetto durevole o d’un’azione passeggera tale da generare nel produttore un godimento attivo, e suscitare in un dato numero di spettatori o d’uditori un’impressione piacevole, esclusa ogni considerazione d’utilità pratica.
Queste tre definizioni, pur essendo superiori di molto a quelle definizioni metafisiche le quali fondano l’arte sulla bellezza, restano a ogni modo inesatte.
La prima è inesatta, perchè, invece di considerare unicamente l’attività artistica, che è sola in questione, non contempla che l’origine di codesta attività. Ed è inesatta del pari anche l’aggiunta proposta dal Grant Allen, attesochè l’eccitamento nervoso di cui parla può accompagnarsi, oltrechè coll’azione artistica, con molte altre forme dell’attività umana; e di qui è scaturito l’errore delle nuove teorie estetiche per le quali s’innalza alla dignità dell’arte la preparazione di belle vesti, di gradevoli profumi, e perfino di pietanze.
La definizione del Véron che fa consistere l’arte nell’esprimere certe emozioni è inesatta, perchè si possono esprimere le proprie emozioni per mezzo di linee, di colori, di parole, di suoni, senza che cosiffatta espressione agisca sugli altri; nel qual caso non si può trattare d’espressione artistica. Da ultimo è inesatta anche la definizione del Sully, come quella che si può applicare tanto ai giuochi di prestigio e all’acrobatica, quanto all’arte; mentre d’altro lato s’incontrano dei prodotti appartenenti all’arte senza che procurino sensazioni gradevoli a chi li produce nè al suo pubblico; come sarebbero le scene dolorose o patetiche, in una poesia o in un dramma.
La deficienza di tutte queste definizioni proviene dal fatto che tutte quante, come le definizioni metafisiche, si fondano soltanto sul piacere che l’arte può procurare, e non sulla funzione che può e deve esercitare nella vita dell’uomo e del genere umano.
Per definire più correttamente l’arte fa d’uopo che si rinunzi a riconoscere in essa soltanto una sorgente di piacere, e la si consideri piuttosto come una delle condizioni essenziali della vita umana. Sotto quest’aspetto l’arte ci si presenterà immediatamente come un mezzo di comunicazione tra gli uomini.
Ogni opera artistica ottiene l’effetto di porre chi ne prova il fascino in comunicazione con colui che ne è stato l’autore, e con tutti coloro che prima o poi ne furono o ne saranno partecipi. L’arte opera come la parola, che serve di legame tra gli uomini trasmettendo il pensiero, laddove per mezzo dell’arte si comunicano i sentimenti e le emozioni. E siffatta trasmissione avviene così.
Ogni uomo è capace di provare tutti i sentimenti umani, mentre non ogni uomo sa esprimerli tutti quanti. Ma se uno per mezzo dell’udito o della vista percepisce i sentimenti d’un altro espressi a dovere, può provarli in sé stesso, anche trattandosi di sentimenti nuovi per lui. Per prendere l’esempio più semplice: se un uomo ride, chi lo sente ridere, diventerà più o meno allegro; se qualcuno piange, quelli che lo vedono piangere si rattristano. Un tale è eccitato, oppur esasperato; i presenti risentono il contagio di quelle disposizioni. Un altro esprime coi gesti o col tuono della voce il coraggio, la rassegnazione, la tristezza, e il suo sentimento si comunicherà a quelli che lo vedono o l’ascoltano. esprime il suo dolore coi gemiti e coi sospiri; e il dolore passerà nell’anima di chi lo intende. E lo stesso si dica di mille altre emozioni.
Ora, quella forma d’attività che si chiama arte, si fonda sopra codesta attitudine dell’uomo a provare i sentimenti che agitano gli altri.
Se alcuno agisce sul sentimento altrui col suo aspetto o colle sue parole mentre egli stesso è in preda al sentimento che manifesta; se induce un altro a sbadigliare quando è costretto a sbadigliare egli stesso, a rìdere o a piangere, quando prova egli il bisogno di ridere o di piangere; codesti effetti dì contagio non sono ancora il risultato d’una creazione artistica. L’arte comincia quando l’uomo rievoca in sè, ed esprime con segni esteriori i sentimenti già provati altra volta col fine di farli provare altrui. Prendiamo anche questa volta un esempio elementare. Un ragazzo atterrito dall’incontro con un lupo, racconta l’avventura; e per destare negli uditori l’emozione provata da lui, descrive il suo stato d’allora, gli oggetti che lo circondavano, il suo perfetto abbandono, poi l’improvviso apparire del lupo, le sue mosse, la distanza a cui s’accostò, ecc. In codesto racconto avremo un fatto d’arte, se il ragazzo, narrando il suo caso, risuscita in sè i sentimenti già provati, e i suoi gesti, il tuono della sua voce, le sue imagini forzano gli uditori a provare essi stessi dei sentimenti analoghi. E quand’anche il ragazzo non avesse mai visto un lupo, ma si fosse solo spaventato all’idea dì incontrarne uno, e volendo comunicare agli altri codesto suo spavento inventasse un incontro con un lupo e lo raccontasse in modo da far rabbrividire i suoi uditori, anche in questo caso s’avrebbe un fatto d’arte. Così pure c’è arte, quando alcuno, avendo provato o in realtà o in imaginazione il timore di soffrire o il desiderio di godere, esprime sulla tela o nel marmo i proprii sentimenti in modo da comunicarli agli altri. C’è arte allorchè un uomo prova o s’imagina di provare sentimenti di gioia, di tristezza, di disperazione, di coraggio, di accasciamento, e le transizioni dall’uno all’altro di questi sentimenti, ed esprime tutto ciò con suoni che mettono gli altri in grado di riprovare le stesse commozioni.
I sentimenti che l’artista comunica agli altri possono essere di varie sorta, forti o deboli, importanti o insignificanti, buoni o cattivi; possono essere sentimenti di patriottismo, di rassegnazione, di pietà, di voluttà; possono esser resi con un dramma, con un romanzo, con una pittura, con una marcia, con una danza, un paesaggio, una favola; qualunque opera che esprime, ciò soltanto, è opera d’arte. Allorchè gli spettatori o gli uditori provano i sentimenti espressi dall’autore, c’è opera d’arte. Risuscitare in sè stessi un sentimento già provato per trasfonderlo negli altri col soccorso di moti, di linee, di colori, di suoni, d’imagini orali: ecco il vero oggetto dell’arte. L’arte è una forma dell’attività umana che ci consente di suscitare negli altri coscientemente e volontariamente i nostri sentimenti per mezzo di certi segni esteriori. S’ingannano i metafisici che vedono nell’arte l’estrinsecazione d’un’idea misteriosa della bellezza o di Dio; nemmeno l’arte è, come vogliono gli estetici fisiologi, un giuoco in cui l’uomo spende il suo eccedente d’energia; non è la produzione d’oggetti piacevoli; sovrattutto non è un piacere: è un mezzo di riunire gli uomini raccogliendoli a unità di sentimenti, e perciò indispensabile alla vita dell’umanità, e al suo progresso nella via della felicità.
In fatti a quel modo che in virtù della nostra facoltà di esprimere con parole i pensieri, ognuno di noi può conoscere quanto s’è fatto prima di noi nel dominio delle idee e prender parte all’attività mentale dei contemporanei, e trasmettere a questi e ai posteri i pensieri raccolti dagli altri e quelli aggiunti del proprio; così in virtù del nostro potere di trasfondere negli altri i nostri sentimenti per mezzo dell’arte, ci diventano accessibili tutti i sentimenti che s’agitano intorno a noi, come pure certi sentimenti provati mille anni prima di noi.
Se non godessimo della facoltà di accogliere le idee concepite dai nostri predecessori, e di trasmettere altrui le nostre, saremmo animali selvatici, oppure come Gaspare Hauser, l’orfano di Norimberga, il quale, per essere stato allevato nella solitudine, a sedici anni aveva l’intelligenza d’un bambino. E se ci mancasse l’attitudine a ricevere la impressione dei sentimenti altrui resi dall’arte, saremmo quasi ancora più selvatici, più divisi gli uni dagli altri, più ostili a vicenda. Donde risulta che l’arte è cosa importantissima, non meno importante del linguaggio stesso.
Siamo stati abituati a non comprendere nella denominazione d’arte se non quanto udiamo e vediamo nei teatri, nei concerti, nelle esposizioni, o quello che leggiamo nelle poesie e nei romanzi. Ora tutto ciò non è che l’infima parte dell’arte vera, colla quale palesiamo agli altri la nostra vita interiore, o intendiamo la loro. Tutta l’esistenza umana ribocca d’arte, dalle ninnenanne, dalle danze, dalla mìmica, dalle cantilene, agli uffizi religiosi e alle cerimonie pubbliche. Tutto ciò appartiene all’arte. Come la parola non opera, su di noi solo per l’eloquenza e per i libri, ma pure nelle conversazioni famigliari, del pari l’arte, intesa nel sue più largo significato, invade tutta la nostra vita, e la cosidetta arte in senso stretto è ben lontana dal rappresentare l’insieme dell’arte vera.
Ma per molti secoli il genere umano riconobbe solo una parte di codesta enorme e diversa attività artistica, quella cioè che si proponeva di perpetuare i sentimenti religiosi. A tutte le altre manifestazioni artistiche, cioè canzoni, danze, novelle di fate, ecc., gli uomini per un pezzo non diedero alcuna importanza, e solo occasionalmente i grandi educatori del genere umano si soffermarono a censurare certi prodotti di codesta arte profana, qualora li giudicassero opposti ai concetti religiosi del tempo.
Così fu intesa l’arte dai savii antichi, da Socrate, da Platone, da Aristotele, dai profeti ebrei e dai primi cristiani; così la intendono oggi ancora i maomettani; e così l’intende il popolo nei nostri villaggi russi. Ci furono persino degli educatori di popoli come Platone, e delle nazioni intiere, come i maomettani i buddisti, che negarono all’arte il diritto di esistere.
Certo avevano torto quegli uomini e quelle nazioni di condannare l’arte in genere, cioè di voler sopprimere cosa che non si può sopprimere, uno dei mezzi più indispensabili di comunicazione tra gli uomini. Ma il loro errore era meno grande di quello che commettono ora gli Europei civili col favorire tutte le arti al solo patto che producano il bello, ovverosia che generino il piacere. Una volta si temeva che tra le varie opere d’arte ce ne fossero di quelle atte a guastar la gente, e si condannavano tutte per timore di queste ultime; oggigiorno invece la paura di privarci di qualche minimo piacere basta a farci accettare tutte le arti col rischio di ammetterne di molto pericolose. Errore questo assai più grossolano dell’altro, e tale da produrre conseguenze molto più disastrose!