< Che cosa è l'arte?
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Lev Tolstoj - Che cosa è l'arte? (1897)
Traduzione dal russo di Anonimo (1904)
Introduzione
Tolstoi e Manzoni nell'idea morale dell'arte I

Introduzione.


Prendete in mano un giornale qualunque; ci troverete senza fallo una o due colonne dedicate al teatro e alla musica. Due volte su tre ci troverete pure la rassegna di qualche esposizione d’arte, la descrizione di qualche quadro, di qualche statua, e per giunta l’analisi dei romanzi, dei racconti, dei versi usciti di fresco.

Il vostro giornale, con uno zelo ammirevole e con gran copia di particolari, vi esporrà come questa o quest’altra attrice abbia sostenuto la sua parte in una determinata produzione; e così potrete comprendere di botto anche il valore del lavoro, sia dramma, sia commedia od opera, e l’importanza dell’esecuzione. Sarete informati a dovere anche dei concerti; saprete quali pezzi certi artisti abbiano sonati o cantati, e in che modo. D’altro lato in tutte le grandi città siete sicuri di trovare, se non due o tre, almeno una esposizione di quadri, che coi loro meriti e coi loro difetti offrono ai critici d’arte argomento di studi minuziosi. Quanto ai romanzi e alle poesie, non passa giorno che non ne sbocci una fioritura, e i giornali si credono in dovere di presentarne un’analisi accurata ai loro lettori.

In Russia, dove per l’educazione del popolo, a dir molto, si spende la centesima parte di quello che si dovrebbe, il governo sorregge l’arte dispensando milioni di rubli sotto forma di sovvenzioni ai teatri, alle accademie, ai conservatorj. In Francia l’arte costa allo Stato venti milioni di lire; e altrettanto costerà in Germania e in Inghilterra.

In tutte le città grandi sorgono edifizi colossali destinati ai musei, alle accademie, ai conservatorj, alle sale di teatro e di concerto. Migliaia e migliaia d’operai — carpentieri, muratori, pittori, falegnami, tappezzieri, sarti, parrucchieri, gioiellieri, stampatori — s’affaticano per tutta la vita in lavori molesti per soddisfare il pubblico assetato d’arte, talchè si può dire, che, eccettuate le armi, nessun altro ramo dell’operosità umana assorbisca un contingente così largo della forza nazionale.

E passi per il lavoro che si consuma a soddisfare codeste esigenze artistiche; il peggio si è che vi si sacrificano giornalmente innumerevoli vite d’uomini. Si contano a centinaia di migliaia le persone che sin dall’infanzia non fanno se non apprendere a sgambettare con agilità, a toccare rapidamente i tasti d’un pianoforte o le corde d’un violino, a riprodurre col pennello l’aspetto e il colore del mondo sensibile, a storpiare l’ordine naturale delle frasi, e ad accoppiare le parole nella rima. E tutti costoro, mentre sono di spesso onesti e di buon ingegno e naturalmente atti a mille occupazioni utili, s’abbrutiscono nelle angustie di quella loro professione speciale; diventano, come si suol dire, specialisti, cioè creature di mente ristretta, e piene di vanità, che ignorano tutte le serie manifestazioni della vita, e non sanno più fare altro se non muovere con rapidità le gambe, le dita e la lingua.


Ma la peggiore conseguenza della nostra civiltà artistica non consiste in codesta depressione della vita umana. Mi rammento d’aver un giorno assistito alla prova d’un’opera in musica, d’una di quelle opere nuove, grossolane e volgari, che s’allestiscono a gara su tutti i teatri d’Europa e d’America, salvo poi a seppellirle al più presto e per sempre nella dimenticanza più perfetta.

Giunsi al teatro che era appena cominciato il primo atto. Per arrivare al mio posto dovetti passare dietro il palcoscenico. Per certi corridoi oscuri fui introdotto dapprima in un vano spazioso, dove si trovavano delle macchine destinate ai cambiamenti di scena e all’illuminazione. Colà, al buio e tra la polvere, avvertii degli operai che lavoravano senza posa. Uno d’essi, pallido, inselvatichito, coperto d’una guarnacca sporca, colle mani del pari sporche e incallite dal lavoro, evidentemente un infelice affranto dalla stanchezza, ringhioso e inacerbito, rampognava irosamente (come udii passando) qualcuno de’ suoi compagni. Poscia per una scaletta mi si fece salire nello spazio angusto che girava intorno alle quinte. Attraverso a un garbuglio di corde, d’anelli, di tavole, di tende e di tela dipinta, vidi formicolare intorno a me delle decine, fors’anco delle centinaia d’uomini pitturati e truccati in vesti bizzarre, senza contar le donne, naturalmente vestite il meno possibile. Tutta quella folla erano i cantanti, i coristi, i ballerini e le ballerine, che aspettavano d’esser chiamati. Finalmente la mia guida mi fece traversare il palcoscenico, e giunsi al posto riservato per me, passando sopra un ponte di tavole gettato sopra l’orchestra, dove osservai una grossa schiera di sonatori seduti presso i loro strumenti, di violinisti, di flautisti, di arpisti, di cembalisti, e chi più n’ha più ne metta.

Su di un palchetto situato in mezzo a loro, tra due lampade a riflettori, con mi leggìo dinnanzi, se ne stava seduto colla sua bacchetta in mano il direttore d’orchestra, dirigendo non solo i sonatori, ma eziandio i cantanti che erano sulla scena.

E appunto sulla scena vidi un corteo d’Indiani che avevano accompagnato una sposa. Era un nugolo d’uomini e di donne in foggie esotiche; ma notai pure due persone in abito ordinario che s’arrapinavano e correvano da una parte all’altra del palcoscenico. Uno era il direttore della parte drammatica, vale a dire il direttore di scena; e l’altro, il quale, calzato di scarpette, volava qua e là con una prestezza maravigliosa, era il direttore di ballo. Seppi dipoi che costui in un mese guadagnava di più che non dieci operai in un anno.

Codesti tre direttori s’ingegnavano di ordinare il buon andamento della sfilata, che, secondo il solito, si faceva a due a due. Una quantità di persone, recando sulle spalle delle alabarde coperte di stagnola, si spiccava a un tratto, faceva parecchi giri sul palcoscenico, e si fermava di nuovo. E ce ne volle a regolar bene la processione; la prima volta gl’Indiani e le alabarde si mossero troppo tardi, la seconda troppo presto, la terza partirono al momento giusto, ma confusero le file per istrada; un’altra volta non seppero fermarsi al punto prefisso; e in ciascuno di questi casi si riprendeva da capo tutta la cerimonia. Il principio era costituito da un recitativo, nel quale un personaggio camuffato da turco, sgangherando la bocca in modo singolare, cantava “Accompagno la spo-o-sa!„ Cantava così, e gesticolava colle braccia, naturalmente nude. Poi s’avviava la sfilata; ma eccoti un cornetto dell’orchestra a sgarrare una nota; e il direttore d’orchestra a fremere come se rovinasse il mondo, e a martellare sul leggìo colla bacchetta. S’arrestò di nuovo ogni cosa, e il direttore volgendosi verso i sonatori, se la pigliò col cornetto, rimproverandolo per la nota stonata con certe villanie come non ne usano bisticciandosi tra di loro nemmeno i fiaccherai. E si ritornò da capo: gl’Indiani e le loro alabarde si rimisero in moto; il cantante riaprì la bocca sbraitando “Accompagno la spo-o-sa„. Ma questa volta le coppie procedevano troppo serrate.

Altri colpi di bacchetta sul leggìo, altra ripresa della scena. Gli eroi avanzavano colle alabarde alcuni tristi e seri in viso, altri sorridendo e chiacchierando. Eccoli che si fermano in cerchio, e cominciano a cantare. Ma la bacchetta riprende a picchiare sul leggìo; e il direttore di scena con accento disperato e furibondo, colma d’insolenze i miseri Indiani.

I poveracci, a quanto pareva, s’erano scordati di alzar le braccia di tempo in tempo in segno d’entusiasmo. “Siete infrolliti, brutte marmotte, siete di legno, che ve ne restate così impalati?„ E più e più volte vidi ricominciare il corteo, intesi i colpi secchi della bacchetta, e il torrente d’ingiurie che teneva loro dietro, “asini, stupidi, idioti, porci„, più di quaranta volte questi bei titoli saranno stati ripetuti all’indirizzo dei coristi e dei sonatori. Costoro, depressi moralmente e fisicamente, accettavano quegl’insulti senza la menoma protesta. E i due direttori d’orchestra e di scena, sapevano benissimo che quei disgraziati oramai erano troppo abbrutiti per poter far altro che soffiare in una tromba, o camminare colle scarpette gialle e colle alabarde di stagno; li sapevano avvezzi a una vita comoda e larga, pronti a soffrir tutto pur di non rinunziare ai loro agi, e perciò non si facevano scrupolo di dar la stura alla loro grossolanità naturale, senza dire che avevano osservato a Vienna e a Parigi lo stesso costume, e così s’imaginavano di seguire le buone tradizioni dei grandi teatri.

Sul serio non credo che al mondo si possa trovare uno spettacolo più ripugnante. Ho veduto parecchie volte un lavorante insultarne un altro perchè piegava sotto il peso d’un carico, o, durante la falciatura, il capo del villaggio rampognare un contadino per qualche svarione, e gli uomini così bistrattati sottomettersi in silenzio; ma per quanto siffatte scene mi tornassero spiacevoli, la mia ripugnanza era attenuata dal pensiero che in quei casi si trattava di lavori importanti e necessari, nei quali il più piccolo fallo poteva dar luogo a tristi conseguenze.

Là invece, in quel teatro, che si faceva? Per che cosa e per chi si lavorava? Capivo perfettamente che il direttore d’orchestra non ne poteva più, come quell’operaio che avevo incontrato dietro il palcoscenico; ma a benefizio di chi s’era egli ridotto in quello stato? L’opera, di cui si faceva la prova, era, come ho detto, tra le più volgari; adesso aggiungerò che in assurdità sorpassava quel che di peggio si può imaginare. Un re indiano aveva il ruzzo di prender moglie; gli si conduceva una sposa; il re si travestiva da menestrello; la sposa s’invaghiva del menestrello, e se ne disperava, ma poi si veniva a scoprire che il menestrello e il re suo fidanzato erano una persona sola; e tutti cominciavano a delirare dalla gioia. Indiani di codesta sorta non ve n’ebbero mai, nè ce ne saranno mai. Ed era certo del pari che i loro fatti e le loro parole non solo non avevan nulla da fare coi costumi dell’India, ma nemmeno con alcun costume d’uomini, salvo che quelli delle opere. Infatti grazie al cielo gli uomini reali non parlano in recitativi, nè volendo esprimere la loro commozione, si collocano a distanze regolari agitando le braccia in cadenza; non camminano mai a due a due, in babbuccie, con alabarde di stagnola, nessuno nella vita s’adira o si dispera, ride o piange, come si vedeva fare in quella rappresentazione. E che nessuno mai abbia potuto commoversi per una produzione di quel genere, anche questo era fuori d’ogni dubbio.

Quindi era naturale chiedersi: a chi poteva giovare tutta quella faccenda? A chi poteva piacere? Se in quell’opera ci fosse stata per miracolo della musica graziosa, non bastava eseguire la musica sola, senza tutti quei vestiti grotteschi, quelle processioni, quel dimenar le braccia? Perchè tutti i giorni, in tutte le città, da un capo all’altro del mondo civile, si ripetono codeste sciocchezze?

C’è anche il ballo, il quale non è che una esposizione di donne seminude che eseguiscono movimenti voluttuosi, allacciandosi in pose sensuali, spettacolo che provoca non altro che sensazioni di lussuria.

Ancora una volta, chi questi divertimenti possono interessare? Le persone colte è forza che ne siano stomacate; l’operaio è forza che non ne capisca nulla. Potrà compiacersene al più qualche giovine lacchè, qualche operaio pervertito, che abbia contratto i bisogni delle classi superiori senza potersi sollevare al loro buon gusto naturale.


Eppure ci si dice che tutte queste cose si fanno a benefizio dell’arte, e che l’arte importa moltissimo. Ma sarà vero che l’arte abbia tanta importanza da richiedere siffatti sacrifizi? Codesta questione si fa tanto più incalzante in quanto il concetto di codesta arte, a cui si sacrificano il lavoro di migliaia d’uomini, migliaia di esistenze, e sopratutto l’amore reciproco dell’umanità, va diventando sempre più vago e indeterminato.

Infatti i critici, ai quali si solevano appellare gli amatori dell’arte per trovar appoggio alle loro opinioni, in questi ultimi tempi hanno preso a contendere così fortemente tra di loro che, se dal dominio dell’arte escludiamo quanto ne hanno escluso le diverse scuole, in codesto vantato dominio non resta pressochè più nulla. Le scuole degli artisti, come le scuole dei teologi, s’escludono e si rinnegano a vicenda. Studiateli e vedrete che non fanno se non combattere le sétte rivali. Nella poesia, ad esempio, i vecchi romantici sconfessano i parnassiani e i decadenti; i parnassiani sconfessano i romantici e i decadenti; i decadenti sconfessano tutti i predecessori, e per giunta i simbolisti; i simbolisti sconfessano tutti i predecessori, e per giunta i magi, e questi sconfessano semplicemente tutti gli altri. Tra i romanzieri si parla di naturalisti, di psicologi, di naturisti, e tutti pretendono di meritar essi soli il nome d’artisti. Lo stesso accade nella drammatica, nella pittura, nella musica. Pertanto codesta arte, che richiede tanta fatica, che abbrutisce molte esistenze, che costringe la gente a peccare contro l’amor del prossimo, non solo non è cosa definita chiaramente e nettamente, ma persino i suoi fidi, i suoi iniziati la intendono in tante e così diverse maniere che oramai quasi non si sa più che si voglia dire colla parola “arte„, e in particolare, quale sia l’arte buona, utile, preziosa, l’arte che merita le siano offerti in omaggio tali e tanti sacrifizi.


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