< Che cosa è l'arte?
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Lev Tolstoj - Che cosa è l'arte? (1897)
Traduzione dal russo di Anonimo (1904)
L'arte degli eletti
VI VIII

Capitolo VII.


L’arte degli eletti.


Ma, se l’arte è un’attività intesa a propagare tra gli uomini i sentimenti migliori e più elevati della nostra anima, come si spiega che il genere umano durante tutto il periodo moderno abbia rinunziato a codesta attività, sostituendovi una funzione artistica inferiore, indirizzata unicamente al piacere?

Per rispondere a tale quesito, occorre prima sfatare l’errore solito per cui all’arte nostra si attribuisce il valore d’arte universale. Siamo tanto avvezzi a considerare ingenuamente la nostra razza come la migliore di tutte, che, parlando dell’arte nostra, siamo perfettamente convinti che sia l’arte vera, cioè la più vera e la migliore di tutte. Invece la realtà c’insegna che la nostra arte, nonchè essere la sola, non è accessibile che a una minima parte delle nostre razze civili. S’ha il diritto di parlare d’un’arte nazionale ebrea, greca, egiziana, e, se si vuole, anche cinese e indiana. Un’arte di questo genere, comune a tutto un popolo, esistette anche in Russia sino a Pietro il Grande, e nel resto d’Europa sino al secolo XIII o XIV. Ma dacchè le classi più elevate della società perdettero ogni fede nella Chiesa, e restarono prive di credenze religiose, non c’è più nulla che meriti il nome d’arte europea o nazionale. A partire da quello scetticismo religioso l’arte delle classi colte si separò da quella del resto del popolo; e si ebbero due arti; una per il popolo, e l’altra per i raffinati. Perciò a chi chieda come il genere umano abbia, nei tempi moderni, potuto far a meno dell’arte vera, si risponde che quella privazione non fu nè di tutto il genere umano nè d’una parte considerevole di esso, ma solo delle classi più elevate della nostra società europea e cristiana.

E gli effetti di questa mancanza d’arte si sono palesati a sufficienza nella corruzione delle classi che ne furono sprovviste. Tutte le teorie nebulose e incomprensibili intorno all’arte, tutti i giudizi falsi e contradditorii intorno ai suoi prodotti, e in particolare la persistenza della nostra arte a impantanarsi nella sua cattiva strada, tutto ciò derivò da quest’affermazione generalmente ammessa, nonostante la sua assurdità, che l’arte delle nostre classi elevate è tutta l’arte, l’arte vera, la sola arte, l’arte universale. Mentre noi sosteniamo che ha solamente valore l’arte che ci appartiene, i due terzi del genere umano vivono e muoiono senza sospettare nulla di quest’arte unica e suprema. E anche in questa nostra società cristiana ne godrà forse un uomo su cento; gli altri novantanove vivono e muoiono di generazione in generazione, oppressi dal lavoro, senza fruire mai della nostra arte; essa del resto è tale, che, quand’anche potessero accedervi, non la intenderebbero. Si potrà rispondere che se al presente non fruiscono tutti dell’arte esistente, ciò non dipende da questa, ma dal cattivo organismo della nostra società, e che il futuro ci permette di sperare uno stato di cose, in cui il lavoro materiale sia in parte compiuto dalle macchine, in parte alleggerito da una distribuzione più equa. Allora nessuno sarà più costretto a rimaner tutta la vita dietro le quinte per muovere i scenari, o a sonare il corno nell’orchestra, o a stampare dei libri; le persone addette a tali servizi non ci lavoreranno che poche ore al giorno, e durante i riposi si potranno godere le benedizioni dell’arte.

Così parlano i difensori dell’arte presente. Ma io sono convinto che non credono neppure essi a quello che dicono. Non possono ignorare che l’arte, quale è intesa da loro, richiede per condizione necessaria l’oppressione delle moltitudini, e senza tale oppressione non si reggerebbe. È indispensabile che una folla d’operai si fiacchi al lavoro, perchè i nostri artisti, scrittori, musicisti, ballerini e pittori tocchino quel grado di perfezione che li rende atti a farci godere. Liberate gli schiavi del capitale, e diventerà tanto impossibile produrre un’arte simile, quanto è ora impossibile ammettere questi schiavi a goderne.

Ma supponendo pure possibile ciò che è impossibile, cioè che si trovi un mezzo di rendere l’arte attuale accessibile al popolo, sorge un’altra considerazione a dimostrarci che un’arte siffatta non può essere universale; ed è questa: che essa è del tutto inintelligibile per il popolo. Nei tempi andati certi poeti scrivevano in latino; ora i prodotti artistici dei nostri poeti sono impenetrabili alla comune degli uomini, come se fossero scritti in sanscrito. Si vorrà dire che il fatto sia imputabile alla mancanza di cultura nel popolo, e che quando tutti saranno istruiti a sufficienza, tutti potranno capire la nostra arte? Sarebbe un’altra risposta insulsa; poichè sappiamo che sempre l’arte delle classi più elevate fu un mero passatempo per queste senza che il resto della gente ci capisse nulla. Le classi inferiori poterono dirozzarsi a loro talento; l’arte in origine non fatta per loro è sempre rimasta loro inaccessibile. Ed è e rimarrà sempre estranea ad esse per natura, in quanto esprime e propaga dei sentimenti proprii a una certa classe ed estranei al restante degli uomini.

Così, per esempio, quei sentimenti che formano l’argomento capitale dell’arte contemporanea, come a dire il punto d’onore, il patriottismo, la galanteria e la sensualità, non possono suscitare nei popolani che stupore, oppur disprezzo e indegnazione. Se anche alle classi operaie è concessa la possibilità di vedere, di leggere, di udire, nelle ore di libertà, ciò che forma il fiore dell’arte contemporanea (e sino a un certo grado ciò torna loro possibile nelle città, a cagione dei musei, dei concerti popolari, delle biblioteche), l’uomo di queste classi, se non è pervertito, e conserva il sentire proprio del suo stato, non potrà ricavare alcun profitto dalla nostra arte, e non l'intenderà punto; e ciò che gli riuscirà intelligibile non sarà tale da innalzare il suo animo, ma sì da guastarlo. Per uno che pensi, e voglia essere sincero, non v’ha dubbio che l’arte delle classi più elevate non può diventar quella di tutta la nazione. Ora se l’arte ha l’importanza che le si attribuisce, se come si compiacciono di dire i suoi divoti, uguaglia in importanza la religione, dovrebbe essere accessibile a tutti. E poichè oggi non è tale, è forza dire che o l’arte non ha l’importanza che si pretende, o che la nostra così detta arte non è l’arte vera.

Codesto dilemma è inevitabile, epperò taluni, scaltri e immorali a un tempo, cercano di eluderlo negando formalmente che il volgo abbia diritto a fruire dell’arte. Costoro con perfetta impudenza proclamano, che ad assaporare le gioie dell’arte sono ammessi solo i begl’ingegni, gli eletti, anzi i superuomini, per dirla col Nietzsche; e tutti gli altri uomini, gregge abbietto e incapace di gustare quelle gioie, devono contentarsi di prepararle per quegli esseri supremi.

Questa affermazione offre, se non altro, il vantaggio di non voler conciliare l’inconciliabile, e di ammettere apertamente che la nostra arte è fatta solo per una classe di privilegiati. Ed è tale per l’appunto; nè lo ignorano in fondo tutti coloro che vi si accostano, dichiarando pur sempre con insistenza che codesta arte delle classi elevate è l’arte vera, la sola che il genere umano debba riconoscere per tale.

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