< Cimbelino
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William Shakespeare - Cimbelino (1611)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto primo
Interlocutori Atto secondo

CIMBELINO




ATTO PRIMO



SCENA I.

Brettagna. — Il giardino del Re.

Entrano due Gentiluomini.

Gent. Qui non vedrete persona che mesta non vi rassembri: i nostri volti, al pari de’ nostri cortigiani, più non obbediscono agl’impulsi del cuore: ognuno di essi riflette la mestizia che sta dipinta sul viso del re.

Gent. Ma quale ne è la cagione?

Gent. L’erede del suo regno, la sua figliuola, ch’ei destinava all’unico figlio della nuova regina, della vedova che non ha molto sposò, s’è data in braccio ad un cavaliere, povero di fortune, ma ricco di meriti; e questa colpa ella sconta colla prigione, lo sposo col bando. Indi è, che tutto offre immagine della tristezza; e credo che anche il re sia tristo nel fondo del cuore.

Gent. Solo il re?

Gent. Non il re soltanto, ma anche il principe a cui fu tolta; e la regina pure, cui sorrideva il pensiero della futura unione: ma nessuno de’ cortigiani, sebbene tutti si foggino alle sembianze di chi regna, nessuno vi è che lieto non sia del matrimonio il quale mostrano commiserare.

Gent. E perchè?

Gent. L’uomo, al quale la principessa fu tolta, è tale, che ogni più turpe cosa, che dir se ne potesse, non gli sarebbe adeguata; ma quegli che la possiede, vo’ dire che l’ha disposata, e che per ciò fu bandito, quegli è un generoso, è un sì prode cavaliere, che invano ne cerchereste il simile in tutte le regioni del mondo. No, no; non credo che sulla terra si trovi anima tanto bella, congiunta ad un corpo più leggiadro.

Gent. Voi lo amplificate assai.

Gent. Nè esagero le sue lodi, nè do ad esse la estensione che comportano: il suo merito è ben maggiore dello scarso mio encomio.

Gent. Qual è il suo nome? quali i suoi natali?

Gent. Rimontar non saprei fino alla prima origine di lui. Sicilio fu il nome di suo padre, che si unì a Cassibelan contro i Romani, e l’aiutò potentemente; ma i suoi titoli d’onore egli non li ebbe che da Tenanzio, cui servì con gloria e con universale ammirazione. Prima del cavaliere, di cui vi accenno, vi erano stati due altri figliuoli, che nelle guerre di que’ tempi morirono colla spada alla mano. Il padre loro già vecchio, e vago di posterità, ne ebbe tanto dolore, che disertò la vita; e la sua amabile sposa, incinta di questo terzo fanciullo, spirò egualmente nel darlo alla luce del giorno. Il re prese l’orfano in grazia, lo chiamò Postumo, lo allevò, lo amò, lo istruì in ogni disciplina, di cui la sua tenera età potesse essere suscettiva; e con tanto profitto, che il giovinetto divenne l’amore di tutti: e, imberbe ancora, apparve agli adulti un modello di saviezza; ai vecchi una sicura guida per le affievolite loro menti. Quanto alla donzella, per cui oggi è espulso, il non volgare merito di lei chiarisce abbastanza in qual conto poteva avere giovine così egregio. Dalla scelta sua soltanto potrebbesi rilevare quali sieno le doti onde Postumo è adorno.

Gent. Gli rendo onore pel solo vostro racconto; ma ditemi, ve ne prego, la principessa è figlia unica del re?

Gent. Unica? non già: altri due figli egli aveva; e se questo particolare vi gradisce, ascoltatemi. Entrambi i fanciulli furono rapiti alla loro nutrice, l’uno in età di tre anni, l’altro ancora lattante; e fino ad ora non si ha il più piccolo sospetto sul luogo in cui possono essere stati nascosti.

Gent. Quanti anni sono passati da ciò?

1* Gent. Venti circa.

Gent. Che per tal guisa s’involino i figli d’un re; che con tanta trascuranza fossero custoditi; che nelle indagini fatte per iscoprirli siasi proceduto così lentamente da non poter nulla indovinare, è cosa, parmi...

Gent. Per quanto strano vi possa sembrare questo furto, e per quanto sia veramente inesplicabile tanta negligenza, il fatto non è però men vero.

Gent. Lo credo.

Gent. Ma sia qui fine al nostro discorso, chè veggo Postumo avanzarsi in compagnia della regina e della principessa. (escono)

SCENA II.

Entrano la Regina, Postumo e Imogène.

Reg. No, siatene certa, figlia mia; in me non troverete, come se ne può fare rimprovero alla maggior parte delle madrigne, un occhio malevolo per voi: siete mia prigioniera; ma la vostra custode vi affiderà le chiavi della carcere. Quanto a voi, Postumo, tostochè potrò mitigare il cruccio del re, assumerò le vostre difese; ma, ve lo dico, il fuoco della collera gli scalda ancora il sangue; e savio consiglio sarebbe sottomettervi alla condanna, da lui pronunciata, con tutta quella rassegnazione che la prudenza vi saprà suggerire.

Post. Se a voi sembra conveniente, Altezza, esulerò fino da oggi.

Reg. Voi conoscete il pericolo: traetene quindi buon senno. Io intanto passeggierò per breve ora i giardini, commiserando le angoscie di due cuori l’uno dall’altro divisi; sebbene il re m’avesse ingiunto di non lasciarvi insieme.     (esce)

Imog. Oh simulato amore!... oh come bene ella sa carezzare, nel tempo stesso che inacerbisce la piaga! Mio sposo, lo sdegno di mio padre mi spaventa; ma non cadranno già sopra di me gli effetti della sua collera. Conviene che voi partiate; mentre io dovrò qui rimanermi, e sostenere ad ogni istante gli adirati suoi sguardi, senza nulla che mi consoli, fuorchè il pensiero, che evvi nel mondo un gioiello cui potrò rivedere e possedere ancora.

Post. Mia regina, mia amante, adorata mia principessa, non piangere, se non vuoi forzarmi a commozione maggiore di quella che ad uomo si addica. Sarò lo sposo più fido che mai giurasse amore dinanzi agli altari; fermerò la mia stanza in Roma, presso l’amico del padre mio, Filario, cui non conosco finora che per lettere: là inviatemi vostre nuove, e i miei occhi, amabile sposa, divoreranno i vostri scritti, quand’anche esalar se ne dovesse un veleno di morte.     (rientra la regina)

Reg. Sollecitate, ve ne prego: se il re sopravvenisse, non so fin dove potesse spingere la sua collera verso di me. (a parte) Ben saprò io condurlo qui, chè a mio piacere io lo governo; nè mai l’offendo, che scontar non gli faccia i miei falli, e non gli venda a gran prezzo la mia grazia.     (esce)

Post. Se prolungar potessimo questo fatale congedo anche per tutta la vita, il dolore di separarci non saprebbe che maggiormente accrescersi... Addio.

Imog. Oh! rimani un istante: se pure non ti dipartissi che per trascorrere i luoghi vicini, questo addio sarebbe ancor troppo breve. Vedi, amico mio? questo diamante fu già di mia madre: accettalo, amore; ma custodiscilo finchè tu ne adorni il dito ad altra donna, allorchè Imogène sarà morta.

Post. Ad altra donna? Benefici Numi, concedetemi solo di posseder questa, che è mia; e se vaghezza mi prendesse mai d’alcun’altra, separatemi da lei con braccio di morte. — Rimanti, rimanti in questo dito (mettendosi l’anello) finchè il sentimento e la vita vi ti potranno serbare... E tu, tu, la più tenera, la più vaga delle fanciulle, che me solo avesti in cambio di te, abbi a perpetua ricordanza di tanta perdita questo pegno, che a guisa d’un laccio d’amore pongo a così gentile prigioniera. (le cinge al braccio una smaniglia)

Imog. Oh Dio! quando ci rivedremo noi! (entra Cimbelino con seguito di Lordi)

Post. Oimè, il re!

Cimb. Vilissima creatura, fuggi da questi luoghi, togliti dal mio cospetto! Se, dopo tale comando, osi ancora contaminar di tua ignobile presenza questa corte, sarai morto: fuggi; la tua vista avvelena il mio sangue.

Post. Gli Dei vi proteggano, e benedicano i buoni che a questa corte rimangono! Vado, signore.     (esce)

Imog. No, la morte non ha angoscie più dolorose di quelle che io provo.

Cimb. Oh sleale! tu che ringiovanir dovresti la mia vecchiaia, tu accumuli sul mio capo gli anni della decrepitezza.

Imog. Signore, ve ne scongiuro, non vi abbandonate a questi impeti di collera, che assai vi sono nocivi; e riguardateli come inutili, dacchè omai più non valgono a farmi sentire il peso del vostro cruccio, animata come io sono da un sublime sentimento, che mi rende insensibile ad ogni men alto affetto.

Cimb. Nè chiedi grazia? nè presti obbedienza?

Imog. Non ho più speranze; non dimando più perdono.

Cimb. Potevi sposar l’unico figlio della mia regina...

Imog. Oh mille volte benedetta, che più non lo posso! ho scelto un’aquila, e ripudiato un falco.

Cimb. Hai sposato un mendico, che avrebbe coperto d’ignominia il mio trono.

Imog. Dite piuttosto, che accresciuto ne avrebbe lo splendore.

Cimb. Vile!

Imog. Signore, se ho amato Postumo, la colpa è vostra: insieme fummo allevati; a compagno me lo deste nei giuochi dell’infanzia; ed uomo egli è degno di qual sia più nobile donna: a me accoppiandosi, egli mostrò di sentire umilmente di se stesso.

Cimb. Deliri tu ora?

Imog. Potrebbe essere, signore; e voglia il Cielo ch’io non ismarrisca affatto la ragione. Ah! perchè non sono la povera figlia d’un pastore? perchè non è Postumo la guida del mio armento?     (entra la Regina)

Cimb. O donna incauta, di nuovo li ho trovati soli: voi non avete eseguito gli ordini miei: ritiratevi con essa, e sia rinchiusa.

Reg. Imploro la vostra pazienza; e voi calmatevi, figlia mia. — Buon re, lasciateci sole, e nella vostra ragione cercate qualche conforto.

Cimb. Possa ella languire e piangere ogni giorno lagrime di sangue, sinchè, fatta vecchia, muoia della sua follia!     (esce)

Reg. Per ora, v’è d’uopo soffrire... (entra Pisanio) Ecco il vostro servo. — Ebbene, Pisanio, che arrechi?

Pis. Il principe vostro figlio ha sguainatala spada contro il mio signore.

Reg. Ah!... spero che nulla di sinistro sarà avvenuto...

Pis. No, perchè il mio signore ha combattuto da celia; e alcune oneste persone giunsero in tempo per separarli.

Reg. Ne sono lieta.

Imog. Il figlio vostro è il campione di mio padre, e ne sostiene le ragioni. Sguainar la spada contro un proscritto!... oh valoroso principe! Vorrei vederli entrambi a battaglia nei deserti dell’Africa, ed io starmi loro accanto, provvista di un ago, per pungere il primo che s’arretrasse. — Ah Pisanio! perchè hai tu abbandonato il tuo signore?

Pis. Per ordine suo; non volle ch’io lo seguissi fino al porto; e in questo scritto mi lasciò gli ordini che dovrò compiere finchè vi piacerà di tenermi ai vostri servigi.

Reg. (ad Imogène) Quest’uomo vi è stato finora servo fedele; e rispondo col mio onore, che lo sarà sempre.

Pis. Vostra Maestà accolga gli umili miei ringraziamenti.

Reg. Ve ne prego, passeggiamo insieme un istante.

Imog. (a Pisanio) Prima che una mezz’ora sia trascorsa, vi esorto a tornare da me; andrete almeno a vedere il mio sposo sulla nave; per ora lasciatene.     (escano)

SCENA III.

Una piazza pubblica.

Entrano Cloten e due Lordi.

Lord. Signore, vi consiglierei a mutar vesti; la violenza dell’opera vi ha renduto fumante come un olocausto1; nulla di più pestifero dell’aria che ora si esala da voi.

Clot. Se le mie vesti fossero insanguinate, allora per mutarle... L’ho io ferito?

Lord. (a parte) No, in fede mia: non valesti a piagare nemmeno la sua pazienza.

Lord. Ferito! ah! s’ei nol fu, convien dire che indossi una spoglia aerea.

Lord. (a parte) Il suo ferro fallì il colpo, perchè non gli calse di ucciderti.

Clot. Il vile non osava aspettarmi.

Lord. (a parte) No, perchè sarebbe stato inutilmente.

Lord. Aspettarvi? Se aggiunger poteste alle terre, che già possedete, il terreno che arretrandosi egli vi ha ceduto, non sarebbe lieve l’acquisto.

Clot. Vorrei che alcuno non si fosse frapposto.

Lord. (a parte) Così avrei voluto io pure, onde vedere col fatto quanto spazio occupi disteso un imbelle.

Clot. E dovrà ella amar colui, e aver me a sdegno?

Lord. (a parte) Se il fare una buona scelta è peccato, ella è dannata.

Lord. Signore, ve l’ho sempre detto, che lo spirito e la bellezza di lei male si accoppiavano. Un bel viso possiede; ma il raggio che ne sfavilla non valse mai ad abbagliarmi.

Lord. (a parte) Certo ella non manda luce sopra gli stolti, temendo la rifrazione che le ne verrebbe.

Clot. Venite; vado nella mia stanza: volesse il Cielo che alcuno fosse rimasto ferito!

Lord. (a parte) Così non desidero io; perocchè vana sarebbe stata la caduta d’un animale tuo pari.

Clot. Verrete con noi?

Lord. Seguirò Vossignoria.

Clot. No; tutti insieme.

Lord. Bene sta, milord.                                   (escono)

SCENA IV.

Una stanza nel palazzo di Cimbelino.

Entrano Imogène e Pisanio.

Imog. Vorrei che tu fossi seduto alla riva del porto, e là interrogassi continuamente ogni vascello che approda. Se il mio sposo mi scrivesse, e la sua lettera andasse smarrita, questa perdita per me sarebbe uguale a quella del colpevole a cui viene trafugata la sua lettera di grazia. Quali furono le sue ultime parole?

Pis. Mia regina! mia regina!

Imog. E sventolava il drappo?

Pis. E lo baciava, signora.

Imog. Insensibile drappo, ben più fortunato di me! Nè disse altro?

Pis. Altro, e solo, finchè i miei occhi poterono discernerlo, io lo vidi sul ponte della nave accennarmi, ora colla mano, ora colla pezzuola, quanto la sua anima fosse lenta, e rapida la nave che lo allontanava da voi.

Imog. Avresti dovuto seguirlo coll’occhio, finchè ti fosse sembrato piccolo come un augelletto.

Pis. Questo feci, signora.

Imog. Ah! io avrei voluto insanguinarmi le pupille, sforzandomi di vederlo tanto che per la lontananza mi fosse apparso come un atomo: sì, i miei sguardi lo avrebbero seguitato finchè, dalla grossezza d’un insetto impercettibile, ei fosse del tutto svanito nell’aria; e allora ne avrei distolti gli occhi per piangere... — Ma, buon Pisanio, quando avremo sue novelle?

Pis. Siatene sicura, signora; alla prima occasione che gli si parerà da ciò.

Imog. Io non gli ho dato l’ultimo addio, chè troppo dolci cose mi restavano a dirgli: prima che gli avessi potuto esporre, come in certe ore del giorno avrei pensato a lui, di quali pensieri, di quali ricordanze mi sarei beata; prima che gli avessi fatto giurare che alcuna donna d’Italia non lo avrebbe indotto a tradire il mio amore e l’onor suo, e accomandatogli di unirsi a me nelle comuni preghiere allo spuntare del dì, alla metà della notte ed al meriggio (in perocchè a quelle ore io prego il Cielo per lui); prima che avessi saputo ricambiargli il bacio della partenza, che volevo porre fra due parole d’amore, mio padre sopravvenne; e, come il tirannico vento del nord, che uccide i fiori non peranco dischiusi, la sua presenza agghiacciò sulle nostre labbra ogni impeto di tenerezza.     (entra una Dama)

Dama. La regina, signora, desidera che Vostra Altezza le tenga compagnia.

Imog. (a Pisanio) Affrettatevi ad eseguirei miei ordini: io andrò dalla regina.

Pis. Obbedisco, signora.                                   (escono)

SCENA V.

Roma. — Un appartamento nella casa di Filario.

Entrano Filario, Jachimo, un Francese, un Olandese e uno Spagnuolo.

Jach. Credetelo, signore: l’ho veduto, ancor giovinetto, in Brettagna, e tutti presagivano in lui quelle virtù che oggi lo fanno grande: ma io poteva riguardarlo senza sorpresa, e noverare tutte le sue doti senza commozione.

Fil. Voi ricordate un tempo, in cui egli non era ancor fornito di tutte quelle virtù che rendono illustre un uomo.

Franc. Ma io l’ho veduto in Francia; e in compagnia di tali che fissar potevano il sole con occhio fermo al pari di lui.

Jach. L’aver condotta in isposa la figlia del suo re accresce, non ne dubito, di molto la sua fama; e i pregi della sua donna lo rendono maggiormente pregevole.

Franc. Anche il suo bando...

Jach. Sì, anche il suo bando, ed il suffragio degli amici della principessa, i quali, vestendo i colori di lei, hanno debito di compiangere quel doloroso divorzio; tutto, dico, riesce meravigliosamente ad esaltar Postumo: perchè è ben duopo sostener l’onore della scelta d’Imogène, a cui, senza ciò, mal si perdonerebbe di essersi data in braccio ad uno sposo privo di ricchezze e di titoli. Ma come mai, Filario, vien egli adesso presso di voi? dove stringeste amicizia con lui?

Fil. Io e suo padre abbiamo militato insieme; e a suo padre fui più d’una volta debitore della vita. (entra Postumo) Ma ecco il nostro Brettone: mostratemi la vostra stima, accogliendolo con tutti quei cortesi uffici che gentiluomini quali voi siete debbono a un generoso straniero. Vi esorto tutti ad amare questo cavaliere, che voglio abbiate in conto di mio amico: il tempo, non io, che a me non si addice, vi farà conoscere tutto il suo merito.

Franc. Signore, noi ci siamo conosciuti ad Orleans.

Post. Dove mi prodigaste tante amabilità, che la mia riconoscenza cercherebbe invano di ricambiarvene.

Franc. Troppo accrescete il pregio de’ miei servigi, signore: io andava ben lieto d’avervi riconciliato con un mio concittadino; chè sgraziata cosa in verità sarebbe stata, che seguíto aveste i vostri disegni di morte per cosa di sì lieve momento.

Post. Perdonatemi, signore; allora era un giovine errante; e, prima che fidarmi a’ miei lumi, amava avere a guida l’esperienza degli altri: ma cresciuto poscia negli anni, mi parve, e sia detto senza offesa di alcuno, che il litigio non fosse tanto lieve, come ora lo dite.

Franc. In fede mia lo era troppo, perchè meritasse d’esser giudicato col ferro alla mano; sopratutto fra due prodi, di cui uno avrebbe ucciso l’altro, o che sarebbero rimasti entrambi sul campo di battaglia.

Jach. Possiamo noi, senza nota d’indiscreti, chiedervi quale fosse il soggetto di quella contesa?

Franc. Potete, imperocchè fu cosa pubblica; e senza ledere alcuno, concesso è di farne il racconto. Il soggetto fu presso a poco quel medesimo che venne ventilato l’altra sera, allorchè ognuno di noi faceva l’elogio delle bellezze del proprio paese. Questo cavaliere sosteneva a que’ tempi, e voleva sostenerlo anche col suo sangue, che la sua donna era la più leggiadra, la più onesta, la più virtuosa, la più costante, di quante altre mai fiorissero nel reame di Francia.

Jach. Quella donna adesso non vivrà più; o almeno il giudizio di questo cavaliere intorno a lei sarà in parte mutato.

Post. Ella vive ancora; e quel giudizio dura in me lo stesso.

Jach. Mal converrebbe che tanta preferenza le aveste a dare sulle nostre donne d’Italia.

Post. Ove fossi adesso così provocato, come fui allora, non allevierei i suoi meriti: dichiarandomi fin d’ora non solo suo amico, ma suo amante appassionato.

Jach. Dire ch’ella avanzi in virtù e in bellezza ogni altra donna, è dir troppo. Che vinca molte altre che ho conosciute, come il diamante che vi brilla in dito vince quanti altri diamanti ho visto, lo crederò di buon grado; ma veduto io non ho il più bel diamante che esista, come veduto voi non avete la donna più bella del mondo.

Post. Secondo il mio giudizio, io l’ho lodata come ora lodo questo anello.

Jach. E di qual valore riputate la gemma che possedete?

Post. Di un valore più alto di ogni altra cosa che conosciamo.

Jach. O la vostra donna è morta, o voi l’avete messa al di sotto del valore d’un gioiello.

Post. Siete in inganno: l’uno può comperarsi o aversi in dono, se ricchezze o meriti bastanti si hanno da ciò; ma l’altra non è cosa che si venda, e gli Dei soli possono farne un presente alla terra.

Jach. E di sì gran dono voi foste graziato dai Numi?

Post. Sì; e mercè loro mi sarà dato di conservarlo.

Jach. Voi potete annoverare la vostra bella fra i beni che vi appartengono; ma, lo sapete, alcuni strani augelli vengono talvolta a far preda nei nostri stagni. Anche l’anello vi può essere tolto; ond’è che i vostri tesori sono soggetti a mille pericoli: un destro malandrino e un aggraziato cavaliero potrebbero tentare di spogliarvene.

Post. La vostra Italia non ha cavaliere tanto egregio da poter trionfare dell’onore della mia donna; e sebben di malandrini sia dovizia in questo paese, ho nondimeno speranza di conservar sempre questo mio anello.

Fil. Di ciò basti, signori.

Post. Di buona voglia acconsento. Questo nobile cavaliere, lo veggo e glie ne so grado, non mi considera come straniero: egli m’ha fatto suo confidente sino dal primo istante che m’ha veduto.

Jach. E ove se ne presentasse l’opportunità, in sei momenti non più lunghi di questo, vorrei entrare in grazia alla vostra donna, e veder la sua virtù pericolare, e in procinto di arrendersi.

Post. No, no.

Jach. Ve lo prometto; e pongo la metà delle mie ricchezze contro il vostro diamante, che, secondo me, val qualche cosa di meno: e quello che m’incita a tale scommessa non è così la fama della vostra donna, quanto la vostra presuntuosa fiducia. Onde alleviarvi poi il dolore di questa disfida, dirovvi che la imprenderei contro qualsiasi femmina.

Post. Il vostro ardire v’induce in troppo temerarie speranze; e non dubito che, mettendo ad atto il vostro tentativo, non incontraste la sorte che meritate.

Jach. E che meriterei?

Post. Una ripulsa, a volervi anche giudicar mitemente.

Fil. Signori, basta; fine a questa inutile contesa.

Jach. Vorrei aver depositate le mie ricchezze e quelle di tutti i miei parenti, a guarentigia di quanto ho detto.

Post. E quale sarebbe la donna che scegliereste per tal prova?

Jach. La vostra, che voi riputate sì ferma nella virtù. Volete darmi commendatizie per la corte ove dimora? metto diecimila ducati contro il vostro diamante, che dopo due colloqui le avrò tolto quella gloria che in lei credete sì soda.

Post. Metterò oro contro oro; ma l’anello m’è troppo caro.

Jach. Temete, lo veggo; e ciò vi rende prudente.

Post. Vano linguaggio, a cui il vostro cuore non corrisponde.

Jach. Giuro che di buon grado m’accingerei alla prova che vi ho detto.

Post. Lo volete? a forza lo volete? Ebbene; si notino gli articoli della scommessa. La mia donna è più virtuosa che voi non siate maligno; eccone in fede il mio anello; a voi lo presto fino al vostro ritorno.

Fil. Nol permetterò mai.

Jach. Per gli Dei! il patto è stretto (prendendo l’anello); e se non vi riporto prove sicure di aver goduto i vezzi più cari della vostra bella, i miei diecimila ducati e l’anello sono vostri; ma ho mestieri delle vostre raccomandazioni, onde avere più libero accesso da lei.

Post. Di buon grado adotto le condizioni, e voglio siano vergate sopra un papiro. Ecco i patti: se, tornato dal vostro viaggio, potrete dimostrarmi di aver trionfato della mia sposa, non sarò più vostro nemico, ed ella non meriterà che più si parli di lei, ma se casta e fedele mi si serba, e provar non mi potete il contrario, mi dovrete rispondere colla spada alla mano e de’ vostri oltraggiosi sospetti, e dell’assalto dato alla sua onestà.

Jach. È detto: si stenda l’atto, e partirò per la Brettagna. Ogni indugio potrebbe intepidirci, e far andare a vuoto la scommessa. Corro a prendere il mio oro.

Post. A meraviglia.               (escono Postumo e Jachimo)

Franc. E terrà una tale scommessa? che ne pensate?

Fil. Jachimo non è già uomo da arretrarsi. Ma seguitiamoli, ve ne prego.     (escono)

SCENA VI.

Brettagna. — Una stanza nel palazzo di Cimbelino.

Entrano la Regina, alcune Signore, e Cornelio.

Reg. Finchè la rugiada bagna ancora la terra, ite a cogliere quei fiori; affrettatevi: chi ne ha l’incarico?

Sig. Io, signora.

Reg. Andate. (le Dame escono) Ditemi ora, dottore, avete provveduto quelle droghe?

Corn. Per compiacere a Vostra Altezza, eccole qui spremute in questo alberello (dandole una fiala): ma se Vostra Maestà me lo permette, e spero ch’essa non se ne offenderà, la mia coscienza mi obbliga a domandarle a che uso debba servire questa velenosa mistura, che lentamente produce la morte.

Reg. Stupisco, dottore, che mi facciate tale inchiesta. Non sono io stata lungo tempo vostra discepola? non m’avete voi insegnata l’arte di comporre profumi, di stillar sughi, e di conservarli? dimenticate forse che il re spesse volte mi accarezza, per le fragrantissime essenze onde so inebbriarlo? E dopo ciò vi meraviglierete, ove non mi supponghiate un’anima d’Averno, s’io cerco di render perfetta con nuove esperienze la mia scienza? Vo’ far prova di questa composizione su vili animali, non su creature umane; da ciò ne conoscerò la forza, vi opporrò antidoti, e verrò in chiaro della loro virtù.

Corn. Vostra Maestà con simili prove non farà che indurire il proprio cuore; nè potrà assistere ad esse senza avversione, e anche senza pericolo.

Reg. Basta così, dottore. (entra Pisanio) Ecco (a parte) il servo adulatore: sopra di lui farò il mio primo esperimento. Devoto al suo signore, egli abborre il figlio mio... Ebbene, Pisanio? (a Cornelio) Dottore, l’ufficio vostro presso di me per adesso è compiuto; ritiratevi, se vi piace.

Corn. (a parte) Voi mi siete sospetta, madonna; ma non commetterete alcun male.

Reg. Ascolta una parola... (a Pisanio)

Corn. (a parte) Mi ripugna costei... ella adesso crede avere in mano un veleno; ma troppo io conosco il cuor suo per avventurare con essa pozioni di morte. Forse le sue prove comincieranno da vili animali, per ascendere poi a specie più nobili: ma nell’apparente morte, che quella bevanda cagiona, non è pericolo; e dopo il sopore, che le tien dietro, più vigorosa ritorna la vita. Ella è ingannata sulla natura di quel liquore; ed io, ingannandola, adopero onestamente.

Reg. Dottore, già vi dissi che più non ne occorre la vostra presenza; aspettate perciò che vi facciamo di nuovo chiamare.

Corn. Prendo umilmente licenza.                         (esce)

Reg. (a Pisanio) Essa dunque piange sempre? Credi tu che nel tempo la sua passione non si estinguerà, e che la ragione non subentrerà alla follia? Intendi a questo con le tue cure; e allorchè mi dirai che Imogène ama mio figlio, la mia risposta al tuo fausto annunzio sarà: Pisanio, tu se’ maggiore del tuo signore; imperocchè la fortuna di lui è sbattuta, la sua fama languente, nè più gli è dato di tornare alla corte, o di trovare onorevole esilio; e mutando cielo, non farà che mutare sventura. E quale speranza nudrisci tu, appoggiandoti a una colonna che vacilla, e che impossibile sarà di rialzare? (Pisanio prende l’ampolla lasciata dal dottore, e la esamina) Tu ignori che essenza sia cotesta; ricevila or dunque da me in compenso de’ tuoi servigi. È un cordiale ch’io composi, e che cinque volte salvò la vita al re; prendilo, e ti sia pegno dei favori che in avvenire ti serbo. Fa conoscere alla tua signora qual sia il presente suo stato; ma tieni modo, onde i tuoi consigli sembrino procedere soltanto da te: in tal maniera adoperando, la fortuna ti apre innanzi una bellissima via; la signora tua ti resta, e ti fai devoto e ricordevole di te il figliuol mio. Io poi indurrò il re ad innalzarti, sia qual si voglia la meta a cui agogni; e spenderò la vita retribuendoti de’ tuoi servigi, colmandoti di ogni sorta di beneficii. — Chiama le mie donzelle; e ricordati delle promesse che ti faccio. (Pisanio esce) Un astuto è costui, che indarno si cercherebbe corrompere; un vile agente del suo signore, che incessantemente esorta Imogène a serbar fede ad un proscritto: ma un dono gli ho largito, di cui se si vale, la terra gli mancherà sotto i piedi; come a lei pure mancherà, se non fa miglior senno. (rientra Pisanio colle Signore) Bene sta; a meraviglia adempiste il carico vostro: portate ora nella mia stanza quelle viole, quei verbaschi, quelle rose bianche. Addio, Pisanio; rammenta quello ch’io t’ho detto. (esce colle Signore)

Pis. Così farò; (a parte) ma, prima che divenire infedele al mio buon signore, vorrei soffocarmi colle mie mani.     (esce)

SCENA VII.

Altra stanza.

Entra Imogène.

Imog. Un padre crudele, una perfida madrigna, un insensato adoratore che vagheggia una donna già legata ad altri, e il di cui sposo è bandito... oh quale sposo! mia suprema corona di martirio, che rinnova ad ogni istante tutti i miei dolori!... Se fossi stata rapita bambina, come i miei due fratelli, ora sarei felice; chè più alla sventura si avvicina chi più alto ascende. Fortunati coloro che, posti in umile stato, veggono compiersi i modesti loro voti inspirati dalla natura, e in ogni stagione benedetti!... Chi mai sarà quello straniero? il suo volto mi spiace.

(entrano Pisanio e Jachimo)

Pis. Signora, un nobile cavaliere romano vi arreca lettere del vostro sposo.

Jach. Mutate colore, madonna? Il nobile Postumo non corre alcun pericolo, e saluta teneramente l’Altezza Vostra.

(le dà una lettera)

Imog. Vi ringrazio, buon signore; voi siete cordialmente il benvenuto.

Jach. (a parte). Tutto ciò che di lei si vede è d’una bellezza rara; e se a queste doti aggiunge un’anima egualmente perfetta, costei è veramente la fenice araba, ed io ho perduto la scommessa. Audacia, non mi abbandonare! riscaldami del potente tuo soffio; o, come il Parto, non combatterò che fuggendo, o fuggirò senza aver combattuto.

Imog. (legge) Egli è un cavaliere di gran seguito alle cui cortesie sono molto tenuto: ricambiatelo con eguali amabilità, e abbiatemi in conto del vostro fedele Leonato.

Non vi leggo che queste poche parole; ma il mio cuore è profondamente penetrato dal resto della lettera: è tutto commosso di tenerezza e di riconoscenza. — Voi siete il benvenuto, signore, credetelo alla mia gioia, e apprestatevi a comandarmi come ad una vostra obbediente ancella.

Jach. Ve ne ringrazio, bella principessa. Oh! gli uomini sono essi dunque insensati? La natura avrà loro dati gli occhi per contemplare quell’immensa vôlta, ricco padiglione che si stende al di sopra della terra e dei mari; gli occhi che veder possono gli ardenti globi che raggianti si aggirano sopra le nostre teste, e quella moltitudine di brillanti pietre di cui risplendono queste nostre prode terrene; e con organi sì perfetti giudicar non potranno della laidezza e della beltà?

Imog. Da che procede la vostra meraviglia?

Jach. Non può essere difetto degli occhi; imperocchè v’hanno animali2 meno intelligenti dell’uomo, che, posti fra due donzelle, saprebbero eleggere l’una e respinger l’altra; colpa non è del giudizio, chè lo stolto anch’esso si appone allorchè è quistione di beltà; nè il fallo pure vuolsi attribuire alla passione, avvegnachè la deformità posta a lato della leggiadria, lungi dall’aguzzarne il desiderio, lo soffoca e abbevera di nausea il cuore.

Imog. A cui favella egli?

Jach. Nota dunque se ne dia allo sfrenato appetito, che il godimento arrota, anzichè spuntare; sorgente inesauribile di desiderii che si conseguono senza interruzione e inducono brutalmente a straziare la tenera colomba, poscia ad ire in traccia di voluttà nei ricetti della libidine.

Imog. Onde viene, signore, il vostro stupore? sareste infermo?

Jach. Vi ringrazio, signora; no. (a Pisanio) Vi prego, mio caro, di dire al mio domestico che mi aspetti nel luogo in cui l’ho lasciato: egli è forestiero e di spiriti troppo acri.

Pis. Voleva uscire per fargli onoranza.               (esce)

Imog. Il mio sposo gode adunque buona salute? di grazia, dite...

Jach. Eccellente, signora.

Imog. Ed è facile alla lietezza? voglio sperarlo.

Jach. Lieto, eccessivamente lieto. Roma non accoglie nel suo grembo un più gioviale straniero: tutti lo chiamano l’allegro Britanno.

Imog. Allorchè era qui mostravasi inchinato alla malinconia, sovente ancora senza che ne avesse motivo.

Jach. Io non l’ho mai veduto pensoso: era in nostra compagnia un gentiluomo francese, chiaro di nome3, e che amantissimo sembrava di una giovine di sua nazione, al quale il nostro vispo britanno faceva trarre spesse volte profondi sospiri; e ridendo gridava: misera cecità aver fede nelle femmine!

Imog. Possibile che lo sposo mio tenesse simile linguaggio?

Jach. Questo faceva, signora, e ridendo fino alle lagrime. Vago spettacolo era il vederlo beffare quel buon francese. Ma il Cielo sa esservi uomini che ben molti rimproveri potrebbero fare a se stessi.

Imog. Egli però non sarà del numero, spero.

Jach. Egli? no: nullameno accoglier dovrebbe riconoscente le grazie del Cielo; chè il Cielo molte ne ha prodigate sì a lui, come a voi, che io riguardo qual primo suo bene; e da un canto son mosso ad ammirazione, dall’altro a pietà.

Imog. E quale oggetto, signore, eccita la vostra pietà?

Jach. Due creature che io commisero nell’intimo del cuore.

Imog. Sono io forse fra quelle? I vostri sguardi si fissano sopra di me: qual mai grande sventura mi sovrasta che tanto v’intenerisca?

Jach. Oh deplorabile acciecamento! come chiuder si ponno gli occhi a sì bel lume per cercare la voluttà in seno alla colpa, fra gli orrori del libertinaggio?

Imog. Di grazia, signore, date più aperta risposta alle mie parole: perchè mi compiangete?

Jach. Perchè altre femmine, già quasi lo dissi, si sollazzano col vostro... Ma agli Dei s’aspetta il farne vendetta, non a me ora il favellarne.

Imog. Voi mi sembrate in cognizione di cosa che davvicino mi concerne; ve ne scongiuro, parlate: il dubbio d’una sventura riesce talvolta più fatale della certezza medesima; perocchè, o la sventura è al di sopra di ogni rimedio, o in tempo conosciuta può dar luogo a qualche riparo. Scopritemi il segreto che sta per isfuggirvi e che a forza rattenete.

Jach. Se posseduto avessi queste guancie di rosa per stamparvi i miei baci; questa mano il cui solo tocco obbligar dovrebbe un uomo a giuramenti di perpetua fedeltà; se posseduto avessi quest’oggetto de’ miei pensieri, di cui gli occhi miei sono inebbriati, e, uomo di fango, fossi andato a contaminare la mia bocca su labbra premute più dei gradini che adducono al Campidoglio; a stringer colla mia mano mani aggrinzite dal lavoro e più dai moltiplica spergiuri; e ad attingere l’onda della felicità da occhi abbietti e foschi come la fiamma di quelle faci che con impure sostanze vengono alimentate; non sarebbe stato giusto che tutte le furie d’inferno si fossero unite per punirmi di tanto e sì indegno tradimento?

Imog. Lo sposo mio, pur troppo lo temo, ha dimenticato la Brettagna.

Jach. E se stesso, aggiungete. Non è già il voler mio che mi induce ad illuminarvi, rivelandovi la bassezza del suo mutamento: sono i vostri vezzi, le grazie di cui risplendete che mi sforzano, mio malgrado, ad annunziarvi questa dolorosa novella.

Imog. Ch’io non l’abbia ad udire mai più.

Jach. Oh donna adorata! la vostra sorte mi commuove fino alle lagrime. Principessa sì bella, erede del maggior trono della terra, posta così a fascio colle più vili creature del vostro sesso, che per danari si prostituiscono, con tutti quei mali di cui la corruzione ed il vizio ammorbano la natura; pesti contagiose, superiori ad ogni altro veleno! Oh! se figlia siete d’una regina, se degenerar non volete dalla illustre vostra schiatta, vendicatevi, vendicatevi.

Imog. Vendicarmi! e come vendicarmi, se il vostro racconto è vero? Ah! un cuore ho in seno, il quale temer deve che facilmente l’orecchio non lo inganni: se il vostro racconto è vero, come vendicarmi?

Jach. Oh! dovrete voi vivere come una Vestale, languendo le notti in fredda solitudine, mentre egli, con vostro dispregio, si tuffa insino agli occhi nel lezzo delle voluttà? Vendicatevi: a voi mi consacro, al vostro tenero amore; e amante più nobile vi sarò del vile che vi ha disertata.

Imog. Che ascolto! — Olà, Pisanio!

Jach. Concedetemi di suggellare sulle vostre labbra la mia tenerezza col più dolce de’ baci.

Imog. Lungi da me!... colpevole sono già troppo di averti ascoltato sì a lungo. Se in te fosse onore, m’avresti fatto questo racconto per amore della virtù, non pel fine che ti proponi... Tanta impudenza mi riempie di stupore! Tu dunque oltraggi un prode cavaliere, così dissimile dal calunnioso ritratto che ne facesti, quanto tu il sei dall’onore; e ciò per sedurre una donna che ti disprezza e ti abborre?... Olà, Pisanio!.. Il re mio padre sarà istrutto della tua audacia; e vedrassi s’ei troverà conveniente che uno svergognato straniero traffichi di donne nella di lui corte come in un bordello di Roma, e discopra ai nostri occhi tutte le sue laidure. Ahi! la corte di mio padre è disprezzata, oltraggiata sua figlia... Olà, Pisanio!...

Jach. O felice Leonato, chè tale ora posso ben dirti, la fiducia che questa principessa ha in te merita la tua; e la tua egregia virtù deve a buon diritto ispirare sì grande sicurezza! Siate lungamente felice, donna del più illustre cavaliere di cui giammai si gloriasse la terra, degna di accendere in un bel cuore la più nobile fiamma! Perdonatemi quel linguaggio, di cui feci uso tanto per mettere a prova la costanza del vostro amore, e vedere se le radici ne erano veramente profonde. Ah! la novella di questo attentato lo renderà, come già è, doppiamente felice e fedele; che il più fedele egli è di tutti gli amanti.

Imog. Così fate ammenda?

Jach. Sì; ei pare un Dio disceso fra gli uomini; un’aureola di onore tutto lo circonda e avviva il suo volto di una luce immortale. Non vi dolga, augusta principessa, se ho ardito sperimentare in qual modo avreste accolto un falso racconto: esso non servì che a far maggiormente risplendere il peregrino vostro giudizio, e a confermarlo nella scelta che avete fatta d’uno sposo veramente egregio, e da voi conosciuto a prova anche del più piccolo fallo. Fu la mia amicizia per lui che m’indusse a cagionarvi quei vani timori; e m’avvidi che gli Dei vi avevano creata diversa da tutte le altre donne, esente da rimproveri e debolezze: degnatevi, ve ne scongiuro, di perdonarmi.

Imog. Tutto è riparato, signore: disponete ora del poter mio a questa corte.

Jach. Ve ne ringrazio umilmente. Ah! ma quasi aveva obbliato di fare a Vostra Altezza una preghiera che interessa lo sposo vostro, e alla quale ed io e varii altri amici abbiamo parte.

Imog. Parlate, vi ascolto.

Jach. Alcuni Romani e il consorte vostro, il cui solo nome riflette il più gran lustro su tutta la nostra brigata4, hanno depositata una somma di denaro destinata a comperare un dono da farsi all’imperatore: ed io, incumbenzato dagli amici, passai in Francia per farne l’acquisto. Ivi ho comperato una raccolta di vasi di raro disegno e di gioielli di forme nuove e superbe, di cui grandissimo è il valore. Straniero come sono, mi sarebbe caro che un sì gran tesoro venisse guardato in luogo sicuro: vorreste voi custodirlo?

Imog. Di buon grado lo farò; e pongo il mio onore per la sua sicurezza, dacchè il mio sposo v’è interessato: lo custodirò io stessa nella mia stanza.

Jach. Il tesoro è chiuso in un baule scortato dalle mie genti; e mi farò lecito inviarvelo per questa notte, giacchè dimani conviene che io parta.

Imog. Oh! non partite sì presto.

Jach. È necessario, permettete ch’io parta: o, procrastinando il mio ritorno, mancherei alla data parola. Non ho passato il mare di Francia che per adempiere alla mia promessa di presentare all’Altezza Vostra i miei omaggi.

Imog. Ne sieno grazie alla vostra bontà; ma dimani non partirete.

Jach. Conviene ch’io lo faccia, signora; per cui se mandar volete i vostri saluti allo sposo, vi prego a scrivere questa sera: ho già varcato il termine prefisso al mio soggiorno; e il tempo è venuto di presentare il nostro dono.

Imog. Scriverò stassera; e voi inviatemi ciò che diceste, che sarà con diligenza guardato, e restituito fedelmente. Senza cerimonie, qui siete il benvenuto.     (escono)






  1. As a sacrifice.
  2. Apes and monkeys, scimmie e bertuccie.
  3. An eminent Monsieur, così il testo.
  4. The best feather of our wing, la miglior penna della nostra ala.


Note

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