< Cimbelino
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William Shakespeare - Cimbelino (1611)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto quarto
Atto terzo Atto quinto

ATTO QUARTO




SCENA I.

Un bosco vicino alla caverna.

Entra Cloten.

Clot. Eccomi presso al luogo ove debbono incontrarsi, se pur Pisanio mi disse il vero. Quanto bene mi si attagliano questi vestiti! Ah! perchè non posseggo io anche l’amante del possessore di questi panni? Il gentil sesso mi scusi; ma gli amori della donna non sono che passeggieri, nè alcuno ve n’ha che non abbia qualche momento di tregua per lasciarsi sorprendere. Bisogna che così travestito io ne faccia la prova. — Oso dichiarare altamente (poichè non è vanità il lodarsi dinanzi allo specchio quando siamo soli nella nostra stanza), che il mio corpo non è men bello di quello di Postumo: inoltre io sono più giovine e più vigoroso di lui; lo vinco in ricchezze, in natali, in valore; e nullameno quell’insensata lo ama, ed ha me in dispregio. — Come sono deboli i fili che legano l’uomo alla vita! Postumo, la tua testa, che ora si leva superba sulle tue spalle, fra pochi istanti sarà polvere; l’amica tua soggetta alla mia forza; e i tuoi abiti, ch’ella osa preferirmi, fatti in minuzzoli sotto gli occhi di lei. Dopo questa triplice vendetta, la trascinerò avanti a suo padre: forse egli si sdegnerà meco pei mali trattamenti usati a sua figlia; ma mia madre, che governa il suo acre umore, saprà bentosto cambiare lo sdegno in lode. — Il mio cavallo è pronto: esci dunque dal fodero, mia spada, per compiere una sanguinosa impresa; e tu, Fortuna, guidami a loro... Sì; questi sono i luoghi che Pisanio mi ha descritto; nè quel miserabile poteva osar d’ingannarmi.     (esce)

SCENA II.

Dinanzi alla caverna.

Escono Belario, Guiderio, Arvirago e Imogène.

Bel. (a Imogène) Voi non istate bene: rimanetevi qui nella caverna; torneremo a voi dopo la caccia.

Arv. (a Imogène) Fratello, rimanti: non siamo noi fratelli?

Imog. L’uomo dovrebbe certo esser fratello all’uomo; ma nullameno l’argilla differisce in pregio da un’altra argilla, quantunque la polvere che ne risulta sia eguale. Mi sento assai infermo.

Guid. Voi andate pure alla caccia; io voglio rimanere con lui.

Imog. Sebbene mi senta male, il mio stato non è sì periglioso; nè io sono già di quegli uomini molli che credonsi morti prima che malati: perciò, vi prego, lasciatemi; andate ai vostri diporti. Interrompere le giornaliere bisogne è un turbare tutta l’economia della vita: la vostra presenza non mi guarirebbe: la società non ha dolcezze per lo sfortunato che non è più fatto per essa. Il mio male non è al colmo, poichè ne posso ancora favellare: vi prego, lasciatemi solo: nulla toglierò di qui, fuorchè me stesso; e voi poco arrischiate di perdere lasciandomi qui morire.

Guid. T’amo ti ho detto, e t’amo d’un amore eguale a quello che porto a mio padre.

Bel. Come? che dici?

Arv. Se la dichiarazione di mio fratello è un delitto, ne prendo sopra di me la metà. — Non so perchè io senta affetto per questo garzone; ma vi ho spesso udito dire che la ragione non ha nulla a far coll’amore. Se alla porta vi fosse una bara, e mi si chiedesse chi di Fedele o di voi morirà, griderei: non Fedele, non queste giovine!

Bel. (a parte) Oh nobile slancio! oh sublime natura, generata da un confuso sentimento della propria grandezza! Io non sono loro padre; ma essi mi credono tale: e chi sarà dunque questo sconosciuto, che per una specie di prodigio amano ancor più di me? — Giovani, le nove del mattino son suonate.

Arv. Fratello, addio.

Imog. Accettate i miei voti per la vostra caccia.

Arv. E voi i miei per la vostra salute. — Andiamo, signore.

Imog. (a parte) Benefiche creature, quanto il mondo vi calunnia! Sovente alla corte ho inteso dire che tutto fuori di là era barbarie; ma tu, o esperienza, ne sganni d’ogni illusione. Il superbo Oceano alimenta molti inutili mostri; ma l’umile e tranquillo fiumicello reca in tributo sulle nostre sabbie squisitissimi pesci. — Mi sento languire ognor più... vo’ provare il liquore di Pisanio.

Guid. (a suo fratello) Non ho voluto infestarlo; egli però mi disse aver sortito aurei natali, benchè venuto poscia in umile stato..... dissemi che era onesto, sebbene, per onore, perseguitato.

Arv. Lo stesso ha risposto a me; e soggiunse, che in seguito avrei potuto saperne di più.

Bel. Al campo, al campo! Vi lascieremo per poco: rientrato, e riposatevi.

Arv. Non tarderemo a ritornare.

Bel. Di grazia, rinfrancatevi in salute, perchè dovete diventare nostro economo.

Imog. Infermo o sano, vi sarò sempre affezionato.

Bel. Sii tale per sempre! (Imogène rientra nella caverna) Questo giovine, quantunque in misera condizione, sembra di nobile famiglia.

Arv. Come celeste è il suo canto!

Guid. Con quale mondezza ne imbandì la mensa! Da povere radici egli ha saputo spremer succhi che tornata avrebbero la salute ad una divinità inferma.

Arv. Quanta grazia allorchè mesceva un sorriso a’ suoi sospiri! pareva che il sospiro nascesse dal dolore di non essere il sorriso suo; e che questo irridesse a quello fuggente da sì dolce asilo per volare a confondersi cogli aquiloni che insultano a’ navigatori1.

Guid. Io notai che il dolore e la sofferenza, entrambi grandi in lui, parevano contendersi il possesso del suo cuore.

Arv. Sii vincitrice, sofferenza, e spegni il rio dolore!

Bel. Il giorno è già grande: su via! — Chi è colui? (entra Cloten)

Clot. Ch’io non possa rinvenire i fuggiaschi? lo scellerato mi avrebbe egli ingannato?... omai mi sento mancare.

Bel. Fuggiaschi? intenderebbe forse noi? quasi lo riconosco; sì, è Cloten, il figlio della regina. Temo qualche disastro: da molti anni non l’ho veduto; ma sono certo che è desso: forse fummo proscritti... allontaniamoci.

Guid. Egli è solo; voi andate insieme con mio fratello alle vedette, e cercate qui intorno se alcuno lo accompagna: di grazia, andate, e lasciatemi con lui. (Belarlo e Arvirago escono)

Clot. Fermatevi! chi siete voi che fuggite? certo vili montanari: ho udito parlare d’assassini della vostra fatta. — Chi sei tu, schiavo?

Guid. Non ho mai commesso atto più servile di quello di rispondere ad un insolente senza fargli conoscere la forza del mio braccio.

Clot. Tu se’ un ladro, un violatore delle leggi, uno scellerato!... arrenditi assassino!

Guid. A chi? a te? chi se’ tu? non ho io un braccio robusto come il tuo? non un cuore egualmente fiero? la tua voce, lo confesso, è più arrogante, nè io porto, come te, il pugnale sulla lingua; parla, chi sei, perchè io mi ti debba arrendere?

Clot. Vile forsennato! non mi riconosci al mio vestire?

Guid. No, malandrino! non conosco nè te, nè i tuoi panni, nè l’artefice che li ha lavorati, e di cui forse sei figlio! Egli ti ha fatto questi abiti, che formano tutta la tua gloria.

Clot. Insigne sciagurato! questi abiti non li ha fatti il mio sarto.

Guid. Va dunque a ringraziare colui che te li diede: sono omai stanco di contendere con un pazzo.

Clot. Ladro insolente, odi il mio nome, e trema!

Guid. Qual è il tuo nome?

Clot. Cloten, miserabile!

Guid. Cloten due volte miserabile! il tuo nome non mi fa tremare: se tu fossi un serpente, una vipera, qualche altro venefico rettile, sarei forse più pauroso.

Clot. Per colmarti di terrore e di confusione, sappi che io sono il figlio della regina!

Guid. Me ne duole; ma non sei degno della tua nascita.

Clot. Nè temi tu?

Guid. Io non temo che quelli che rispetto, i savii: degl’insensati rido, e non ho timore.

Clot. Muori dunque! Quando t’avrò ucciso colle mie mani, mi farò poi a inseguire que’ vili che sono fuggiti; e innalzerò a pubblico documento le vostre teste sulle mura della città di Lud. Arrenditi, rozzo montanaro!

(escono combattendo: rientrano Belario e Arvirago)

Bel. Alcuno non v’è in sua compagnia.

Arv. Nessuno? vi sarete certo ingannato.

Bel. Non so: da molti anni non l’ho veduto; ma il tempo non ha per nulla alterati i lineamenti che il suo volto mostrava a quei dì: l’orgogliosa sua voce, l’impeto delle sue parole, tutto mi fa sicuro che quegli era Cloten.

Arv. Qui fu che li abbiamo lasciati: desidero che male non ne venga a mio fratello, poichè voi dite ch’è tanto feroce...

Bel. Dico che, appena divenuto uomo, egli affrontava senza timore i più aperti pericoli; perocchè spesso la mancanza di senno è rimedio alla paura. Ma ecco tuo fratello.

(rientra Guiderio colla testa di Cloten)

Guid. Questo Cloten era un pazzo, un cranio vuoto, e privo di senno2; nè Ercole stesso avrebbe potuto fargli schizzar le cervella, perchè non ne aveva. Nullameno, se mi fossi meno adoperato, questo folle si avrebbe portata via la mia testa, come io la sua.

Bel. Che hai tu fatto?

Guid. Cosa di cui era bene istrutto: ho tagliato la testa a un Cloten che si diceva figlio della regina, che mi chiamava traditore e montanaro; e giurava che tutti ne avrebbe presi e decapitati, per innalzare le nostre teste (siano grazie agli Dei che esse ci stanno ancora sul busto) sulle mura della città di Lud.

Bel. Siamo perduti.

Guid. Perchè, buon padre? che possiam noi perdere, più di quello ch’egli giurava di toglierne, la vita? La legge non ci tutela; e perchè avremo noi dunque patito che un insolente volume di carne ci minacciasse d’essere in pari tempo nostro giudice e carnefice, e di compiere solo tutto quello che potremmo temere dalla legge? — Ma che avete scoperto nel bosco? vedeste molti armati?

Bel. Nessuno; ma è impossibile ch’ei sia venuto qui senza alcuna scorta. Sebbene egli non si piacesse che di stravaganze, la follia stessa più cieca non avrebbe potuto condurlo solo in questa foresta. Potrebb’essere che fosse corsa voce in corte, che gli uomini che abitano questa caverna e vivono di caccia, sono banditi da dare un giorno a temere: egli, a questo racconto, sarà entrato in furore, chè tale era il suo temperamento, e avrà giurato di sorprenderne: ma è impossibile che sia venuto solo, che abbia ardito tanto, e che la corte glie lo abbia permesso. Non è dunque fuor di ragione se paventiamo che la sua morte ne possa riescir più funesta, che non ne sarebbe stata la sua vita3.

Arv. Sia quello che agli Dei piacerà! ma ad ogni modo mio fratello ha bene operato.

Bel. Oggi non mi sentiva lena alcuna per la caccia: la malattia del giovinetto Fedele mi ha fatto sembrare eterna la via.

Guid. Colla sua spada medesima, ch’egli rotava intorno al mio capo, gli ho troncato la testa; e questa vo’ gettare in fondo al torrente che mugge dietro alle nostre roccie, onde possa esser travolta nel mare, e dire ai mostri di quello, che fu la testa di Cloten, figlio della regina: questa sarà la cura che di essa mi piglierò.      (esce)

Bel. Temo che la sua morte non sia vendicata. Oh Polidoro, non avessi tu fatta quest’opera, sebbene al tuo valore meravigliosamente si addica!

Arv. Io vorrei averla compiuta, quand’anche ne dovesse ricadere la vendetta sopra me solo! — Polidoro, io t’amo come lo deve un fratello; ma sono geloso di questa tua azione: tu l’hai rapita a me. Vorrei che ogni vendetta, di cui umana forza è capace, sopra di me ricadesse e mi mettesse alla prova!

Bel. Su, su! al fatto non è riparo. — Per oggi più non caccieremo, nè cercheremo pericoli che non promettono alcun bene. Ti prego, rientra nella caverna, e insieme con Fedele apprestaci la mensa; io starò aspettando il ritorno di Polidoro, e ti raggiungerò fra un istante.

Arv. Povero Fedele! l’abbiamo lasciato infermo! con quanta gioia lo rivedrò! Se per tornare alle sue guancie i loro vividi colori non altro fosse mestieri che immolare uomini come Cloten, vorrei seminarne la terra; e questa chiamerei opera pietosa.     (esce)

Bel. O divina e onnipossente natura, come il tuo suggello è scolpito su questi due figli di re! Il loro carattere è soave come uno zeffiro che spira sopra i fioriti prati senza punto piegare gli amabili calici dei fiori; ma se il regio loro sangue s’infiamma, impetuosi diventano come aquiloni del nord che investono l’eccelso pino sulla vetta della montagna, e quasi molle giunco lo curvano fino al fondo della vallea. È un prodigio, che un segreto istinto gl’informi tanto al reame, di cui nulla sanno; all’onore, di cui non ebbero nozione; alla civiltà, di cui non videro esempi; al valore, che in essi germoglia come un arbore selvaggio, e che ha già prodotto sì ricco frutto, come se l’arte lo avesse coltivato: nullameno questo incontro di Cloten, questa sua morte mi suonano pur male.      (rientra Guiderio)

Guid. Dov’è mio fratello? ho gettata nel torrente quella matta testa, perchè sen vada ambasciatrice alla madre di lui: essa le servirà di pegno fino alla ricupera dell’intero corpo.

(una musica grave e solenne)

Bel. Il mio instrumento? Odi, Polidoro, qual suono! ma che motivo ha adesso Cawdal per suonarlo? odi!

Guid. Sta egli nella grotta?

Bel. Vi è andato poco fa.

Guid. Che intende mai? Dopo la morte della mia cara genitrice, quell’istrumento si tacque... A suoni gravi e solenni, gravi e solenni avvenimenti si addicono. — Qual cagione adunque? una gioia senza motivo, o inutili lamenti, sono delirii da insensato, o querimonie da fanciullo: avrebbe mai impazzato Cawdal? (rientra Arvirago, portando Imogène come morta fra le sue braccia)

Bel. Eccolo: si avvicina portando fra le sue braccia il funesto oggetto di que’ suoni, per cui dianzi lo abbiamo biasimato.

Arv. Egli è morto l’usignuolo tanto a noi diletto: vorrei, passando d’un salto dai sedici ai sessant’anni, aver mutata l’alacre mia giovinezza nella gruccia del debole vecchiardo, e non avere assistito a questo spettacolo!

Guid. Oh il più dolce, il più bello de’ gigli! la metà più adesso non mostri delle grazie che possedevi quando in te albergava la vita!

Bel. Oh dolore! chi potrà mai arrivare sino al fondo de’ tuoi abissi? chi trovare in te la riva, dove alla stanca barca sia dato approdare? Innocente fanciullo! altro che Giove non sa qual uomo tu saresti potuto divenire; ma so ben io come il dolore possa uccidere anche il garzone più virtuoso. — In quale stato lo hai tu trovato?

Arv. Quale vedete: con questo sorriso sulle labbra, quasi avesse provato non già il crudo dardo della morte, ma la lieve puntura d’una farfalla, che, passando, sfiorata gli avesse con un’ala le guancie mentre dormiva: la destra sua gota riposava sopra un guanciale.

Guid. Dove?

Arv. Per terra, e colle braccia così incrociate. Dapprima credetti dormisse; ond’è che mi tolsi la grave calzatura, che risvegliava gli echi della caverna.

Guid. Infatti la sua morte non è che un sonno; e la sua tomba non sarà che un letto di riposo per lui; le Fate intenerite verranno spesse a visitarla; e i rettili schifosi non oseranno mai avvicinarglisi.

Arv. Sì, coi fiori più belli, finchè durerà la state, finchè io avrò vita, verrò, o Fedele, a coronare la trista tua tomba: nè avrai mai difetto de’ gigli di primavera, simboli del niveo candore che splende sul tuo viso; nè mai ti mancheranno i cari giacinti, azzurri come le tue vene, o le foglie dell’alpestro rovo, il cui profumo è men soave che non era il tuo alito: e in mia mancanza il compassionevole augelletto4, la cui pietà è di rimprovero a que’ ricchi eredi che affidano alla terra l’ossa dei padri loro senza alcun onore di tomba, verrebbe a intrecciarti quei fiori; e nella stagione in cui la terra più non li produce, coll’amoroso suo becco intesserebbe di piume la tua veste invernale.

Guid. Cessa, fratello, cessa, te ne prego; non usar di più un sì effeminato linguaggio, quando tanto grave n’è il soggetto: inumiamo Fedele; non differiamo più a lungo a sciogliere un debito così sacro, portiamolo al suo sepolcro.

Arv. Di’, dove lo deporremo?

Guid. Accanto alla nostra buona madre Eurifila.

Arv. Sì, così facciamo, Polidoro; e noi, sebbene la giovinezza abbia dato alle afflitte nostre voci un più maschio accento, noi canteremo, conducendolo alla tomba, come cantavamo quel dì che vi conducevamo nostra madre. Ripetiamo quei malinconici suoni; ripetiamo quelle parole; nè altro facciamo, che cangiare il nome d’Eurifila in quello di Fedele.

Guid. Cawdal, io non posso cantare: piangerò soltanto, ripetendo con te quegli accenti; perocchè canti di dolore non bene tra loro accordati, tanto aspri sarebbero, come nei nostri templi le voci dei fedifraghi e degl’ipocriti.

Arv. Ebbene, non faremo che recitarli.

Bel. I grandi dolori, lo veggo, discacciano i piccoli: ecco ora Cloten interamente dimenticato. Ricordatevi, figli miei, che quegli era figlio d’una regina; e che se qui è venuto come nemico, crudelmente ne fu castigato. Sebbene il misero e il potente muoiano del pari, e si convertano nella medesima polvere; pure un certo rispetto, una certa subordinazione, angeli tutelari del mondo, pongono una distinzione fra i grandi e il popolo. Il nostro nemico fu un principe: se come nemico gli avete tolta la vita, ora dovete seppellirlo come s’addice al suo grado.

Guid. Andate, ve ne prego, in traccia del suo corpo: il cadavere di Tersite non è inferiore a quello d’Ajace, quando ambidue hanno cessato di vivere.

Arv. Se volete andarne in cerca, noi intanto reciteremo la nostra canzone. (Belario esce) Fratello, incomincia.

Guid. No, Cawdal; prima conviene che lo deponiamo su quel monticello di fiori, colla testa rivolta verso oriente; mio padre me lo ha comandato.

Arv. È vero.

Guid. Vieni dunque e sorreggilo.

Arv. Così... ora incomincia.

Canzone.

Guid. «Non temer più la sferza del sole; non le bufére del rigido verno! tu hai compito il vitale tuo corso! in porto ora sei giunto, in un beatissimo asilo! Così il figlio della montagna, annerito dal fumo del suo focolare, come il molle garzone e l’avvenente fanciulla riduconsi in polvere!».

Arv. «Non temer più lo sdegno de’ potenti! sottratto sei ad ogni artiglio di tiranno; nè la fame, nè i panni, più ti daranno molestia! La umile canna sia per te uguale all’altissima quercia! e lo scettro, e le scienze, e le arti, tutto deve al pari di te annichilirsi!».

Guid. «Non temer più i fulmini del Cielo».

Arv. «Non gli uragani sovvertitori dei campi».

Guid. «Non temer più la scellerata calunnia».

Arv. «E gioia e lagrime sono finite per te».

A due. «Tutti i giovani amanti, sì, tutti gli amanti subiranno l’istessa sorte, e torneranno al pari di te alla terra».

Guid. «Nessuno esorcizzatore venga a turbar le tue ceneri!».

Arv. «Nessun malefizio discenda sopra il tuo feretro».

Guid. «Gli spiriti adirati paventino innanzi a te».

Arv. «Nulla di funesto mai ti si appressi».

A due. «Gusta la pace d’un profondo sonno, e il tuo sepolcro sia celebre in tutte le età!».

(Rientra Belario col corpo di Cloten)

Guid. Le nostre esequie sono finite: venite, e posatelo qui.

Bel. Ecco alcuni fiori; alla mezzanotte ne recheremo molti più; ai sepolcri convengono meglio le erbette bagnate dalla notturna rugiada. — Spargete intanto questi fiori sopra il volto di lui. — Giovine e fresco tu eri come questi fiori: adesso sei al pari di essi appassito! Venite, ritiriamoci; andiamo a inginocchiarci, e a pregare il Cielo: la terra che li produsse se li è ripresi; e i loro piaceri e le loro pene sono adesso cessati.

(Belario, Guiderio e Arvirago escono)

Imog. (svegliandosi) Sì,... mio amico... al porto di Milford... quale ne è la via?.... te ne so grado... da quel boschetto?.... e di là, prego, a quale distanza?... Bontà celeste!.... ancora sei miglia?..... tutta notte ho corso..... affè che vo’ adagiarmi e dormire. — Ma taci! qual compagno ho di letto?... oh Dei! oh spiriti celesti!... (vedendo il cadavere di Cloten) questi fiori sono come i piaceri del mondo; e questo sanguinoso corpo è l’emblema dell’umana felicità... Ma spero di sognare ancora... sì, dianzi io sognava; e pareami d’esser massaia di tre buone creature entro una caverna... ma non è nulla; non fu che un’ombra fugace, una vana immagine formata dai vapori del cervello. I nostri occhi talvolta sono ciechi come il nostro giudizio! tuttavia tremo ancora... Ah se in Cielo non è affatto spenta la pietà, possenti Numi, vi prenda compassione di me!... Il sogno ancora mi opprime... anche risvegliata, l’illusione di esso continua... Ma ora sento... un uomo decapitato!.., ah!.. le vestimenta di Postumo?.. sì, le riconosco... sì, le sue membra sono queste... la sua mano, il suo piede... Ma dov’è il ridente suo volto?... un omicidio? un omicidio?... Oh! come?... Tutto è finito... Pisanio, tutto le maledizioni onde Ecuba imprecava ai Greci, e le mie con esse, ricaggiano sopra di te! tu fosti, tu, che insieme all’infernal mostro Cloten hai qui strozzato il mio sposo!... Maledizione! maledizione sopra di te, Pisanio, che la cima hai troncato d’albero sì maestoso!... Oh Postumo! oimè! dov’è il tuo capo? dove? ah! non poteva Pisanio ferirti il cuore senza mutilarti così orrendamente?... ma come il potè egli?.. Pisanio?.. oh scellerato!.. insieme con Cloten egli ha compiuto il delitto... Perfidia e cupidità di guadagno li mossero all’orrenda opera... — Oh! è manifesto, è palese!... E questo liquore, ch’ei mi ha dato come salutare, non l’ho io sperimentato micidiale a’ miei sensi? Ciò conferma i sospetti, e mi convince della reità di Cloten e di Pisanio!... Ah! lascia, lascia ch’io butti nel tuo sangue il mio pallido volto, affinchè quelli che qui ne potessero sorprendere, orridi e deformi ci trovino... Oh mio sposo... mio sposo! (entrano Lucio, un Capitano ed altri ufficiali; un Augure li accompagna)

Cap. Le legioni che erano nelle Gallie hanno, secondo il vostro ordine, valicato il mare; e vi aspettano a Milford, parate a battaglia.

Luc. E quali novelle avete di Roma?

Cap. Il Senato ha affidate le armi alla nobiltà d’Italia e delle frontiere, coraggiosi volontarii che presteranno il più generoso servizio: l’ardito Jachimo li guida, il fratello di Sienna.

Luc. E quando giungeranno?

Cap. Tosto che i venti lo permettano.

Luc. Questo ardore n’è presago di liete venture. Ordinate la mostra delle squadre che qui abbiamo, e commettete agli ufficiali di sorvegliarle. — Ebbene, Augure, i vostri sogni che dicono intorno a questa guerra?

Aug. La scorsa notte gli Dei mi mandarono una visione; chè io aveva digiunato e pregato perchè appunto me ne fossero benigni. Vidi in essa l’augello di Giove, l’aquila romana, volante dal tempestoso Mezzodì a questa antica terra d’Occidente, altissima levarsi, e togliersi al mio sguardo, perdendosi entro un torrente di luce. Se le mie colpe non oscurano la mia prescienza, questo sogno annunzia la vittoria delle legioni di Roma.

Luc. Abbiatevi sovente di questi sogni nè siano essi mai ingannatori. — Fermatevi! oh! che informe busto è quello? le sue ruine attestano che l’edifizio era nobile e grande. Che veggo? e un paggio addormentato, o spento su quel cadavere! Ah! anch’esso sarà estinto, perchè la natura abbonisce dal dividere il letto della morte, e dall’assopirsi fra le sue braccia. — Vediamo il volto di quel giovinetto.

Cap. Egli vive, signore.

Luc. Ne dirà dunque la storia di questo cadavere. — Giovinetto, raccontane le tue vicende, che paiono degne di muovere la nostra curiosità. Che corpo è questo, di che ti fai sanguinoso origliere? qual mano ha sì turpemente contaminato questa bella e nobile opera della natura? qual parte hai tu in questa dolorosa catastrofe? Di’, che accadde? di chi fu questo corpo? e tu chi sei?

Imog. Io sono nulla... o, almeno, per me sarebbe meglio che fossi nulla... Questi era il mio signore, degno e generoso Brettone, ucciso qui da vili bifolchi... Oimè! per me non v’è un altro signore eguale a questo... Errar potrei dall’Oriente all’Occidente ma il simile nol troverei.

Luc. Infelice giovinetto, il tuo pianto mi commuove non meno della vista del tuo signore intriso nel suo sangue! Dimmi, amico, qual era il suo nome?

Imog. Riccardo dal Campo. (a parte) Se anche mento, non offendo nessuno, e spero che gli Dei mi perdoneranno. — Volete altro?

Luc. Il tuo nome?

Imog. Fedele.

Luc. Lo sei in effetto; e il tuo nome è conforme alla tua condotta. Vuoi venire tu a’ miei stipendii? Io non dico che abbi a trovare in me il tuo primo signore; ma pure avrai chi ti terrà molto caro. Lettere dell’imperatore, inviatemi da un console, non saprebbero raccomandarti meglio di quello che faccia il tuo merito: vieni con me.

Imog. Vi terrò dietro, uomo generoso; ma prima, se gli Dei lo permettono, toglierò il mio signore dall’insulto de’ rapaci augelli, e lo nasconderò sotterra, tanto addentro, quanto potranno provare queste mie deboli dita. Lasciate che io copra la sua tomba coll’erbe e colle foglie di quel bosco, e che proferisca sopra di lui mille preghiere, quali saprò dirle: lasciatemi gemere, piangere accanto a lui; e dopo questo congedo, se volete, vi seguirò.

Luc. Fa pure, bel giovinetto, io ti sarò più padre, che signore. — Amici, questo fanciullo c’insegna i doveri dell’uomo: cerchiamo qui la zolla più verde e fiorita, e apriamo colle nostre picche una fossa. Animo! levate quel corpo sulle vostre braccia. Giovine, tu lo raccomandi alle nostre cure; ed egli sarà sepolto con tutti gli onori di guerra; consolati adunque, asciuga il tuo pianto: cadute vi sono che ne innalzano, sventure che ci conducono alla felicità.     (escono)

SCENA III.

Una stanza nel palazzo di Cimbelino.

Entrano Cimbelino, Pisanio e Lordi.

Cimb. Andate or dunque, e tornate per istruirmi dello stato della regina. Una febbre violenta, suscitata dall’assenza di suo figlio; un delirio, che pone la sua vita in pericolo!... Cielo! quali inaudite sciagure tu versi in un sol punto sopra di me! Imogène, la diletta mia figlia, è fuggita; la regina si dibatte disperata sopra il suo letto: e tutto questo in quali momenti? quando una terrìbile guerra minaccia il mio trono! Anche il figlio di lei, che ora mi gioverebbe è scomparso... Tante sventure mi atterriscono, e mi tolgono ogni speranza... Ma tu, sciagurato, che devi essere istrutto dell’evasione di mia figlia, cui fingi ignorare, noi ti strapperemo il tuo segreto colle più crudeli torture.

Pis. La mia vita, signore, è nelle vostre mani, e a voi la sottopongo; ma della mia signora ignoro e il ricovero e il motivo della fuga, e il tempo in cui si proponga di ritornare. Abbiatemi, ve ne scongiuro, Maestà, in conto di fedele vostro suddito.

Lord. Mio buon sovrano, il giorno che ella se ne andò, quest’uomo era qui; e farei fede della sua onestà. Quanto a Cloten, nelle indagini che si praticano per lui non si risparmia cura alcuna; e senza dubbio si riescirà a trovarlo.

Cimb. In questi momenti (a Pisanio) d’impaccio e di torbidi desisterò dall’investigare; ma i miei sospetti intorno a te rimangono tuttavia.

Lord. Vostra Maestà mi permetta di dirle che le romane legioni, adunate nelle Gallie, hanno approdato sulle nostre spiaggie con un rinforzo di italiani spediti dal Senato.

Cimb. Come mi sarebbero ora necessarii i consigli di mio figlio e della regina! io soccombo sotto il peso di tanti disastri.

Lord. Signore, le vostre forze possono riparare a tutto: a nuovi nemici, nuovi soldati son pronti; e solo manca l’impulso da darsi ai generosi che ardono del desiderio di combattere per la loro indipendenza.

Cimb. Ve ne ringrazio: andiamo, e affrontiamo intrepidi la nostra sorte! non temo già le minaccie d’Italia; ma piango le mie domestiche disavventure: andiamo.     (esce col seguito)

Pis. Dacchè gli ho scritto che Imogène era stata uccisa, non ebbi più lettera dal mio signore: questo silenzio è un mistero; nè lo è meno il silenzio d’Imogène. Quanto a Cloten non so cosa sia avvenuto di lui. Tutto è qui confusione; e nullameno il Cielo ci governa: ma la mia perfidia è virtù; e la presente guerra mostrerà al re come io ami il mio paese, quand’anche l’amarlo mi dovesse costare la vita. Lasciamo poi al tempo la cura di rischiarare tutti gli altri dubbii; talvolta la fortuna scorge in porto un vascello anche privo di conduttore.     (esce)

SCENA IV.

Dinanzi alla caverna.

Entrano Belario, Guiderio e Arvirago.

Guid. Lo strepito dell’armi risuona intorno a noi.

Bel. Allontaniamoci.

Arv. Ma quali diletti, signore, troviamo noi nella vita, per sottrarla con tante precauzioni alle bizzarrie della sorte?

Guid. E d’altra parte qual’è, nascondendoci, la nostra speranza? Se a questo ci atteniamo, i Romani debbono o ucciderci come Britanni, o valersi di noi, come di vili e ingrati disertori, tutto il tempo che saremo loro utili, onde poi sgozzarne.

Bel. Figli miei, noi saliremo verso la cima delle montagne, e là saremo salvi. Seguir le parti del re, ne è impossibile: la morte troppo recente di Cloten, la novità delle nostre sembianze potrebbero destare sospetti. Verremmo interrogati intorno al luogo in cui siamo vissuti; ci si strapperebbe la confessione di quanto abbiamo commesso: e la conclusione di tutto ciò, sarebbe per noi una crudelissima morte.

Guid. In tali momenti questi sono timori indegni di voi, e che non bastano ad appagarci.

Arv. È egli probabile che i Britanni, assordati dal nitrito dei cavalli romani in procinto d’avventarsi a sanguinosissima pugna, vogliano gittare il tempo guardando a noi, e interrogandoci sul luogo onde siamo venuti?

Bel. Oh troppo io sono noto a molti ufficiali dell’esercito! Tanti anni trascorsi dacchè io non aveva veduto Cloten, allora affatto giovinetto, non poterono, lo scorgeste, cancellare dalla mia memoria i suoi lineamenti. D’altra parte il re non ha meritato che io lo servissi, nè che voi lo amaste: il mio esilio vi ha privati di educazione, vi ha condannati a questa vita di stenti, senza alcuna speranza di godere gli agi che i vostri natali vi promettevano, egualmente esposti al cocente ardore della state ed al crudo rigore degli aquiloni.

Guid. Meglio è cessar di vivere, che continuare così. Di grazia, signore, andiamo a raggiungere l’esercito: mio fratello ed io non vi siamo conosciuti; e voi adesso tanto lontano dal pensiero degli uomini, e così cangiato dall’età, è impossibile che vi siate osservato.

Arv. Per questo sole che ci illumina, io me ne vado! Quale vergogna non è per me il non aver mai veduto morire un uomo? Appena io ho visto scorrere il sangue de’ timidi rettili e dei lascivi capriuoli; nè son mai salito sopra un cavallo in guerra. Restando sì a lungo oscuro e inonorato, arrossisco di levar gli occhi a questo augusto sole, e di godere i benefìci suoi raggi.

Guid. Pel Cielo che io pure me ne andrò! Signore, se benedir volete alla mia partenza, rispondo del mio avvenire; ma se non vi consentite, faccia la romana spada cadere sul mio capo la pena dovuta alla mia contumacia!

Arv. Accetto il voto, ed io pure lo ripeto.

Bel. Poichè sì poco avete in cale i vostri giorni, io non ho ragione per serbare ad altri guai una vita che è già presso al suo termine; io dunque, giovani, vi accompagno. Se il vostro destino è di morire per la patria, tale sarà anche il mio; e già da gran tempo anelo a quel riposo. Guidatemi, andiamo; le ore mi paiono eterne. (a parte) Il loro sangue, bollente di sdegno, arde del desiderio di espandersi, e di attestare la regale sua origine.     (escono)



  1. Abbiam tradotto alla lettera.
  2. An empty purse, there was no money in't: una borsa vuota in cui non era uno scellino.
  3. If we do fear this body hath a tail, more perilous than the head: se temiamo che questo corpo abbia una coda più pericolosa della testa.
  4. Ruddock, pettirosso. Dicesi che queste uccello, quando trova il cadavere d’un uomo, gli copra almeno il volto, e talvolta anche l’intero corpo, di foglie di musco.     (Grey).


Note

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