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IL GERI
OVVERO
DELLA TESSITURA DELLE CANZONI
Jacopo Cicognini, Giuseppe Orzalesi, Gio. Francesco Geri.
Or. Siate ben ritrovato, carissimo Cicognini; noi, siccome uomini leali, tegniamo fede, e siamo qui a cenare con esso voi.
Cic. Nel tener fede voi serbate vostro costume; ma per la cena voi pagherete non picciolo scotto; tali ragionamenti siete per farmi.
Ger. Molli uomini averanno per buona derrata, dare parole e pigliare vivanda.
Cic. Quando le parole non sono parole, voglionsi comperare a peso d’oro, massimamente che la cena apprestata vi fu con fiorentina modestia; ma poichè il vino è gran parte dei conviti, io m’affido di ricevervi a cena non vergognosa. Averemo un vermiglio di Chianti, ed averemo vernaccia di s. Gemignano, la quale hammi mandata in dono l’ammirabile nostro Bronzino.
Or. Se per noi si dovesse, come in Firenze usasi, improvvisare, la eccellenza di quei vini sarebbe opportuna; ma dovendosi di cose minute tenere ragionamento, non so come andrà la bisogna.
Cic. Ella andrà bene, se ben noi mesceremo. Ora udite me, o amicissimi: noi abbiamo di vivo giorno pressochè un’ora, ed in cima la torre il sole ci dà noia; a me pare, che ci acconciamo in questo terrazzino di donde egli si è dipartito, ed ove il vento marino tuttavia ferisce. Qui formeremo le nostre dispute, ed usciti di scuola comanderò che si forniscano le tavole: cosi pare a me, se a voi è a grado.
Or. Non può meglio disporsi questa giornata: sediamoci.
Cic. Ecco le scranne.
Or. O Geri, a voi tocca il favellare; noi vi diamo le nostre orecchie per un’ora.
Ger. Fiami a bastanza minore spazio? Io, Cicognino carissimo, sono dal nostro Orzalesi a pieno fatto chiaro de’ vostri desiderj, e però, senza che più v’annoiate a parlarmi, io posso dirvene quanto già intesi, e soddisfarovvi. E cominciando di qui io affermo, che nella volgar lingua è usanza di comporre yersi dalle quattro sillabe fino alle dodici, per modo che si verseggia in varie maniere, purchè sia l’accennato aguto su varie sillabe; e delle arti di costruire sì fatti versi io non favellerò, perchè non è ciò di nostro proponimento. Ha dunque la volgar lingua tante varietà di versi, ed halla avuta per lunghissimo tempo a dietro; i quali versi fien questi:
E l’amanza.
Non par mià grato.
Minore mi tiene.
Chiare fresche dolci acque.
Dolci per la memoria.
Che sia in quella città.'
Quando miro la Riviera.
Io non l’ho, parche non l’ho.
E chi non piange, ahi duro core.
Chi vuol bevera, chi vuol bevere.
Nel mezzo dal camin di nostra vita.
Con esso un colpo per la man d’Artù.
Fra l’isola di Cipri, e di Majolica.
Questi versi, secondo che variano gli accenti aguti su le loro sillabe, variano la loro maniera. Perciocchè se l’accento aguto siede sopra le sillabe pari, quei versi hanno ragione di versi giambici, parlando con voce latina; non che veramente sieno giambici, cioè composti di tutti piedi giambici, ciò intendere sarebbe non intendermi; ma perchè se essi se ne componessero interamente, le sillabe pari averebbono adosso l’accento aguto; e se altri volesse pigliar fatica, pur formerebbe un verso tutto di piedi giambi, sì come formollo Dante; ed è l’ultimo della sua Commedia:
L’Amor, che mova il cielo, e l’altre stelle:
Quando poi su le sillabe dispari fermasi l’accento aguto, allora riescono i versi a ragione di versi trocaici, pure favellando con voce latina: non ch’essi sieno composti tutti di piedi tronchei; ma se fossero, averebbono l’accento aguto adosso alla sillabe dispari. Con questa ragione poi si fanno o più lunghi o più brevi, secondo che al poeta è più a grado; e di ciò non ragionerò più. Ho ben da ragionare intorno alla ragione che può movere altrui ad adoperarli poetando; e ben può addivenire che sieno versi della lingua, ma sieno tali alcuni di loro che la lingua, per farsene bella, debba rifiutarli. E però io dico così: primieramente essendo versi della lingua pare dicevole che essi si accettino e non rifiutinsi, perciocchè indarno sarebbero versi se non si adoperassero. Di più se la Spagnuola e la Francese, lingue nobilissime, sono ricche per varietà di versi, non pare buon consiglio che la Toscana stia con due qualità di versi solamente; perciocchè i gran poeti suoi non altro hanno usato fin a qui, salvo versi di sette e di undici sillabe. Par sì che i Greci per lo spazio di seicento anni stettero col verso esametro solamente, ma Archiloco, facendo udirne di novelli, trasse i popoli a scriverne con infinita varietà; e similmente veggiamo che i Latini vollero far così, de’ quali seguitar le vestigia non può essere con molto pericolo. Deesi ancora pensare, se è ben fatto che per le materie di dolcezza e di tenerezza sia verso minore di quelli, i quali adoperansi nelle materie sublimi, e certamente non dee parere salvo ben fatto. E ne lo persuade l’esempio de’ greci e de’ latini poeti, i quali nei componimenti da loro appellati lirici, non s’impacciano molto col verso loro esametro, ma lascianlo da parte per ornarne gli eroi, e similmente fanno i Francesi oggidì, nè ci si faccia all’incontra l’autorità grandissima di Petrarca e di Dante, che in questo modo puossi rispondere: Costoro hanno amando sofferite passioni, ed altissima gentilezza di cose, e sì fatte hannole espresse nei loro versi, e però doveano trovar versi che a quella sublimità andassero a paro a paro, ma se alcuno vorrà trattare i suoi concetti più distesamente, commetterebbe egli errore a non ritrovar un verseggiare più dimesso? Io ardirei affermare che egli il commetterebbe. E pogniamo sì fatto caso: sia un giovinetto, ovvero una donzella innamorata, nel cui petto sia passione, e la non si regga con franca ragione, nè con specolazioni da scola de’ filosofi. Che cantasserò eglino? certamente tutto quello che sentiranno dentro dal core, e tutto ciò non fia altro che affetto lieto o dolente, di cui gli uomini amando sono naturalmente ripieni. Io per me stimo, che di cento i novanta lasceranno a dietro ciò che Socrate divinamente insegnò a Fedro, e tutto ciò che Platone fa discorrere con tanta altezza nel dialogo del suo convito. Oh mi direte, Dante e Petrarca non vollero adornare le loro rime, ed io risponda, essi fecero ottimamente, ed erano tali che seppero farlo, ma l’amante che di tanto sapere non sarà fornito , sfogherassi con sporre semplicemente i suoi dolori e i suoi piaceri, ed allora perchè dee por mano a versi alti ed altieramente sonanti? Pigliasi di grazia alcune canzoni d’Orazio tessute con versi dimessi, e dopo averli considerati, riprendeteli se vi basta l’animo, perchè non siano composti di versi esametri: certamente nè voi, nè niuno reprenderalle per ciò. Credo che per voi si leggano poesie francesi, ponetevi in memoria quei loro vezzi amorosi, quelle lusinghe, quelle tenerezze, le quali ogni donna ed ogni uomo può e sa esprimere, e ciascuno, quando sono espresse, le intende agevolmente; non pigliate voi solazzo in vedere così amorosamente rappresentati sì fatti scherzi, a quali intendere non fa mestiere nè commento, nè chiosa? D’altra parte cantate ad un drappello di vergini una canzone di Dante o di Petrarca, e poi chiedete da loro ciò che hanno ascoltato. Mi direte, è vero, quelle son poesie sopraumane, e vogliono uditori di sottilissimo ingegno, e di quii meritano ammirazione. Io non voglio contrastarvelo, ma infra la generazione umana trovansi degl’ingegni assottigliati ed anco de’ materiali, e ciascuno dee poter cantare, e però si vuole dar loro versi che abbiano buon riguardo alle materie che da loro sogliono e possono recitarsi. Io voglio dire un pensamento, ma già non lo dico per ferma sentenza, ma come mio puro pensamento. Io veggo versi negli antichi scrittori toscani, ed anco nei moderni, i quali non sono solamente per sè stessi i maggiori del nostro linguaggio, ma anco si accoppiano insieme fra loro, e se ne formano strofe di canzoni, in maniera che la tessitura dell’ottava rima non è più ribombante. E se così è, certo non e ragion d’arte che più degnamente si canti la danza d’una donna, che la battaglia di un eroe, e se questo mio pensamento fosse da non biasimarsi, il che nè spero, nè despero, si comprenderebbe poeti antichi in sul nascere della poesia toscana non avere a tutto le cose sottilmente pensato, onde rimarrebbe luogo a’ nostri secoli, ed a quelli che veniranno appresso, di molti così trovare e di non pochi emendare. Ho detto quanto so per provare che le varietà de’ versi sopra notati sieno anzi di giovamento alla poesia toscana che di danno, e che perciò deonsi non sbandire dal Parnaso, ma dar loro quivi cortese albergo.
Cic. Io non mai affermerò, che la copia dei versi faccia danno alla poesia, ma è ben da por mente se i versi sono acconci ad abbellirla, ovvero a deteriorarla, chè se ci sono per loro condizione sì vili che non possan ascoltarsi con gentilezza, per cerio deesi loro dar bando. sì come fassi agli uomini ammorbati, ed è vantaggio perderli. E veramente io sono offeso da molti versi di quelli da voi notati, per una speciale loro condizione, cioè che non hanno tanto suono che si facciano sentire per versi ma paiono una prosa.
Ger. Ben dite, ma sì fatta condizione non è di alcuni versi: anzi di tutti, nè di toscani solamente, ma di latini non meno. E ditemi per vostra fè, se diciamo parole di undici sillabe talmente accentate che ne riesca verso nei nostri ragionamenti, questo verso cosi prodotto non trapassa via come prosa? Certamente noi ciò veggiamo avvenire. Ma se di mano in mano tante parole con tante sillabe accentate a punto l’orecchia vostra sente pronunciarsi, ella conserva quei numeri, e li reputa versi; voglia dire pertanto, che avvegnachè alcuni versi vengano assai della prosa mentre sono uditi, ciascuno per sè, quando poi se ne ascolta uni quantità si fanno scorgere altro che prosa; e questo appare via maggiormente, quando essi si cantano: e cantarsi è quasi loro qualità naturale; perchè chi recita versi, o tanto o quanto non dà loro un’aria onde si discompagnano dal comune parlare? E perchè ho detto che il dispiacere da voi sentito in alcuni versi toscani di Petrarca, e poi chiedete da lor’ che || medesimamente da voi si sentirebbe in alcuni versi latini, mi tengo obbligato a darvi prova nel mio dire, e voglio disobbligarmi della promessa.
Dunque noi sappiamo, che essendo morta la lingua latina, ella non più naturalmente si parla, ma solamente per istudio, e che nel suono di sue parole, pronunziate da noi malamente, commettiamo errore; e spesso le brevi sillabe allunghiamo e le lunghe abbreviamo; e di qui siamo certi, che cantando i versi latini noi guastiamo la loro vera armonia e misura. Non posso pertanto darvi cortezza della mia credenza appieno, se non metto in mezzo un uomo romano, e facendolo risuscitare nol prego a dirvene la verità. Questi sarà non mica un idiota ma un dottrinato, nè vile ma in fra tutti chiarissimo, e chiamasi Marco Tullio Cicerone. Egli trattando con Bruto dell’Oratore sovrano, e tenendo ragionamento dei numeri della prosa, disse così a punto; nè prenderò guardia di recitare la scrittura latina, perciocchè quantunque senta alquanto del maestro di scuola il mescolare col volgare il latino, avrà non di meno maggiore peso ed autorità la testimonianza. Queste sono le parole: Sed in versibus res est apertior: quamquam etiam a modis quibusdatn cantu remoto soluta esse videatur orati: maximeque id in optimo quoque poetarum qui lyrici a Graecis nominantur, quos cum cantu expoliaveris nuda pene remanet Oratio: quorum similia sunt etiam apud nostros: velut illi in Thieste; quem nam te esse dicant? qui tarda in senectute; et quae sequuntur; quae nisi cum tibicen accessit, Orationi sunt solutae simillima.
Eccovi come i versi lirici, se non si cantano, si accostano al comune ragionare degli uomini; e di qui dee cessare la sentenza che voi fate contra alcuni de’ nostri per la loro poca armonia, perciocchè quando essi si canteranno farannosi sentire come versi manifestamente. Ora raccoglierò alquanto i miei detti: Se dunque la lingua toscana ha molta varietà di versi, ed averli è dignità sua, e se tra questi suoi versi non deono alcuni sbandirsi per poco suono che s’abbiano, non dee nè anco parer strano, nè riprendersi che, componendo canzoni, le strofe si forniscano di versi fra loro diversi; e però dovransi accompagnare più lunghi e più corti, ammezzati e soprabbondanti, e d’ogni loro maniera accozzarsene insieme. L’esempio degli antichi ne dà consiglio: certamente Orazio non fece strofa maggiore che di quattro versi, eppure noi leggiamo in una sua strofe tre versi di varia generazione; e però se noi fabbricheremo strofa con maggiore moltitudine di versi, bene ci si dee consentire licenza di più variamente verseggiare; la qual licenza volle Pindaro che a lui si concedesse, il quale ampie faceva le strofe degli inni suoi. Io veggio che voi sorgerete, e moveretevi all’incontra; direte, per avventura: In questa lingua la diversità di versi così accozzata nè fia dolce cosa nè gentile; anzi quest’aecozzamento sembrerà una zuffa ed uno scompiglio, di che nulla è più contrario alta soavità della poesia, io proverommi di rispondere. Quando dassi licenza di fare qualunque cosa a chi che sia, dassigli con patto ch’egli la faccia che bene stia, e con ragione talmente ch’ella riesca cara e di grado delle persone. Sono nell’arte dell’architettura più ordini, come sapete; dassi possanza di mescolargli negli edifizj, ma se il maestro malamente gli mescolerà ei saranno a ragione biasimato, e l’arte per sè rimarrà col suo pregio.
I cantori hanno molte note, ma se il musico indegnamente porralle insieme, fia sua l’infamia e non del mestiere del canto. Similmente dee essere nella poesia toscana: sono molte sorte di versi, e possono variamente accompagnarsi, ma se viziosamente accompagninsi, colpa n’averà il poeta, e la poesia audrassene assoluta. E qui assai potrei discorrerne, ma basterammi l’aver detto fin qui.
C. Non posso per tutto ciò che detto m’avete bene acquetarmi. Sono alcune cose, le quali bene non possono fornirsi per colpa della loro naturalezza, ed allora chi si mette in prova non può schermirsi da biasimo; perciocchè volere quello che conseguir non si può è atto di vera follía. Se la lingua greca o la latina si adornavano di quella varietà di versi posti insieme sì fattamente io nol so, ma dollomi a credere perchè scrittori celebratissimi così fecero e per questa ragione io biasimo chiunque tessendo canzoni toscane le empie di varj versi, perciocchè per sua natura il linguaggio rifiuta sì fatta varietà; e mi conduce a credere questo rifiuto la ragione, che mi fa credere il contrario della greca lingua e della latina: voglio dire, ch’essendo io in forse se quelle lingue amassero la varietà de’ versi, e non potendo disciormi dal dubbio per mezzo del senso, perocchè le lingue sono spente, io me ne disciolgo colla ragione, e dico a me medesimo: Se mal fosse stato il così verseggiare, Pindaro astenuto se ne sarebbe, e sarebbesene astenuto Orazio, il che fatto non hanno, e ne vanno gloriosi; dunque quelle lingue amano quella varietà di versi. Ma nel volgare idioma avviene diversamente; i padri della poesia nostra a pochi versi si attennero, e sono ammirati; ora perchè cercare, come si dice in proverbio, miglior pane che di grano?
Ger. Che i padri della lingua nostra, ed i poeti antichi abbiano approvata la varietà dei versi, io ve ne ho fatto certo, e l’Orzatesi più ampiamente ve ne trattò ieri; se non l’usarono frequentemente, fu perchè bramavano un canto eccelso, ed il maggiore che nel volgare nostro potesse sentirsi; ed a compire il lor desiderio non era necessaria la moltitudine de’ versi, ma quelli bastavano onde sorgeva maggior suono; ed essi gli adoperarono. Se poi il loro giudizio in ciò fu perfetto, è da questionarsi fra loro i quali son degni di esaminare cose grandi perchè son forniti di grande intelletto; questa non è opra da polire con la mia lima; ma comporre canzoni con varj versi in oggi veggo non schifarsi, e veggo i popoli porgere volentieri l’orecchio, il che non è picciolo argomento a persuadere che sia lodevole cosa. E certo è che i maestri di canto musicano di buon grado sì fatti componimenti; anzi il fanno con grande vaghezza, e confessano prontamente, che dalla varietà de’ versi si presta loro comodità di più allettar l’uditore con loro note: e non è vana prova della mia opinione, conciossiachè in ogn’arte sono da riverire i maestri. Che io non dica menzogne sia testimone tutta Italia, e specialmente Firenze e Roma. E voglio raccontarvi un esempio, e racconterollo veracemente. Venne per la solennità del Santissimo Giubileo il principe di Polonia ad adorare in Roma Urbano VIII, pontefice per autorità e per benignità massimo: raccolselo con quei modi i quali si dovevano a tanto personaggio, e finalmente , tenendol seco a desinare nel palagio del Vaticano, ora, acciocchè egli avesse quivi alcun particolare piacere, monsignor Ciampoli segretario del papa compose un poemetto da recitargli cantando. Il poemetto sponeva la vittoria la quale si ottenne sopra il Turco da questo giovane principe; vittoria nobile e nobilmente cantata: in questo poemetto erano alcune canzonette a guisa di cori nelle tragedie , ed erano composte di versi fra loro varj e lontani dall’usanza antica; ed appunto come alcuni di questi de’ quali noi questioniamo. Certa cosa è, che niuna parte maggiormente dilettò le orecchie che quei cori: sì giunsero cosa nova agli uditori, e sì furono stimati peregrini da ciascheduno. Nè fu solamente così giudicato dal pontefice e da’ cardinali, e da pochi monsignori che quivi ebbero licenza d’intervenirvi , ma mentre s’apprestava il canto e provavasi privatamente, egli fu dal fiore della corte sentito a bello agio ed oziosamente esaminato; e per la più gente quei cori si celebrarono non poco. E però se si dee in questo affare andare col popolo, la nostra opinione non è condannata; e se vogliamo il giudizio delle persone dottrinate, noi non disperiamo commendazione. Nè altra cosa fa danno a questa usanza moderna di verseggiare, più, la riverenza dovuta all’antichità non scema pregio, quei modi degli antichi siedono sulla cima, questi altri sono per dilettare chi meno sa, e se bene fosse in ogni studio attenersi alle cose fatte ed altro non procacciare, certamente le tante provincie dal Colombo scoperte sarebbero tuttavia sconosciute; nè il Galileo averebbe nel cielo scoperto quei lumi e movimenti ai trapassati secoli non manifesti. Io non voglio ritenermi di farvi una prova, ed uditemi volentieri. Il Petrarca, volendo parlare con loda degli occhi di Laura, disse una volta così:
Gentil mia donna, io veggio
Nel mover de’ vostri occhi un dolce lume,
Che mi mostra la via ch’al ciel conduce;
E per lungo costume
Dentro là dove sol con Amor seggio
Quasi visibilmente il cor traluce:
Questa è la vista ch’a ben far m’induce,
E che mi scorge al glorioso fine;
Questa sola dal mondo m’allontana.
Segue poi, filosofando, versi senza paragone c concetti amorosi partiti affatto dalla plebe, ciò è vero, ma qual giovane donna ne trarrà diletto, e compitamente intenderalli? È dunque da farsi che la nostra poesia volgare possa rappresentarsi ancora agl’ingegni comunali, che s’ascoltino dimessamente pensieri non alti nè altamente verseggiati:
Chi può mirarvi
E non lodarvi
Fonti del mio martiro,
Begli occhi chiari,
A me più cari,
Che gli occhi onde vi miro?
Parvi egli che donna niuna debba trovar malagevolezza ad intendere sì fatto canto? Gli egli è bassa cosa e vile a paragone di quello antico! È vero, nol vi niego, ma nel mondo sono tutti gli uomini di sublime intendimento? certamente non sono, e possiamo affermare per cosa vera, che la maniera del poetare la quale si chiama lirica, è tutta di amori e di conviti, e sua materia è ciò che ha forza di dare diletto a’ sentimenti, nè per ciò fare ella ha mestiere de’ maggior versi del mondo. Non niego pertanto che si lodino dal poeta lirico cavalieri ed alti personaggi, non per tutto questo sì fatta lode è da porsi fuori del confine del verseggiare liricamente con alquanto più di dignità, è vero, ma non già con l’alterezza del verseggiare eroicamente, siccome fanno i poeti epici. Facciavelo credere l’esempio di Pindaro e di Orazio allora che celebrano re ed uomini eccelsi, perocchè noi veggiamo che per loro si compongono in quelle canzoni versi altri che esametri. E poichè siamo sul ragionare dell’altezza delle canzoni intorno a’ versi degli antichi, io dirovvi che alcuna volta ho posto quasi in bilancia il verseggiare lirico e l’eroico e trovo l’ eroico perdere di sublimità. Udite:
Nel dolce tempo de la prima etade,
Che nascer vide, ed ancor quasi in erba,
La fera voglia, che per mio mal crebbe;
Perchè cantando il duol si disacerba,
Canterò come vissi in libertade,
Fin ch’Amor nel mio albergo a sdegno s’ebbe.
Poi seguirò sì come a lui n’increbbe
Troppo altamente, e che di ciò m’avvenne.
Sì è fatto il lirico amoroso. Udite l’eroico guerriero:
Così scendendo dal natío suo monte,
Non empie umile il Pò l’augusta sponda,
Ma sempre più quanto è più lungi al fonte,
Di nuove forze insuperbito abbonda:
Sopra i rotti con fin alza la fronte
Di Tauro, e vincitor d’intorno inonda,
E con più corna acque sospinge, e pare
Che guerra porti, e non tributo al mare.
Hovvi posto sotto gli orecchi gli uni e gli altri versi; date voi la sentenza.
Cic. Sempre meco medesimo ho contrastato di ciò; e se io dovessi far palese il mio interno sentimento, affermerei che il poema eroico appresso noi non ha l’ottimo suo stromento. Non dico che il verso di undici sillabe non sia il più grande della lingua, ma voglio dire che il rimarlo alla guisa che si rima nelle ottave non è forse da accettare per ottima usanza; ma è da più lungamente questo fatto. Avendo riguardo a’ Greci ed a’ Latini, si vorrebbe tessere la narrazione eroica, o senza rima o con esso lei, ma di sciolta e senza fermo ordine; tuttavia nel volgar nostro sono poemi tanto ammirabili che non lasciano luogo a contesa.
Orz. Si discorro per discernere la verità, e per innalzare alla cima della perfezione l’opera; e poco costa simigliante dottrina.
Ger. Rimane che io vi faccia due parole intorno alle canzoni con strofe ed antistrofe ed epodo. Che di questa guisa di componimenti si vegga segno appresso gli antichi Toscani, l’Orzalesi ieri, o Cicognino, ve ne fece ben certo; io vi dico ora, che non indarno i Greci ne furono vaghi, ed il gran sapere di quegli scrittori ci dee persuadere che con ragione in tal modo canzonassero; ed alcuni argomenti ne leggiamo appresso i chiosatori di Pindaro. Ma io ritorno alla sperienza. in Roma i maestri di musica ci hanno fatto sentire una strofe cantante con un’aria, e l’antistrofe pure con la medesima aria: ma quando l’uditore aspettava che di nuovo si ritornasse all’aria stessa la terza volta, egli si ritrovava ingannato, perciocchè udiva un’aria novella formata sopra l’epodo; ed allo inganno maravigliosamente si dilettava, ed a ragione, coociossiachè la varietà è quasi sempre compagna del diletto.
Cic. Non pertanto noi veggiamo che i Latini non usarono salvo la strofe, e l’antistrofe: ma dell’epodo essi non fecero conto.
Ger. È come voi dite: ma la Grecia parvi vile maestra?
Cic. Maestra onoratissima e sovrana; e non altra cosa parve agli uomini latini, i quali con armi vinsero i greci in battaglia, ma nelle scuole contra essi furono perditori.
Ger. Ho da fare una parola intorno a lasciare nella strofe versi senza rima. Che si siano lasciati dagli Antichi, ieri, o Cicognino, l’Orzalesi ve ne fece certo: io ora dovrei provarvi, che il ciò fare sia senza biasimo; ed averei non poche cose da dirvi, ma io voglio epitomare; e però affermo, che chiunque lascia nelle canzoni alcun verso senza rima dee molto bene por mente che ciò si faccia senza danno della richiesta soavità; del rimanente io stimo, ed ho per costante, che dall’obbligo delle rime sia il poeta costretto a dire delle cose a suo mal grado; onde alcuna volta erra, e gli errori suoi sono di più maniere; e mi ricordo, che Il Vecchietti, con esso lo Strozzi, nella villa di Fiesole ne trattarono pienamente, nè io voglio porvi la bocca. Da loro potrete un giorno ascoltare loro opinione intorno a ciò.
Orz. Forse alle voglie dell’ingegno omai sarassi soddisfallo: rimane che si pensi all’appetito del corpo. Il sole ci lascia; la torre e l’ombra ci chiama colassù a ricrearci; io lodo che si saglia.
Cic. Sagliamo. il vino già è nella neve.
Orz. Mi ricordo leggere un epigramma di Simonide nel quale si divieta dare agli amici a bere il vino caldo.
Cic. Io accetto Simonide per maestro, non meno di bere che di poetare.
Ger. Oggidì molti si accosteranno alla vostra opinione.