< Cinque dialoghi dell'arte poetica
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Il Vecchietti Il Geri

L'ORZALESI

ovvero

DELLA TESSITURA DELLE CANZONI




Jacopo Cicognini, e Giuseppe Orzalesi


C. Già è gran tempo, ch’io d'alcuni miei pensieri non posso a mio talento farmi ben chiaro per me medesimo; nè ho, cercando con la mente, saputo amico ritrovare, il quale più di voi fosse acconcio a prestarmi soccorso; ma temendo d'annoiarvi con le mie richieste, non mi è l'animo bastato per affrontarvi infino a qui. Ora, che per mia buona ventura io v'incontro in luogo non meno solitario che giocondo, mi consiglio di farvi preghiera, acciò mi vogliate alquanto medicare della mia ignoranza.

Or. Se io buon medico fossi per si fatto male guadagnerei di molto tesoro con gli uomini infermi; e via più gli uomini infermi ne guadagnerebbero con esso me; ma nè voi siete ignorante, nè io sono maestro per addottrinarvi: ben sono amico da sentire ogni vostra preghiera, e secondo le mie forze desideroso d’adempirla. Ma per più comodamente ragionare, e con minore rischio d'essere scorti, andiamocene colà lungo Arno, e su quella erbetta verde e minuta, sotto l’ombra negra di quei cipressi ci peseremo al sottile fischio dell’aurora; e per tal modo io, che me n'andava al Paradiso per godermi col Vidoni in sua villa, averò in un giorno doppio godimento, ora primieramente con voi, e poi questa sera con esso lui.

C. Veramente Arno è cotal fiume, che alle sue sponde ragionarsi di poesia è quasi necessario ragionamento, ricordandoci che nella sua città i maestri della Toscana poesia siano venuti al mondo. Ma voi, Orzalesi, siete col signor Strozzi stato in Roma molti mesi, e colà dovete pur assai nomini letterali avere conosciuti; ma due molto chiari specialmente, perciocché in Vaticano esser vi dovea conceduto ascoltarli a ciascuna ora, voglio dire monsignore Virginio Cesarini, e monsignore Giovanni Ciampoli.

Or. Con monsignor Ciampoli noi albergavamo, e l'altro ciascun giorno veniva a quelle stanze o per negozio, o per diportò. Ma perchè così mi dimandate voi delle loro persone?

C. Dirottovi, io sentiva per bocca di musici, ed anco per bocca d’altri, alcune maniere di versi, delle quali io soleva pigliar maraviglia. Ma da prima la maraviglia non mi metteva in alcun pensamento, perciocché il mondo fu sempre ripieno d'ingegni vaghi di strane fantasie; ma lo osservava, che le strane fantasie poco duravano, e quelle che poco deono durare, dalle persone valorose non si prezzano: ora i versi, di che io sono per favellarvi, ed anche le maniere di metterli insieme non sono, secondo che a me viene detto, disprezzali da quegli illustrissimi intelletti; e non potendo io persuadermi, che da loro si prezzino senza ragioni, vorrei, se da loro n’avete mai sentito far motto, che voi al presente meco alquanto ne ragionaste.

Or. Parmi impossibile cosa non potervene soddisfare: ben sapete, che non d'altro non si ricreavano quelle anime peregrine, salvo che di sì fatti discorsi, quando i gravi negozj loro consentivano ricrearsi. Ma quali versi, e quali loro modi vi turbano?

C. Mi turbo udendo, che fra il confine di dodici sillabe oggidì tutte le parole si hanno per verso; onde ne sorge una selva, che quasi diviene il verseggiare toscano uno improvviso e domestico favellare; e di più compongono canzoni di versi fra loro in maniera di versi, che alle mie orecchie mosti anzi anzi scompiglio che canto; e quale verso ha rima, e quale di rima senza; e uno ha rima su parola tronca, e altro su sdrucciolosa; ivi tal uno che fa sentire sua rima sul fine, e tal uno fatta sentire nel mezzo; chi la perde nella sua strofe e poi la ritrova nella non sua; che più? la lingua toscana, la quale suole naturalmente fornire tutte le parole in vocale, fassi per costoro cangiar costume, onde sentiamo le rime fornirsi in lettere consonanti alla maniera lombarda: somma io vado pensando, se l'armonia deggia tornare in confusione, e in vece di crescere la nostra poesia, ella si voglia estinguere. Certa cosa è, che i maestri antichi, di cui sì care risuonano tuttavia le rime, non tennero cotal modo, e nulla fecero di ciò onde questi moderni fra' trovatori; ma d’altra parie, se quei due gloriosi non se ne offendono, voglio andare lento in credere a me medesimo: e però pregovi a farmi piano il loro giudizio sopra ciò.

Or. Alcuna volta alcuni ho sentito discorrere intorno a questa materia; ma nè allora tutta io la intendea, ne ora saprei ridirlo: bene ho in mente, che non ereticano, nè aveano per vero, che il cosi comporre fosse comporre novello; anzi gli antichi avere questa via aperta da gire alle muse, tuttocchè essi per altro sentiero vi si fossero più volentieri condotti e di questo io posso trattarvi; ma che ciò fare sia o lodevole consiglio o biasimevole, non mi ricordo che essi affermassero o negassero.

C. Non mi sarà picciolo piacere udirvi sopra ciò; ma come domine? non è cosa nuova? Ove Dante ove Petrarca, ove niuno di quei secoli così rimò? Già non suole cotanto abbandonarmi la memoria; tuttavia quanto mi manifesterete dottrina a me più nascosta, tanto maggiormente rirnarrovvi obbligalo; ora dite per grazia.

Or. Noi abbiamo a ragionare di materie, le quali si vogliono disputare non con altro modo die con porre in mezzo l’esempio; e però nominate quelle maniere di componimenti, le quali a voi si mostrano non antiche, e io darovvi risposta di mano in mano, nè qui fa bisogno o lungo o leggiadro parlare: ma basta dire è così, o cosi non è: siate voi il primo, che io sarò il secondo.

C. Ecco una strofe picciola d’una canzone:

Ben egli agli occhi suoi ritolse il sonno,
     E sua quiete al core;
     Ma fornirsi i desir sempre non panno:
     Talvolta è di diamante
     L'era del gran Tonante.

Or. Che vi turba egli in questi versi?

C. Turbami, che il secondo verso non ha rima niuna compagna.

Or. E che dite sopra ciò?

C. Io dico, che lo reputo peccato.

Or. Che sia peccato, o non sia io nè affermo, nè niego: ma chieggo perchè pare vi sia peccato?

C. Per non dire altro, perchè gli antichi maestri, i quali hanno titolo di padri della nostra poesia, feciono altramente.

Or. Che essi facessero altramente io non voglo al presente contendo: e, perche se essi avessero fatto come questi moderni fanno, non avereste voi oggi di che questionare; ma hovvi da principio detto, ed ora vi ridico, che gli antichi hanno per modo di ragionare data licenza di cosi fare.

C. Di così fare? e come? e dove?

Or. Sapetemi voi dire di qual poeta sien questi versi?

O poverella mia come sei rozza!
     Credo, che tel conoschi:
     Rimanti in questi boschi.

C. Essi son senza dubbio del Petrarca.

Or. Dove vedete voi la lima compagna del primo verso?

C. Bene sta; ma quel verso è in un brandello di canzone: e non trovasi quella discompagnatura di versi di ciascuna strofe.

Or. Se ella vi si trovasse sarebbesi fatto appunto appunto come fece il poeta moderno; ma io hovvi dello, e dico, che coloro noi feciono, ma chetamente dissero, che poteva farsi.

C. Non l'avendo essi fatto, costringono noi a dire che malamente si fa.

Or. Non so, nè voglio questionare: sè è rea cosa il farlo, condannisi; ma già non si prova che lasciare verso senza rima sia fantasia moderna senza antica autorità; e vedesi, che non una volta sola epici famosi il fecero, ma il fecero mille volte: perciocché sempre che per loro dassi fine alla canzone, lasciasi un verso senza rima; non ne reco esernpj perché ve ne sono i libri ripieni, non pure di Dante e di Petrarca, ma di Cino e di Guido, come leggendo le rime Antiche potrà ciascuno chiarirsene; non è dunque novella usanza lasciare alcun verso senza rima.

C. Dirò, che il fare ciò una volta in una canzone, e farlo sempre in un luogo puossi dir legge di canzonare, e non doversene trarre esempio per così lare in altra parte.

Or. lo vi rispondo, e nego che ciò sia vero.

C. Oh, poco dianzi voi raffermaste.

Or. lo l'affermai perchè è vero per lo più, ma udite questa ballata di Cino:

Quanto più fisso miro
     Le bellezze, che fan piacer costei,
     Amor tanto per lei
     M'incende più di soverchio martiro;
     Parmi vedere in lei quando la guardo
     Tutt'or nova bellezza,
     Che porge agli occhi miei novo piacere.
     Allor mi giunge Amor con un suo dardo,
     E con tanta dolcezza
     Mi fere il cor ch’io non posso temere
     Che dal colpo non cali;
     E dico: oh occhi per vostro mirare
     Mi veggo tormentare
     Tanto, ch’io sento l'ultimo sospiro.

Vedete voi in questa ballata quel verso, che dal colpo non cali, senza rima? e non dassi commiato alla canzone. E similmente fece in un’altra ballata, la quale non recito per non annoiarvi, ma ella incomincia: Donna, il beato punto che m'accenne; nè più nè meno fece Guido in quella, di cui è il principio: Poichè di doglia cor convien che io parli. Ma io voglio provarvi il mio detto con reale autorità: il re Enzo duolsi de' suoi amori con una canzone, la quale comincia in questo modo:

S'io trovassi pietanza
     In carnata figura
     Mercè le chieggeria,
     Che a lo mio mulo desse alleggerimento;
     E ben furia accordatila
     Infra la mente pura,
     Che pregar mi varria
     Vedendo il mio umile aggichimento;
     E dico: ahi lasso, spero
     Di ritrovar mercede:
     Certo il mio cor non erede,
     Ch'io sono sventurato
     Più d'uomo innamorato;
     Solo per me pietà verrìa crudele.

Qui non vedete, che le parole spero, e crudele vanno sole e senza rima? E così trovasi nelle strofe seguenti: dirò di più, e recherò autorità maggiore. L’imperadore Federigo II compose canzone, la quale comincia Poiché ti piace Amore, in cui per ogni sua strofe lasciò un verso senza rimarsi.

C. Se costoro fossero si gran poeti, come furono gran personaggi, sarebbe da ubbidire alla loro volontà.

Or. Io v’intendo: ma io me ne vaglio per provarvi la usanza; e provasi per loro comesi proverebbe se fossero maggiori di sè stessi; non quistionando io se è bene il farsi, ma se fecesi. E perchè avete detto, che ciò fanno i grandi nell'accommiatar le canzoni, io il vi niego; non sempre le canzoni si accommiatano con verso senza rima. Vedo che il Petrarca non fece il canzoncino alla canzone: Mai non vo' più cantar come solea: e Dante non ne fece a quella: Morte poich'io non trovo a cui mi doglia; nè a quella: Amor, che ne la mente mi ragiona; nè ad alcune altre; e quando gli antichi fanno alle canzoni il carboncino, non sempre il fanno con lasciarvi per entro alcun verso senza lima, come si vede nel libro delle Rime Antiche in quella che comincia: Dacché ti piace Amore, ch’io ritorni: ed in quella: Nel tempo che si infiora e copre d'erba; ed in quella: Quando pur vedo che sen vola il Sole; eri in quella: Giovine donna dentro il cor mi siede. Ora, Cicognino mio caro, è vero che non si lascia sempre nel canzoncino alcun verso senza rima; e non è vero che sempre si faccia il canzoncino alle canzoni; ed è vero chc si toglie rima ai versi i quali non sono nel canzoncino; e però è verità ciò che vi dissi dell'usanza degli antichi scrittori, e le vostre risposte non abbattono il mio dire.

C. Non vi posso negare.

Or. Quali siano per essere i vostri dubbj io non so; ma le mie risposte saranno tutte cosi fatte: però seguite a vostro buon grado.

C. Udite di grazia:

Fronte d’avorio
     E ciglia d’ebano,
     Labbra di porpora,
     E rose tenere,
     Nel volto vidivi
     In fresca età:
     Fiamma risplendere,
     O occhi fulgidi,
     Nel guardo vidivi
     Si chiara ch'Espero
     Sparso di tenebre
     Nel Ciel sen va.


Or. Io aspetto, che voi darete accusa a questi versi: perciocché essi mancano assai di rima; ma io non gli difenderò per modo altro che il già sopra tenuto.

C. Io non dò loro colpa di questo solamente (ricordomi dell’esempio da voi portato), ma io mi maraviglio che volendosi porre in questa canzone alcuna rima, pongavisi non già nella strofe sua, ma fuori; e fassi, come far suole uomo di debile memoria, il quale dimenticandosi di alcuna cosa fornire a suo tempo, fuor di tempo compiela men male ch'ei può. E certo avendo io ascoltato il fiore di una strofe, intiera, qual ornamento per lei debbo io ascoltare mai più? Parvi il mio pensamento vano o pure qualche ragione chiudo in sè?

Or. Non mi mettete in ragionamento acciocché io ponga, se bene fassi o se male; che per tale sentenza dare non sono qui; ben vi dico che gli antichi poeti hanno si fattamente operato; ed ammiro come voi non ne serbiate memoria. Rammentatevi voi di alcuna canzone le cui strofe nel corpo loro non abbiano lima, e tutte poi siano rimate da capo a piedi? ve ne rammenterete incontanente che io ve ne abbia detto il nome; ciò sono le terzine.

C. Le terzine non hanno in una loro strofe un verso, il quale con una sola rima riguardi un verso dell’altra strofe, e tutti gli altri sieno dalla rima disciolti; anzi con un certo ordine tutti quanti rimansi.

Or. Ma pure è vero ch’essi rimansi fuori della strofe, e non per entro.

C. È vero.

Or. Ora io vi metto in mente, che Dante ne lascio sì fatto esempio, perciocché egli nella canzone: Amor tu vedi ben, che questa donna, lascia in una strofe queste parole luce, e temo senza rima; e poi nelle strofe seguenti l’accompagna con rime; e ciò fare non ebbe a schifo il Bembo, uomo molto poco vago d'uscire d'usanza degli antichi; ma pure egli nella canzone: Ben ho da maledir l'empio Signore, compone un verso, di cui la rima è unica, ed in quella strofe non ha compagnia; ma poi in ogui altra strofe della canzone si accompagna laute volte quanto dura il componimento.

C. Ponete mente di più nei versi recitati della canzonetta moderna, che l'intervallo delle rime è di sei versi, e sì fatto non é fra i versi delle sestine; anzi il primo della seconda strofe tocca l'ultimo della primiera; e non lascia, come nei moderni, l'orecchia per tanto tempo disconsolata.

Or. Ciò che si dice ora da voi è novello biasimo dato al novello compositore; perciocché noi biasimate che fuori della strofe accompagni la rima, ma pure perché troppo lungamente egli le lascia discompagnate: della qual colpa io debbo con l'autorità del Petrarca liberarlo. Udite i versi di lui, e poi udite le parole di me:

Amicissimo Cicognino, per vostra fé rispondetemi: nei versi recitati ha rima niuna? certo niuna, e nondimeno a numero sono sette: ora se io dirovvi che una strofe di canzoni compiesi con sette versi, e senza ninna rima, voi non mi potete, salvo sotto lo scudo del Petrarca, offendere.

C. Dite più oltre.

Or. Ascoltate.

E se pur s'arma talora a dolersi
     L'anima, a cui vieti manco
     Consiglio; ove il martir l'adduce in forse,
     Rappella lei da la sfrenata voglia
     Subito vista, che dal cor mi rade
     Ogni delira impresa: ed ogni sdegno
     Fa'l veder lei soave.

Questi sette altri versi non sono eglino privi di rima?

C. Chi può negarlovi?

Or. Or come fissi egli? non per virtù di due strofe?

C. Senza dubbio.

Or. Dunque fecero i maestri una strofe di canzone, e suoi versi non adornano di rima, e poi nella seguente strofe composero versi onde tutte si rimavano, avendo riguardo l'una all'altra.

C. Così fecero.

Or. Eccovi scusata la tessitura moderna, ed ecco che la rima accompagnarsi può oltre lo spazio di sei versi, vedendo noi, che le stanze recitare del Petrarca giungono a sette: che pensate voi?

C. Io penso che in parte fate i miei argomenti sparire; ma pure non mi persuadete, perciocché altro è il consiglio dell'antico, ed altro il consiglio del poeta moderno: quello tutti i suoi versi rimò, questi non tutti; e però l'antica tessitura può mostrarsi perfetta, e la moderna no; e quinci l’uno diremo lodevole, ed una biasimevole.

Or. Lodare e biasimare sia a vostro talento; ma le prove fatte non dovete a partito niuno negarmele.

C. Io non sono affatto ben chiaro; tuttavia non voglio dir più; le vostre ragioni non mi quietano, e non trovo la via d'abbatterlo, e però io posso innanzi. Voi ponete mente, per grazia, alla mescolanza de’versi ch'io reciterò:

Ben d'aspro Borea,
     Per nubi gelide
     Sento alcun verno,
     E pur d'Erigone
     Il can si fervido
     Qui prendo a scherno.

Qui voi potete sentire un molto vario verseggiare quanto alla terminazione, ed altra volta non meno:

Or tu da l'alte cime,
     In che siedi sublime,

     Rivolgi gli occhi in giù:
     E gradisci mie voci,
     Che volano veloci
     Serve di tua virtù:

Ed altra volta accozzò via più maniere di versi. Udite:

Che venni manco al mondo,
     Quando gli anni volgeano
     Tanto cantati amor:
     O lieto, o ben giocondo,
     E di ver'oro secolo,
     Ricchissimo senz’or.

Io veggo un verso fornirsi sdrucciolosamente, alcuno fermarsi come zoppo, ed alcuno formato con dritta ragione; ciò mi rappresenta una fratta in campagna, ove siano sterpi e pruni, e per entro alcun fiore. Ora così fintamente componeansi i canti agli anni passati? voi ridete, quasi che io favelli scherzando? ma io non ischerzo per verità.

Or. Io rido di me, che io delibo pigliare cose a difendere, alle quali mestiere non fa di difesa; e sono per ammaestrarvi di quello che voi sapete, come me, ma non badate; e l’usanza universale ve ne porta seco, come gli alberi una piena di fiume:

Questi sono versi del Petrarca, e vi si scorge per entro gloria e memoria, rime sdrucciolose, non punto fatte come le compagne. Giungo questi di Dante:

Di qui traggasi esempio a mantenere l'usanza novella per la parte delle rime sdrucciolose; per l’altra parte di quelle che paiono zoppe, manterrassi pure con questo esempio:

I' die’ in guardia a s. Pietro, or non più no:
    Intendami chi può, che m'intendo io:
    Grave soma, ed un mal fu a mantenerlo.

Qui discerniamo no erto', rime lontane dal modo della rima mantenerlo; ed in somma veggiamo dal Petrarca posto un’orma sopra l'arena, che altri ha voluto seguendolo ben calpestarla; e Dante similmente disse:

Qui voglio farmi incontra al vostro parlare: vero, direte voi che Petrarca e Dante usarono questi modi, ma gli usarono quasi trapassando oltre, ed infingendo di non accorgersene; ma pure, dirò io, pertanto e vero che da loro ebbe questa usanza principio onde io couchiudo, che il moderno componitore non è ritrovatore, ma seguace degli ordini anticamente insegnatici; se poi egli erra, o non erra seguendoli per tal maniera, quale egli tiene, io non dico, ma tacerollo; ed errimi assai soddisfarà alla fattaci promessa, la quale fu di dichiarare che ogni tessitura di costui, che voi riprendete, s’appoggia all'esempio degli scrittori antichi e riveriti.

C. I versi di Dante non sono in componimento lirico, ma epico; e Dante e Petrarca in quella canzone si trastullò e compose per ciancia.

Or. Se quella maniera di versi sdrucciolosi e zoppi non v’offendono l’orecchia nell’epico, meno vi deono offendere nel lirico poema: perciocché nell’uno e nell’altro noi ora gli esaminiamo come versi, non pensando sovra altra cosa. Ma per darvi piena risposta, io vi rammento che Dante nella canzone: Poscia ch'Amor del tutto m'ha lasciato, una rima sdrucciolosa fra non sdruccioli.

Qual non dirà fallenza
     Divorar cibi, ed a lussuria intenderei
     Ornarti come rendere
     Si volesse a mercato di non saggi.


E Guido Guinicelli nella canzone: A cor gentil ripara sempre Amore, adoperò rima alle sopraddette opposta in quei versi:

Che non de dare uom fè,
     Che gentilezza sia fuor di coraggio
     In dignità di re:

O valoroso ingegno bastavi egli l’animo di darmi mentita?

C. Non sono sì forte mantenitore di mia opinione, ch’io debbia gli amici oltraggiare; ben potrebbesi più questionare, ma io voglio accettare quel poco che dite, come se assai diceste in questa materia; ma se voi, e me prenda buona ventura, uditemi: Io adesso metterò in campo un’accompagnatura di rime di cui, volendo, non saprei trovare più strana, che il Petrarca accompagni ho, e sto, e Dante accompagni qui, e così, è vero; ma queste parole tronche posansi in su lettera vocale, il che fare è atto naturale della toscana favelli; ma chi le tronca, e fatte posare so lettera consonante, non vi par egli che il favellare toscano voglia trasformare in lombardo?

Qual ricchezza di Creso
     A confronto di Sisifo,
     Dicamisi che val?
     Mentre riguarda appeso
     Il sasso che minacciagli
     La percossa mor lai?

Voi per voi medesimo qui stabilite il mio argomento: torto vi faria dichiararlo maggiormente.

Or. Il vostro ragionamento vuole andar passo passo. Voi, secondo ch’io m’accorgo, consentite che si possa rimare con parola, la cui sillaba fornisca con accento grave, siccome forniscono pietà, e stò, e consentite per lo esempio degli antichi: ora movete a condannare qualunque scrittore rimasse con parola la quale avesse l’ultima sillaba con accento grave, e non fornisce in vocale, ma su lettera consonante: e egli si fatto il vostro giudizio?

C. Così fatto a punto.

Or. Ora io debbo rispondervi, non producendo ragioni perchè cosa debba farsi, ma portando in mezzo autore antico da cui si sia così fatto. Dante, il quale fu d’altissimo spirito fornito, e vide molto addentro nella poesia, fecesi beffe di sì fatte leggiere opposizioni, come uomo ben persuaso, che scrittura onde debba porsi maraviglia nell’animo di chi legge, voglia non minutamente guardare a’ sottili pensamenti popolari, sì veramente che si rimanga dentro de’ confini dell’arte; egli dunque cantò alcuna volta così:

Io non sono mago, nè posso ingannare gli orecchi in alcun modo; ed essi sentono pure queste rime Sion, Orizon, Fetori, e però perchè tanto ammirare? Se Dante non rifiutolle perchè noi abbominarle? più dico; Dante (e latri chiunque ne ha vaghezza) Dante, dico, maestro di tutti i Toscani, non pure sprezzò regole così fatte, ma si prese viamaggiore licenza: io mi dichiaro. Alcuno, e voi potreste dire: Sion, e le compagne parole si chiudono con consonante da’ grammatici appellata liquida; e ciò fassi malamente favellando siccome il popolo di Firenze il ci manifesta; onde se la gente per natura così fa, scandalo non dee patere che lo scrittore così faccia per arie; ma Dante, il quale volle spezzare questa sbarra ed apparire franco d’ogni ligame, compose questi versi così rimati:

Udite voi, Cicognino maraviglioso? Certamente, se io non sono errato, le dettevi rime hanno l’ultima lettera consonante, e consonante non liquida, e per tal guisa terminare la parola non costuma il popolo fiorentino quando ei parla; e tutta volta Dante volle rimare in tal modo: e ponete mente, ch’era in sua balia dare compimento a quelle voci, e torsi d’impaccio, e scrivere Austericche, e Cricche, e non pertanto egli volle farlo; e prese a scherno ogni biasimo, il quale per ingegni volgari potesse essergli dato; ed insomma elesse d’apparire per ogni via maraviglioso, e sciolto da ogni minuta regola che odorasse d’animo vile. È conosciuto pienamente, che egli non pure terminò le parole in lettera consonante sul fine del verso nel suo nativo linguaggio, ma non si sbigottì d’accettarne da idioma straniero: Tutti dicean Benedictus qui venit. Io sopra ciò non so che recarvi più, ed a chi cotanto non è assai, secondo me, niuna altra autorità basterà.

C. Avete così tritati i componimenti degli uomini famosi, che non mi fate già venire con voi, ma bene mi rendete meno avverso a’ versi de’ quali io vi ho mosso questioni; dicovi lealmente che io mi conduco a credere che ogni uomo abbia le sue opinioni, e che ogni opinione abbia sue ragioni per sè; e ben vero ch’io non mi so dipartire da’ modi antichi, e ch’essi mi piacciono più.

Or. Molti compagni avrete per questa via, ed anco dì coloro che scherzano con sì fatto verseggiare non molto usato, avvegnachè molto antico; ma su le menti reali non ogni vivanda è zuccaro. Ora voi accusate parimente come cosa da non farsi il rimare l’ultima parola del verso con parola allogata nel mezzo del verso seguente; soprachè io voglio solamente ricordarvi quei versi del Petrarca nella chiusa di una canzone:

Il rimanente non fa bisogno recitarvi; e parmi, che le vostre opposizioni siano tutte quante esaminate.

C. Se ne è tenuto sermone, ma leggiermente.

Or. Già non conviene farvi disputa, come si dovrebbe fare della vita d’uno uomo; che avvegnachè questi componimenti si sentenziassero a morte, non morirebbe salvo un poco di carta e un poco d’inchiostro.

C. Bene sta; tuttavia la poesia è nobilissima arte, ed è ragione condurla a sua perfezione, quanto si può. Ma ditemi per vostra fè: Che vuole significare strofe, antistrofe, ed epodo; e con qual ragione pongonsi nelle canzoni toscane? Di ciò non mi darete esempio nè di Petrarca, nè di Dante.

Or. Ciò che simiglianti voci si significhino, noi vi dirò; ben v’affermo che molto tempo addietro Luigi Alamanni compose canzoni non diversamente; ma egli nominò quelle parli della canzone, ballata, contraballata e stanza; ma il nome non monta nulla; e voglio manifestarvi cosa poco secondo me osservata, ed che Gio. Giorgio Trissino, personaggio fortemente dottrinato e degli scrittori greci molto domestico, e d’ogni segreto di poesia esperto, ne lasciò vestigio, già sono cento anni trapassati, e se vi piacerà di leggere la sua tragedia intitolata Sofonisba, voi vedrete nelle canzoni del coro, che tenne memoria dell’uso greco.

C. È ben ciò non affatto da dispregiarsi: ma ciò che fu a grado a quei due, pare che agli antichi maestri non venendo in mente, sia cosa di poco momento; ovvero a loro essendo venuta in mente, ella sia rea cosa, poichè la rifiutarono.

Or. Certa cosa è che sempre abbondano argomenti a chiunque è vago di quistionare; ma non pertanto un intelletto tranquillo ascolta volentieri quando altri conferma sua opinione bastevolmente. Ma ditemi per vostra lealtà, quegli ultimi versi, de’ quali il Petrarca e gli altri Antichi sogliono le loro canzoni terminare, non vi paiono una stanza diversa dalle altre, almeno quanto al numero de’ versi? e quivi dentro non fassi una favilluzza vedere di quello onde tegniamo ragionamento? ma che dico io? sovvienimi, che Dante fra le sue canzoni lasciò registrato questa che ora vi dirò; cioè:

O voi, che per la via d’amor passate,
     Attendete, e guardate,
     S’egli è dolore alcun, quanto il mio grava;
     E prego sol, che a udir mi sofferiate;
     E poi imaginate,
     S’io son d’ogni dolore ostello e chiave.

Questa, dettavi, è la primiera stanza. Udite la seconda:

Amor, non già per mia poca bontate,
     Ma per sua nobiltate,
     Mi pose, in vita sì dolce e soave,
     Ch’io mi sentia dir dietro spesse fiate:
     Deh per qual dignitate,
     Così leggiadro questi lo core have?

Queste due stanze intieramente sono fra loro simiglianti per quantità, e per qualità di versi, ed in ambedue i versi hanno lo stesso luogo, per modo che una puossi dire strofe, e l’altra antistrofe; ma ciò che ora io vi dirò, dirassi, e potrebbesi dire, epodo: perciocchè è di forma straniera da quelle due:

Ora ho perduta tutta mai baldanza,
     Che si movea d’amoroso tesoro;
     Onde io pover dimoro
     In guisa, che di dir mi vieti dottanza,

Quivi certo una sembianza vedesi del comporre grecamente, perciocchè Pindaro quasi tutte le sue canzoni compose epodiche; ma io non voglio pentirmi di soggiungere, che considerando la tessitura per ciascuno usata nelle canzoni, io riconosco alcun vestigio della greca antichità; ma non posso sporre il mio concetto senza recitarvi i versi. Io vi additerò così leggiermente il secreto da me osservato, e ciò prenderete a considerarvi sopra, quanto vi piacerà. Dico il Petrarca:

Sì è debile il filo, a cui s’attiene
     La gravosa mia vita,
     Che s’altri non l’aita,
     Ella fia tosto di suo corso a riva.

Questi sono quattro versi, ed il primo ed il quarto di quelli sono di undici sillabe, ed il secondo ed il terzo di sette; ne giunge il poeta quattro altri, e sono questi:

Però che dopo empia dipartita,
Che del dolce mio bene
Fece solo una spene,
È stato in fino a qui cagion ch’io viva.

Senza contrasto niuno questi quattro aggiunti secondamente sono a punto a punto come i quattro primieri: ed io dirovvi, che però quivi è la strofe e l’antistrofe; ma tutti i seguenti hanno sembianza di epodo, perchè sono più a numero e diversamente disposti. Uditegli:

Dicendo perchè priva Sia de l’amata vista,
     Mantienti anima trista
     Che sai, s’a miglior tempo anco ritorni
     Ed a più lieti giorni,
     E s’el perduto ben mai si racquista?
     Questa speranza mi mantenne un tempo,
     Or vien mancando, e troppo in lei m’attempo.

Dico che questi versi hanno sembianza di epodo; perciocchè non sono a numero quanto i recitati della strofe e dell’antistrofe, nè meno sono ordinati con la loro maniera: e tutto ciò rimirasi, per chi vuole, nella tessitura del sonetto; non potendo negarsi il primiero quaternario essere come strofe, ed il secondo come antistrofe, ma il terzetto come epodo: e se altri dicesse, che non un terzetto solo sia nel Sonetto ma due, costui sappia che anco presso i Greci fu costume di comporre canzoni con due epodi. Non so io ora come debba, o possa a voi giunger cotanto nuova la maniera tenuta dal verseggiator nostro?

C. Se gli Antichi hanno fatto come i Greci; perchè non ci basta far come gli Antichi, e non cercare nuovi titoli e nuove sembianze?

Or. Gli Antichi hanno composto, e non avvisarono in qual maniera si componessero; e però non male che ciò per noi si sappia: di avvantaggio non si dee stringere gli ingegni sì che non si possa uscire dalle vestigia altrui; ma sì nel fare canzoni epodiche, lasciare in arbitrio di ciascuno di tessere strofe, antistrofe ed epodo, come più gli piaccia.

C. io non dico che il ragionamento da voi fatto mi porga intiera soddisfazione, ma non niego che alcune cose mi abbiate sporte ben degne di considerarsi; e veggo poco potersi errare in maturar il giudicio sopra le materie da disputarsi; ma posto che tutte tessiture, di che io favellato vi ho, abbiano alcun fondamento nelle poesie antiche, qual ragione ci consiglia a metterle in frequente uso e domestico? Se siamo forniti delle migliori, a che travagliarsi dietro a poesie non buone? non veggo ragione perchè ciò fare; e volentieri alcuna ne sentirei.

Or. Io non sono per appagarvi, perchè tuttochè in Roma già ne sentissi produrre alcuna volta alcuna, io non posi mente, o non intesi, o me ne sono dimenticato; ma il nostro Geri, il quale era con esso il signor Strozzi a Roma, ed è di maggior memoria fornito che non son io, suole alcuna volta farne racconto, ed egli potrebbe compiacervi.

C. Non mi è conceduto da negozio grave domani da mattina fare a mio senno; ma facciasi così: venite amendue a cenar meco; io farò metter le tavole in cima la mia torre, ed all’aria fresca faremo ragionamento, e ci schermeremo dal caldo, il quale, questo mese di agosto, fa tanto godere l’acqua d’Arno giocondamente.

Or. Sarà per me fatto il vostro volere. Ma troviamoci soli, che non sono li strani ragionamenti da divolgarsi.

C. Ben dite.



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