Questo testo è completo. |
◄ | LV | LVII | ► |
CAPITOLO LVI.
DECRETO DI MORTE.
Passiamo presto, e sulla punta |
Non è molto tempo trascorso che l’idra sacerdotale del Vaticano innalzava i suoi roghi nei chiostri della capitale del mondo cattolico — ed all’aria aperta tra parecchie delle infelici nazioni che avevano la disgrazia d’essere ammorbate dalle sue dottrine — come ad esempio la Spagna. — Nei tempi moderni — codesti orrori non si tollerano più — ma l’idra dalle mille teste — satolla ancora le sue libidini di sangue in molte altre guise — ferro, veleno, brigantaggi ed assassinii d’ogni specie.
Nella Curia romana una sentenza di morte, era stata pronunziata contro il principe T. — fratello della nostra Irene — e Cencio con otto sicarj della santa sede a’ suoi ordini, doveva eseguire l’atroce mandato — profittando della confusione in cui si troverebbe Venezia all’arrivo del solitario.
Gli otto complici dell’ex -liberale — erano in parte stati appostati nei dintorni dell’Albergo Vittoria, in tutti gli sbocchi da dove poteva capitare la vittima. — Quattro di loro tenevansi in agguato in una gondola ben pagata — con istruzione segreta — di sbarazzarsi anche del gondoliere — a cose finite — per non avere indiscreti testimoni, che potessero deporre contro di loro — Cencio, si era riserbato, non l’azione principale dell’omicidio, — ma quella del segugio che si doveva tenere ostinatamente sulle calcagna del principe. — Per fortuna del nobile romano — la cabala fallì — perchè il segugio era stato tolto dalla pesta e non solo si trovava al sicuro nelle ugne dei tre amici — ma doveva fare i suoi conti anche con un quarto personaggio che valeva ciascuno dei primi — e questo quarto era niente meno che il nostro vecchio e ben noto Gasparo. —
Gasparo — dopo i fatti da noi raccontati nei capitoli precedenti — toccato il suolo non pontificio — s’era offerto a servire da domestico il principe T. — che ben volentieri lo prese seco. — Con lui venne a Venezia — e mentre il padrone s’intratteneva nei saloni del palazzo Zecchin — il poco paziente domestico, che s’era fermato sull’ingresso del palazzo a godersi le scene del popolo festante — vedendo i tre romani, che amava come figli — fendere la folla con tanta precipitazione — volle seguirli — e così anche lui si trovò all’osteria sulla Riva degli Schiavoni alle calcagna di Cencio.
Descrivere lo stupore e la paura del mercurio clericale — in mezzo ai quattro — è cosa ben difficile. — Essi lo condussero nella stanza più recondita dell’osteria in un piano superiore — dissero al cameriere che portasse loro da bere, e poi li lasciasse — perchè dovevano trattare d’affari — chiusero l’uscio a chiave — ordinarono allo sgherro di sedersi contro il muro — presero posto su di una panca collocata al di qua della tavola — e coi gomiti sulla medesima — e cogli occhi fissi sul malvivente rimasero in attitudine di giudici inesorabili.
In altre circostanze forse — il malandrino avrà sentito rimorsi, e si sarà pentito de’ suoi tradimenti — ma in questa — vi assicuro che egli ne avea ben d’onde. —
I quattro amici — freddi e tranquilli, come chi ha la coscienza della forza e dell’anima intemerata — contentavansi di fissare i loro occhi in quelli del perverso — e questi fuori di sè, colla bocca e gli occhi spalancati — sforzavasi di articolare delle voci — che non volevano uscirgli dalla strozza, riuscendo penosamente a balbettare: «signori... io non...» ed altre parole mozze.
Fu un pò barbara la tranquilla pacatezza dei quattro romani — e chi avesse potuto contemplare quella scena — certo coll’immaginazione sarebbe corso al paragone del sorcio — sotto l’inesorabile sguardo del gatto, che ne spia ogni minimo movimento, per lanciarvisi sopra — e stritolarne le ossa sotto i denti. — Se un pittore — avesse potuto trovarsi presente a quel muto consesso — ne avrebbe tolto il soggetto di un bellissimo quadro.
Già abbiamo descritto i primi tre, veri tipi degli antichi romani — di bellezza — di forme veramente artistiche. —
Gasparo era — e con ragione — una di quelle figure che un romanziere francese avrebbe pagato a peso d’oro — per poterne fare il suo «Brigand Italien» e fotografato da Bernieri1 il suo ritratto, avrebbe prodotto assai maggior lucro all’artista, che quello di qualunque sovrano d’Europa. —
Era veramente una gran bella figura di brigante quel vecchio Gasparo — ma di buon brigante? di quelli che l’hanno a morte coi birri — ma che non si macchiano con azioni infami — come quei mostri assoldati dai preti che commettono eccessi da far inorridire una tigre. —
Anche il successore di Gianni., avrebbe fatto un’idonea comparsa in un quadro caratteristico — e certo per rappresentare la paura in tutta la sua bruttezza — nessuno avrebbe potuto servir meglio di lui. — Inchiodato al muro cui appoggiava le spalle — egli lo avrebbe rovesciato — forato — se la forza fosse stata pari alla volontà — coll’intento di potersi allontanare un pò più da quei quattro tremendi osservatori — lì — davanti a lui, fissi, impassibili, — e che pure meditavano la sua rovina — forse il suo esterminio. —
La voce austera di Muzio — dell’antico capo della contro-polizia di Roma — fu la prima che s’udì rompere quel sepolcrale silenzio. — «Dunque» disse egli: io ti voglio contare una storia o Cencio — forse da te conosciuta — come Romano — e che imparerai se per caso non la conosci — sta attento:
«Un giorno i nostri padri, stanchi delle prepotenze del primo re di Roma — che fra le altre amabili imprese, aveva ucciso con un pugno il fratello Remo — perchè si divertiva per scherzo a saltare il fosso di cinta fatto da Romolo — i nostri padri dico, in un senato consulto decisero di sbarazzarsi del loro re, un po’ troppo manesco e con disposizioni un po’ troppo dispotiche. — Detto fatto! gli saltano addosso colle daghe sguainate — e Romolo, benchè valorosissimo — dovette cadere sotto i loro colpi. L’affare era fatto — ma al popolo romano alquanto innamorato del suo re guerriero — per non avere de’ guai, bisognava contare qualche fandonia su quella morte — e l’avviso d’un vecchio senatore prevalse su quello degli altri sul da farsi. —
«Noi conteremo al popolo» disse il vecchio: «che Marte padre di Romolo disceso tra noi, dopo averci rimproverato d’essere un po’ troppo ladri e quindi indegni d’aver a capo il figlio di un Dio — se l’ha preso seco e trasportato in cielo. —
«E cosa faremo del corpo» soggiunsero più voci di senatori?
«Del corpo?» disse il vecchio. «Niente di più facile che provvedervi.» e sguainando la sua daga cominciò a tagliare a pezzi il cadavere. — Quando ebbe terminata tale anatomia «ognun di voi, ora» disse «prenda uno di questi pezzi, lo nasconda sotto la toga — e vada a gettarlo nel Tevere. — Prima di domattina, i mostri marini avranno dato degna sepoltura a questi avanzi del fondatore di Roma. —»
«Che te ne pare. Cencio? — senza essere re di Roma, nè figlio di Dio, una morte cotale non ti parrebbe onorevole? — per te che altro non sei che un miserabile traditore? —»
«Per l’amor di Dio!...» gridò il satellite esterrefatto — e piangente come un fanciullo — e le lacrime per un pezzo gli soffocarono la voce. — Alla fine alquanto sollevato dallo stesso pianto, ripigliò: «Io farò quanto mi chiederete — ma per l’amore che portate ai vostri amici, alle vostre donne — alle vostre madri — non mi fate soffrire una morte così crudele!»
«Parli di morte crudele!? Ma per uno sgherro, una spia, un traditore c’è forse morte troppo crudele?» rispondeva Muzio — con quella impassibilità che lo distingueva.
— «Hai forse scordato — quando vendevi la gioventù romana ai preti — che poco mancò non la facessi crudelmente trucidare tutta dai loro carnefici? —»
Nuovo pianto! nuovo pianto ancora scorreva dagli occhi del codardo. —
E Muzio: «Ora poi, la tua venuta a Venezia — bel soggetto! — cosa significa?
«Chi t’ha inviato? À che sei venuto qui — perverso? —»
«Vi racconterò tutto» era la risposta del malandrino. — E l’altro: «Conterai tutto, vedremo! — e nulla ti resti in fondo di quel sacco di malizie e di tradimenti — che tieni al posto della coscienza.»
«Tutto! tutto!» gridava Cencio come un energumeno.
E come dimentico di quanto doveva narrare — e sopraffatto ancora da immensa paura — non sapeva da dove cominciare.
«Saresti più lesto nelle tue delazioni al Sant’Ufficio, boccone da forca.,» susurrava Gasparo, col suo vocione.
«Avanti!» esclamarono Orazio ed Attilio — rimasti pazientemente silenziosi sino a quel punto. —
Un momento d’assoluto silenzio seguì quel primo atto un po’ tempestoso, e Cencio principiava a narrare così:
«Se vi è cara la vita del principe T....»
«Del principe T.? il fratello d’Irene,» sclamò Orazio — varcando d’un salto la tavola ed afferrando il traditore per la gola!
Cencio, tra l’ugne di una tigre — o tra gli abbracciamenti del re delle foreste — avrebbe corso meno pericolo — che non tra le mani del principe della campagna di Roma, — che l’aveva agguantato al collo. — Ma Attilio, con modo gentile: «Fratello,» disse ad Orazio. «abbi pazienza — lasciamolo parlare. — »
Veramente — spacciato Cencio — addio rivelazioni — ciò era chiaro come il sole. — onde la suggestione del capo dei trecento di Roma — fu capita da Orazio — e sciolse dalla gola di Cencio — le sue mani frementi.
«Se vi è cara la vita del principe T.» ripigliava il malvagio «andiamo insieme a farlo avvisato che un agguato di otto emissarj del Sant’Ufficio lo apposta nei dintorni dell’Albergo Vittoria, ove egli sta d’alloggio. — »
- ↑ Bernieri, Maggiore e fotografo a Torino.