< Come un sogno
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IX XI

X.

Due ore dopo quel nostro colloquio, il treno che passava da Grottamare mi accolse e partii per quella facile ma delicata impresa che ella mi aveva commessa. Non avevo voluto che ella mi accompagnasse alla stazione; soltanto avevo accettato la scorta di Cesarino, perchè facesse portare a casa le nostre valigie, che erano rimaste laggiù in custodia. Ella non m’aveva già detto di farlo; ma poichè mi mandava a Bologna e mi diceva di tornare, la cosa andava da sè.

Il convoglio era già in moto, quando io, cercando cogli occhi il nostro bel nido, lunghesso la costa, vidi sventolare un fazzoletto bianco da una finestra lontana. Benedetta finestra, che mi ricordava le mie prove ginnastiche e il premio più gradito che mai fosse dato alla virtù sulla terra! Risposi prontamente al saluto; continuai a sventolare il mio fazzoletto dallo sportello, fino a tanto mi venne fatto vedere quella modesta casetta sul poggio; guardai con desiderio la Castellana quando a sua volta mi si parò davanti agli occhi; indi, perduta ogni vista di quel caro paese, mi rintanai nel carrozzone, non volendo più veder nulla, nè Pedaso, nè Porto San Giorgio, nè altra di quelle graziose borgate sulla riva del mare. Sporsi la testa soltanto a Recanati, in omaggio al più grande tra i nostri poeti moderni, a colui che amò e patì più profondamente di tutti, e meglio di tutti cantò l’amore e il dolore.

Era lungo, il viaggio; nè io lo farò più lungo, narrando tutte le fantasticherie del mio spirito irrequieto, i lunghi soliloqui in cui mi foggiavo a mia posta il futuro, gli spasimi atroci dell’impazienza, che a volte mi assalivano, o l’acconciarmi, che tratto tratto facevo, alla necessità inesorabile. Tutte le grandi vigilie sono a un dipresso così.

Racconterò solamente una mia ragazzata. A Falconara entrò nel mio scompartimento, insieme con altri viaggiatori, una signora anconitana (che tale almeno mi parve all’accento), e proseguì anch’essa il viaggio sino a Bologna. Le cure, le attenzioni, i riguardi, ond’era fatta argomento, me la dicevano bella; ma io non la guardai punto, neanche alla sfuggita, come avrebbe potuto intervenire a chicchessia. Avevo sempre negli occhi la mia bella compagna lontana, e il guardare quell’altra là, seduta quasi dirimpetto a me, mi sarebbe parso una profanazione. Certamente, lo starmene così in gota contegna, cogli occhi in aria, non era la più agevole cosa del mondo; ridevo anche dentro di me di quel matto capriccio; pure, ci mettevo della superstizione a vincere il punto. E quantunque fosse difficile, fatto sta che smontammo tutti a Bologna, senza che io avessi veduto il suo volto.

Giunto finalmente alla meta, avevo cavato fuori la busta misteriosa. Ecco qua, pensavo; in questo involto di carta c’è il segreto della mia bellissima viaggiatrice. Il suo nome, che non ho ancora ardito domandarle, il suo casato, la patria, tutte le fila che mi possono condurre attraverso il piccolo mondo in cui ella vive, sono oggi in mia mano. Sta bene che son gentiluomo e non aprirò queste lettere; ma un’occhiata alla soprascritta, un’occhiata sola a caso, che forse mi ci cascherà su, anche senza volerlo.... Senza volerlo! Alto là; questo è un sotterfugio. Non ci siamo noi, per cinque ore alla fila, impuntati a cansare la vista di una donna, che ci era seduta di rincontro? E volendo, fermamente volendo, non ne siamo venuti a capo?

Mi giravo frattanto e mi rigiravo tra le dita l’involto. La tentazione era forte; lo confesso, non amando darmi per migliore di quello che sono. M’era anzi venuto il pensiero che, se avessi avuto tra’ piedi un amico, per esporgli il mio dubbio, egli m’avrebbe dato dello sciocco, senza tanti riguardi. Ma la promessa? Lo attendere una promessa non è egli un debito di onore? E l’onore non è egli una religione? Anche Giove è vincolato dai suoi giuramenti; ed è questa una delle più belle cose che io m’abbia letto in Omero.

Con questo miscuglio di mitologia e di cavalleria nella testa, andai alla buca delle lettere che era nella stazione; strappai la sopraccarta, palpai le due lettere, per accertarmi che fossero suggellate, stesi la mano in fretta, e le gettai nella buca. Certo, egli mi sembra di poter giurare che anco a starmi tra le mani, il segreto della mia bella viaggiatrice non corresse pericolo; ma tant’è, mi pareva anche più sicuro là dentro, e la rifiatata di contentezza che diedi, mostrò chiaramente che io m’ero sollevato d’una grande malleveria.

Ciò fatto, uscii dalla stazione e infilai lo sportello d’un carrozzone d’albergo. Cascavo, a farlo apposta, nel migliore di Bologna, dove mi fu assegnata una gran camera, col solaio di legno, a cassettoni dorati, e partita in due da una gran tenda di lana scarlatta. Il letticciuolo sul quale andai a cercare il sonno, aveva da capo un quadro a olio, in cui era dipinto un uomo incipriato, in abito di gala, con una ranocchia scorticata davanti a cui egli accostava i capi di un arco metallico. Riconobbi il Galvani e pensai all’elettricità. Ne avevo tanta io in tutte le fibre, che per un pezzo non potei chiuder occhio. E addormentatomi finalmente, non la durai molto col sonno, perchè alle sei del mattino ero già in piedi, preparato ad uscire.

— Ah! finalmente quest’oggi ritornerò a Grottamare! — esclamai, mettendo più liberamente il respiro.

E fu questo il saluto che diedi a Bologna. Non se l’abbia a male la dotta e bella città. Gl’innamorati hanno un certo modo di vedere e di ragionare, che guai a loro, se la gente assennata li tenesse mallevadori di ciò che dicono, e fanno.

Uscii, per ingannare il tempo e la mia impazienza. L’albergo, che avevo confusamente veduto nella notte, era bello e bene in assetto. A me, più d’ogni altra cosa, piacque il cortile, con quel suo porticato allo intorno, sostenuto da pilastri di marmo vagamente scolpiti, che così ad occhio e croce giudicai opera del quattrocento, o giù di lì. Nell’androne che metteva all’uscio di strada, notai una epigrafe, la quale diceva essere stata murata la casa sulle fondamenta d’un tempio a Giove Statore, per abitazione ad un famoso giureconsulto. Discordia civium, concordia lapidum, come dice un’altra iscrizione audace ed arguta ad un tempo, che un bell’umore d’avvocato moderno fece scolpire sull’entrata del suo palazzo. Tornando al giureconsulto bolognese, il suo nome si leggeva nell’epigrafe: Rolandino de’ Romanzi. Ottimo seguace d’Irnerio e di Bartolo, tu certamente non li avevi che nel nome, i romanzi: io, in quella vece, ne avevo uno alle mani, e il più bello tra tutti, come di regola è sempre quello di cui siamo protagonisti noi stessi.

Andai attorno a veder la città, e, tranne questo, che pensavo troppo spesso a Grottamare, posi abbastanza attenzione a ciò che vedevo, dal sedile d’una vettura di piazza. Bologna mi diede nel genio; mi andarono a’ versi perfino quelle lunghe file di portici che fiancheggiano le vie principali, e che le fanno parer così cupe ai forestieri. Pensino costoro ciò che vogliono; io non li seguo. Del resto, l’ho già detto, io ero nato pel medio evo, e qualche volta, a vedermi così disusato al mio secolo, mi gira per la fantasia di essere stato dimenticato cinquecent’anni di troppo nell’anticamera della vita.

E qui, non ruberò il pane alle guide, discorrendo per filo e per segno tutte le cose notabili della città. Dirò brevemente che in quattr’ore di corsa disperata avevo tutto veduto, da San Petronio all’Archiginnasio, dalla torre degli Asinelli e dalla sua compagna Garisenda, sotto di cui la limpidezza del cielo non mi consentì la stretta paurosa che accennò l’Alighieri, fino ai due cinghiali di bronzo, attribuiti al Cellini, che servono di battenti al portone di un certo palazzo.... Il nome non mi viene e lo lascierò nella penna.

A chiarire un po’ meglio questa mia furia francese, dirò che in ogni città da me veduta per la prima volta io ho sempre fatto così. Roma, l’eterna Roma, la città delle cento meraviglie, non si è salvata neppur ella da questo mio metodo nuovo d’osservazione.

Erano le sei ore d’una mattina d’autunno quando c’entrai. Smontato all’albergo, feci da buon musulmano le mie abluzioni, da buon cristiano indossai la veste candida, che è come a dire un’altra camicia, e armato di tutto punto mi posi in cammino, su d’uno di quei carri di trionfo che hanno di presente a Roma il modesto ma lieto nome di botte. Trionfai per cinque o sei ore, aspettando il momento di potermi presentare dicevolmente ad una côlta e gentile signora, che io avevo conosciuta giovinetto, molti anni addietro e che veneravo come una madre. Sul mezzogiorno ero da lei, che accoltomi con molte dimostrazioni di benevolenza, mi domandò come mi piacesse Roma e quali cose avessi in animo di andar prima a vedere. — Ho già veduto molto, risposi. — Sentiamo: soggiunse ella: San Pietro? — Veduto. — Bene: San Paolo? — Veduto. — Il Colosseo, il Foro, il Campidoglio? — Veduti, ed anche la rupe Tarpea e il carcere Tulliano. — Il Mosè? — Veduto, ed anche la Venere capitolina, con tutto il suo corteggio di numi e d’eroi. — Davvero? esclamò ella, stupita. E piazza Navona, m’immagino. — Sicuro, e la fontana di Trevi, le terme di Caracalla, il sepolcro degli Scipioni, il tempio di Vesta, il Gesù, il biondo Tevere, Ripetta, il foro Traiano, Montecitorio, Pasquino e i viali del Pincio. —

A farla breve, tirai giù una filatessa di nomi così alla rinfusa, come mi venivano alla mente. Avevo veduto ogni cosa, salvo i musei Vaticani, pei quali ci voleva un biglietto d’ingresso, che l’albergatore prometteva di farmi avere in giornata.

— Ma allora, figliuolo mio, — mi disse la signora, ridendo, — tu conti di ripartire stasera, o domattina al più tardi.

— No, signora, — mi affrettai a rispondere; — ci ho ancora tutto da vedere.... per la seconda, per la terza, e giù giù fino alla centesima volta.

— Ah, manco male!

— O che, signora mia? Mi pigliava già forse per un barbaro? Son curioso e impaziente; ecco tutto. Dove giungo, e appena giungo, vo’ veder subito ogni cosa. Questo io lo chiamo: impadronirmi della posizione. E una volta padrone, mi ci adagio, mi ci dilungo a mia posta, divento un uomo ragionevole, posato, come tutti gli altri, mi metto la guida sotto il braccio e ritorno passin passino su tutte le osservazioni che avevo fatte dianzi al galoppo. —

E questo che ho detto della mia prima visita a Roma, mi scusi della furia con cui avevo in quattr’ore corso e ricorso Bologna; città il cui nome altri cava dai Galli Boi, invasori del suo territorio, mentre io lo fo derivare da Bona omnia. Basti, a confermare l’etimologia, che io ci trovai tutto buono.

Al tocco, ero già nella stazione, in attesa della partenza. Avevo fatto una abbondante provvigione d’acqua di Felsina, per recare alla Gioiosa un ricordo ed insieme una testimonianza del mio viaggio; e pensavo, con quell’involto tra mani, a quel personaggio della favola, a cui la bella figliuola del re aveva commesso di portarle un’ampollina d’acqua, attinta alla fontana di Giovinezza. Io, a dir vero, non avevo dovuto combattere a corpo a corpo con nessun drago custode; che anzi, il signor Bortolotti, padrone della fontana miracolosa, mi aveva sorriso garbatamente, servendomi a prezzo fermo. Ma l’acqua di giovinezza non era già nelle ampolle, bensì nel mio cuore, e dava bollori d’impazienza che nulla più.

Finalmente, il convoglio si mosse di là. Io tentai di leggere, e scorsi ad uno ad uno tutti i giornali, comperati poc’anzi nella stazione, ma senza spiccicarne un bel nulla. Il mio spirito non voleva saperne di dar retta agli occhi, e quando io m’ostinavo a trattenerlo sul foglio, egli si sbizzarriva in altro modo, facendo veder loro quel che gli andava più a’ versi. E allora, per mezzo alle righe di un telegramma, o, Dio mi perdoni, d’un articolo di fondo, faceva capolino una graziosa figura di donna, per mandarmi un sorriso, o saettarmi un’occhiata, che mi rimescolava il sangue per tutte le vene. È vero altresì che mai un giornale mi parve più interessante d’allora.

Partendo da Bologna avevo preso posto in un ammezzato, per cansare il pericolo della compagnia; e fu ventura, perchè, con quella smania ond’ero invasato, avrei fatto ridere qualcheduno de’ fatti miei. De’ viaggi lunghi ce ne saranno stati prima di me a centinaia di migliaia; ma io credo fermamente che a nessun viaggiatore, per impaziente che fosse, ne sia toccato uno più lungo del mio.

Basti il dire che, per avere un po’ di tregua, mi feci a dividere la mia impazienza in tante parti quante segnava stazioni l’orario. A Rimini, aspettavo il Riccione, famoso per la gran colpa di Cesare; al Riccione, la Cattolica; alla Cattolica, Pesaro; a Pesaro, Fano. A Fano mi avvidi che eravamo a mezza strada, e respirai. Ma la seconda metà del viaggio era ancor più lunga della prima. Provai a chiuder gli occhi, lentando le redini alla fantasia nella regione dei sogni. Ma non c’era verso; la fantasia s’incappucciava, come un cavallo restìo; gli occhi si aprivano ad ogni tratto per vedere il paese: la persona infastidita voleva sempre mutar luogo, e andare in volta, or da una parte, or dall’altra dell’ammezzato.

Tormento ineffabile, che tuttavia non era scompagnato da una certa dolcezza. Parrà strano, contradittorio, ma è vero. I martiri, del resto, non l’hanno essi provato? Non si racconta egli sul sodo, che san Lorenzo, posto a rosolare sulla graticola, come fu in punto da un lato, domandò ai cuochi aguzzini che lo voltassero dall’altro? Io, poi, la mia consolazione l’avevo. In capo al mio doloroso viaggio, non c’era egli forse il gaudio di rivedere una donna adorata? Ed ogni giro, anche lento, troppo lento, di ruote, non mi avvicinava a lei?

La sera mi colse a Loreto. A Sant’Elpidio era notte, e la luna, il cui disco tondo e rossastro sorgeva lentamente sul mare, prometteva i suoi miti splendori alla modesta cameretta della Gioiosa. Ah, finalmente! Un’ora appena mi divideva da lei. Quante volte guardai l’orologio! E come gli avrei toccato volentieri il tempo, se avessi potuto con questo espediente far guadagnare qualche chilometro di strada al convoglio!

Alla perfine, si gridò la stazione di Cupra Marittima. La fermata fu lunga, e non giovò che io battessi i piedi; la vaporiera non dava segno di vita. Temetti d’un guasto occorso in qualche ordigno, o d’un ostacolo attraversato sulla via; ed ero già allo sportello per pigliar lingua dal primo guardiano che avessi veduto, quando un suono di corno diede il segnale della partenza. Ah, manco male; per questa volta a Grottamare ci si va. Ancora dodici minuti e tutti pari!

Non starò a dire da che piede scendessi. Già prima che il convoglio si fermasse, m’ero buttato fuori con mezza persona dallo sportello, per girar la maniglia. Balzai, credo, dallo smontatoio prima che i guardiani scendessero dalle loro bertesche; diedi il mio biglietto al portinaio, e via come una saetta.

Cesarino, che era venuto ad attendere il mio arrivo, durò fatica a raggiungermi. Udii la sua voce e mi fermai appena quel tanto che gli consentisse di giungermi a pari.

— Orbene, — gli chiesi, — come sta?

— Benissimo, signore; vi aspetta. —

Il cuore mi diede un sobbalzo di contentezza. Non erano che due parole, gittate là a caso, e forse così per mo’ di dire, e non pertanto mi consolarono. Non so perchè, ma un dubbio mi stava rannicchiato in fondo all’anima e con una certa sua vocina beffarda mi andava da qualche ora dicendo: ti aspetta essa? la troverai tu a Grottamare?

Mi consolavo adunque, ma il dubbio beffardo non si dava per vinto. «O perchè, dimandava, non ti è ella venuta incontro? Così poco è impaziente di vederti?» Ma la ragione a rispondere: «bravo! con questo buio, e senza la compagnia di un uomo fidato, andare attorno per la campagna?» Così tentando di mettere in pace lo spirito, fui cinque minuti dopo in vista della Gioiosa. Alzai la voce, canticchiando, per farmi udire da lei; ma nessuna voce, nessun rumore mi rispose di là. Del resto, non eravamo ancora davanti all’aia. Vidi bensì a lume di luna la finestra del primo piano uscir fuori dal verde; ma la luce dava in pieno sui vetri; la finestra era chiusa.

— Animo, non facciamo ragazzate! — dissi tra me, cessando di canticchiare.

E giunto allora dove il sentiero si partiva in due, mi volsi speditamente a manca, per entrare sull’aia. Cesarino fu pronto a trattenermi.

— No: — diss’egli, tirandomi per la falda dell’abito; — per di qua. — E mi additava la carraia, che proseguiva diritta, lunghesso il frutteto.

— Che vuol dir ciò? — gli domandai, guardando ora lui, ora l’uscio della Gioiosa, davanti a cui giungevamo per l’appunto, e che aveva faccia di legno.

— Non posso dir nulla; venite con me. —

E frattanto, andava oltre sul viale.

— Ma dimmi almeno....

— Non posso; saprete poi. —

Saper poi! con quello spasimo in corpo! Era una condizione a cui non sapevo acconciarmi. La mia curiosità era tale, che non mi peritai di far capo ai partiti estremi, tentando di corrompere il mio piccolo conduttore.

— Senti, Cesarino; — gli dissi, mettendo mano al portamonete; — ti dò uno scudo.... dieci lire.

— No, no, — mi rispose quel manigoldo; — la signora me ne ha dato venti, perchè non vi dicessi nulla. —

Ero sconfitto, e colle mie stesse armi. Bene avrei potuto ritorcere l’argomento e dirgli che, se egli aveva avuto venti lire per tacere, dieci di più facevano trenta, per le quali avrebbe potuto parlare. Mi trattenni, temendo di guastargli la coscienza, pel giorno che egli diventasse elettore e fosse pigliato in mezzo da due candidati.

— Cesarino, — mi contentai di dirgli, — tu sei cattivo, e mostri di non volermi bene. —

Il rimprovero potè su quell’anima innocente assai più dell’ingoffo.

— Oh, signore! — esclamò egli tutto confuso. — Venite, è un’improvvisata che vi si vuol fare.... —

E voleva dire di più; ma io gli diedi sulla voce. Il cuore mi si era rallegrato.

— Se è una improvvisata, non la guastiamo. Corri, piuttosto; io ti seguo. —

Il ragazzo non se lo fece dire due volte, e lesto come uno scoiattolo si messe la via tra le gambe. Io dietro lui, facendo i passi alla bersagliera.

Così in brev’ora giungemmo alla Castellana. Io ripigliai la mia prima andatura a’ piedi dell’erta, per non arrivare affannato lassù, ed anche un pochino per raccapezzarmi, davanti a quelle novità che mi aspettavano. Cesarino era allegro e saltabellava davanti a me come un capriuolo; non c’era dunque a temer niente di male.

E tuttavia non fu senza un gran batticuore che arrivai sulla spianata, davanti al palazzo, e vidi illuminato il vestibolo, insieme colle finestre del pianterreno. Era quello il palazzo che io avevo veduto chiuso, due giorni addietro, e deserto?

Repressi un grido che già mi rompeva dal petto, e affrettai il passo in mezzo alle aiuole. In due salti fui sotto l’atrio, davanti alla luce del portone spalancato.

— È qui! — gridò Cesarino trionfante, facendomi da battistrada.

La mia bella castellana era nel vestibolo. Portava una veste di seta leggiera, traente al bianco, e screziata a furia, giusta una foggia imitata dai tessuti orientali. I suoi bellissimi capegli neri, sdegnando l’alta e mazzocchiuta acconciatura del tempo nostro, si attorcigliavano con greca eleganza sulle tempie, si ravviavano in morbide anella dietro gli orecchi, e annodati sulla nuca lasciavano ricadere una lucida ciocca sul collo. Era l’acconciatura della Venere di Milo, a cui la mia bella compagna non faceva pensare solamente per questo.

Ella si avanzò in atto cortese sull’uscio, e mi sporse la mano, che io divotamente baciai. Nè trovai lì per lì una parola da dirle; la guardavo attonito, rapito da tanta bellezza, confuso dalla mia stessa felicità.

Presomi allora per mano, la donna gentile mi condusse in giro per la casa. Tutto era in ordine per quelle sale, tutto spirava un’aria di schietta allegrezza. Io non avevo inteso mai, prima d’allora, come potessero aver voce così cara e profonda le cose. Di certo, quegli arredi, e quei ritratti di famiglia appesi alle pareti, erano là da molti anni. Ma la presenza di quella bellissima pareva dar loro la vita. Le vecchie masserizie luccicavano, riflettendo le mobili pieghe di quella veste bianca che le rasentava passando; quegli antichi sorridevano dalle tele e sembravano dirci, con quel loro benevolo riso: state allegri, figliuoli: noi lo siamo stati la parte nostra, e taluno di noi, giunto alla fine del salmo, si è anche pentito del tempo inutilmente occupato a far muso.

Ristoratomi alla svelta dei danni di quel lungo viaggio, scesi nella sala da pranzo.

Ma era detto che anche allora io dovessi far torto alla cuoca, che era, già s’intende, la Rosa. Poco stante, ci alzammo da tavola ed io offersi il braccio alla fata gentile, per compier la visita del suo palazzo incantato. Volevo veder tutto, impadronirmi della posizione; ed ella godeva di vedermi così premuroso, di sentirsi lodare con tanto ardore dell’opera sua.

Per tutto quel tempo s’era stati a riguardo, facendo molte parole vane e ricambiandoci cortesie a mezz’aria. Ma già, così non poteva durare più a lungo, e la nostra conversazione risentiva del disagio in cui eravamo ambedue. Dopo tutto, non c’era egli ancora un punto da chiarire? Avevo io adempiuto gelosamente all’incarico, mettendo le sue lettere alla posta senza pur dare un’occhiata alla soprascritta?

Come fummo soli, ben soli, io presi la donna gentile per mano e la trassi con dolce violenza sotto il lume d’una lampada.

— Guardatemi bene; — le dissi. — Ho io violato il vostro segreto?

— Oh, no; — mi rispose ella, arrossendo. — Vi avevo già letto negli occhi, a mala pena arrivato. Siete un leal cavaliere. Confessate, per altro, — soggiunse, — che avevate un gran desiderio di leggerle.

— Dite uno spasimo, un’agonia. Amore è geloso, voi lo sapete; cioè.... chi lo sa? che debbo io creder di voi? —

Ella rimase un tratto in silenzio, co’ suoi begli occhi fisi ne’ miei.

— Che io, — rispose poi lentamente, quasi sforzando le parole ad uscire, — che io.... non avrei forse resistito alla tentazione.

— V’intendo; — replicai confuso, che già più non sapevo in che mondo mi fossi, — per una leggera curiosità.... femminile!

— No; siete in errore.

— E perchè, dunque?

— Lo domandate? — mormorò ella, cadendomi tutta smarrita nelle braccia e nascondendo sul mio petto il bellissimo volto.

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