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ATTO QUINTO
SCENA I.
La stessa.
Entrano Pietra-del-paragone e Andrey.
Piet Troveremo il momento, Andrey. Pazienza, cara Andrey.
And. In verità, quel prete era abbastanza buono, checchè ne potesse dire il vecchio.
Piet. Un miserabile, Andrey, un cattivo uomo quel Martext. Ma, Andrey, vi è qui nella foresta un giovine che ha pretese sopra di voi.
And. So chi è, e punto non m’interessa: eccolo che viene. (entra Guglielmo)
Piet. Per me è come bere e mangiare il vedere un villano. Sull’onor mio, noi che abbiamo buon senso, abbiam gran conti da rendere. Facciamoci beffe di lui.
Gugl. Buona sera, Andrey.
And. Dio a voi pure la conceda, Guglielmo.
Gugl. E buona sera a voi anche, signore.
Piet. Buona sera, amico: cuopriti il capo, te ne prego. Che età hai tu?
Gugl. Venticinque anni, signore.
Piet. È un’età matura. È Guglielmo il tuo nome?
Gugl. Guglielmo.
Piet. Un bel nome! Sei nato in questa foresta?
Gugl. Sì, e ne ringrazio Iddio.
Piet. Ben risposto. Sei ricco?
Gugl. Sì.
Piet. Hai buon senso?
Gugl. Abbastanza.
Piet. Tu rispondi a meraviglia, ma mi fai ricordare un proverbio: il pazzo si crede saggio, ma il saggio sa che non è che pazzo. Il filosofo pagano, allorchè aveva volontà di mangiare, apriva le labbra, e ponendosi il cibo in bocca, ci dava a intendere come il cibo era fatto per esser mangiato e le labbra per aprirsi. Voi amate questa fanciulla?
Gugl. L’amo, signore.
Piet. Datemi la vostra mano. Siete dotto?
Gugl. No, signore.
Piet. Ebbene, apprendete da me, che avere, vuol dire avere. Un liquido versato da una tazza in un bicchiere (è una figura rettorìca) riempiendo l’uno, vuota l’altra. Tutti i vostri scrittori son d’accordo che ipse è lui; ora voi non siete ipse, perchè lo sono io.
Gugl. Chi siete, signore?
Piet. Lui, la terza persona che deve sposare questa fanciulla: perciò, villico, deponi ogni idea che potessi avere su di lei, o apparecchiati a morire, perch’io ti ucciderò, o se meglio ti piace, ti congederò da questo mondo: tradurrò la tua vita in morte, la tua libertà in ischiavitù, mi farò tuo avversario, e con politica e astuzia ti metterò in brani.
And. Vattene, buon Guglielmo.
Gugl. Dio vi tenga allegro, signore. (esce; entra Corino)
Cor. Il padrone e la padrona vi cercano: andiamo, andiamo.
Piet. Cammina, Andrey, cammina; ti seguo. (escono)
SCENA II.
La stessa.
Entrano Orlando e Oliviero.
Orl, È possibile, che conoscendola appena voi vi siate così di subito innamorato di lei, che le abbiate fatta una dichiarazione e che la vogliate per sposa?
Ol. Non mi parlate dell’ebbrezza di questa subitanea passione dell’indigenza della mia amante, della mia dichiarazione focosa e del suo consenso: ma dite con me ch’io amo Aliena, dite con lei ch’ella mi ama; acconsentite alla nostra unione, sarà un gran bene per voi, perocchè la casa di mio padre e tutte le sue terre a voi toccheranno ed io vivrò qui e morirò semplice pastore. (entra Rosalinda)
Orl Il mio consenso l’avete: si facciano dimani le vostre nozze. Ad esse interverrà il duca e tutta la sua Corte; ite, e disponete Aliena. Ecco la mia Rosalinda.
Ros. Dio vi conservi, degno fratello.
Orl. E voi, anche, amabile sorella.
Ros. Oh mio caro Orlando! quanto soffro di vedervi così ferito.
Orl È una scalfitura ad un braccio.
Ros. Crederò che il vostro cuore fosse stato ferito dai denti della leonessa.
Orl. Ei fu ferito, ma dagli occhi di una donna.
Ros. Vostro fratello vi ha egli detto com’io ricevei quella vostra pezzuola?
Orl. Sì, e altri prodigi ancora più meravigliosi mi descrisse.
Ros. Ah! intendo quello che volete dire... infatti è vero. Non vi fu mai nulla di più rapido, se se ne toglie la iattanza di Cesare, venni, vidi, vinsi. Imperocchè vostro fratello e mia sorella non si sono appena veduti, che si sono amati; non appena amati, che han sospirato mutuamente; non appena sospirato, che se ne son chiesta l’uno coll’altro la causa: non appena saputa la causa, che han cercato il rimedio, e in questa celere gradazione han fatta una scala di matrimonio, su di cui bisogna che salgano incontanente, se non si vuole che incontinenti divengano. Son davvero innamorati, e bisogna che si sposino.
Orl. Si sposeran dimani, e inviterò il duca alle nozze. Ma oimè, quanto è amaro il non veder la felicità che per gli occhi altrui! Dimani quanto più crederò mio fratello felice pel possedimento dell’oggetto dei suoi desiderii, tanto più la tristezza del mio cuore sarà profonda.
Ros. Che! Non potrò io dimani compier con voi le parti di Rosalinda?
Orl. No, non posso più pascermi d’illusioni.
Ros. Ebbene, non vi stancherò con vani discorsi. Sappiate dunque (e ora parlo da senno) ch’io so che voi siete un cavaliere del più gran merito. Non lo dico per adularvi, ma per esporvi semplicemente quello che penso. Ora vi sia noto che dall’età dei tre anni io ho avuto commercio con un mago sagacissimo nella sua arte, sebbene non però tanto da esserne dannato, e se il vostro amore per Rosalinda è sincero, come volete far credere, io vi prometto che voi la sposerete, nel momento medesimo in cui vostro fratello sposerà Aliena. So a quali estremi la fortuna ha ridotta Rosalinda, e non mi è impossibile, se questo vi piace, di farla comparir dinanzi ai vostri occhi, ella stessa in persona, e senza alcun prestigio di magìa.
Orl. Parlate voi il linguaggio della ragione?
Ros. Sì, lo giuro sulla mia vita, a cui sono assai affezionato: mettetevi dunque le vostre più belle vesti, invitate i vostri amici, perchè se volete sposar Rosalinda, dimani potrete farlo (entrano Silvio e Febèa) Guardate: ecco una pastorella che mi ama, ed un uomo che ama lei.
Feb. Giovine, voi vi siete mal comportato con me, mostrando la lettera che vi avevo scritta.
Ros. Se ho fatto male, non me ne curo. Mio disegno è di mostrarmi sdegnoso e senza riguardi per voi; avete dietro a voi un pastor fedele; rivolgete a lui i vostri occhi ed amatelo, com’egli vi ama.
Feb. Buon pastore, spiega a questo giovine che cosa è amare.
Sil. Amare, è un essere sempre pieno di lagrime e di sospiri, e tale io sono per Febèa.
Feb. Ed io per Ganimede.
Orl. Ed io per Rosalinda.
Ros. Ed io per nessuna femmina.
Sil. Amare, è un esser pieno di fede e di devozione, com’io son per Febèa.
Feb. Ed io per Ganimede.
Orl. Ed io per Rosalinda.
Ros. Ed io per nessuna femmina.
Sil. È un credere a tutte le illusioni, un sentirsi avvampante di passione e di desiderii; è un essere tutto adorazione, rispetto e obbedienza, umiltà, pazienza e disinteresse, e tale io sono per Febèa.
Feb. Ed io per Ganimede.
Orl. Ed io per Rosalinda.
Ros. Ed io per nessuna femmina.
Feb. (a Ros.) Se questo è, perchè mi biasimate se vi amo?
Sil. (a Feb.) Se questo è, perchè mi biasimate di amarvi?
Orl. Se questo è, perchè mi riprendete se vi voglio bene?
Ros. A chi indirizzate voi queste parole?
Orl. A quella, oimè! che non è qui e che non mi ascolta.
Ros. Di grazia, non parlate più di ciò; è un gettar i detti, come i lupi d’Irlanda gettano i loro ringhi feroci. Voglio aiutarvi (a Sil.) se posso: vorrei amarvi (a Feb.) se sapessi. — Dimani venitemi a trovare tutti insieme. — Io vi sposerò, (a Feb.) se pure sposerò una donna, e dimani mi farò sposo: vi appagherò (a Orl.) se mai appagherò un uomo, e dimani voi sarete ammogliato: io vi contenterò, (a Sil.) se quello che vi piace vi contenta, e dimani sarete consorte. — Se amate Rosalinda, (a Orl.) venite a trovarmi dimani: se amate Febèa, (a Sil.) voi pure venite. E quant’è vero che non amo alcuna donna, ogni cosa che vi ho promessa adempirò. — Addio, intanto; io mi sono esplicato.
Sil. Non mancherò al ritrovo.
Feb. Nè io.
Orl. Nè io. (escono)
SCENA III.
La stessa.
Entrano Pietra-del-paragone e Andrey.
Piet. Dimani è il felice giorno, Andrey, dimani saremo sposi.
And. Lo desidero con tutto il cuore, e credo sia desiderio onesto. Ecco due paggi del duca esiliato. (entrano due Paggi)
1° Pag. Ben trovato, onesto gentiluomo.
Piet. Orazio: sedete, sedete e cantate.
2° Pag. Siamo ai vostri ordini; sedete voi nel mezzo.
1° Pag. Intuoneremo subito, senza prima tossire e dir che siamo infreddati? Senza usare le formole d’uso?
2° Pag. Sì, sì, e canterem tutti in un tuono, come molti zingani vanno sopra un medesimo cavallo.
Canzone.
I. Fu un amante colla sua amata, che nella bella stagione di primavera, in quella stagione dell’amore e dei canti venne ad assidersi sopra un verde prato.
II. Sui fiori novellamente dischiusi, quella coppia fedele riposò, godendo le dolcezze che l’amore serba ai suoi cari.
III. Ma l’ora del gaudio è breve, la vita è onda che scorre: profittate della bella stagione della giovinezza e della primavera, e vivete del passato, quando il presente vi sarà fatto arido.
IV. Profittate dei giorni che la sorte vi concede, coronatevi di ghirlande, intrecciate liete danze: la vita è breve, e la vecchiaia ne è sopra: oggi l’amore, dimani i vermi del sepolcro.
Piet. Davvero, giovani, è una leggiadra canzone, ma è troppo lugubre. Andiamo a rinfrescarci la gola, dopo tanto sciupio di voce. (escono)
SCENA IV.
Un’altra parte della foresta..
Entrano il Duca esiliato, Amiens, Giacomo, Orlando, Oliviero e Celia.
Duc. Credete voi, Orlando, che quel giovine possa fare tutto quello che ha promesso?
Orl Ora lo credo, ed ora no, come tutti quelli che temono sperando, e che temendo sperano. (entrano Rosalinda, Silvio e Febèa)
Ros. Anche un po’ di pazienza finchè tutto sia apparecchiato. Voi dite ch’io vi presenti la vostra Rosalinda (al Duca) perchè ne facciate dono ad Orlando?
Duc. Sì, gliene darei quand’anche avesse molti regni in dote.
Ros. E voi (a Orl.) giurate che accetterete la di lei mano, tostochè io ve la presenterò?
Orl. Sì, foss’io il re di tutta la terra.
Ros. (a Feb.) Voi mi sposerete s’io v’acconsento?
Feb. Sì, ove pur dovessi morire un’ora dopo.
Ros. E se mi rifiutate, darete la vostra mano a questo pastore fedele?
Feb. È tale il patto.
Ros. (a Sil.) Vi unirete a Febèa, se ella vuole acconsentirvi?
Sil. Sì, quand’anche l’istante di possederla e quello di morire non fossero che uno solo.
Ros. Ho promesso d’appianare tutte queste difficoltà. Duca, pensate a mantenere la promessa di dar vostra figlia, e voi. Orlando, quella di accettarla. Mantenete la vostra, Febèa, di sposarmi, rifiutandomi, di unirvi a questo pastore; e voi, Silvio, quella di aderire a tale unione. Vi lascio un istante, per preparare la soluzione di tutti questi problemi. (esce con Cel.)
Duc. La mia memoria mi fa trovare in quel giovine alcuni lineamenti del volto di mia figlia.
Orl. Signore, la prima volta che l’ho veduto, ho creduto che fosse un fratello di vostra figlia, ma è invece nato in questi boschi, è stato istruito nei segreti di molte scienze profonde e pericolose da un suo zio, ch’ei dice essere un gran mago, e che par vivesse in questa foresta. (entrano Pietra-del-paragone e Andrey)
Giac. V’è certo un secondo diluvio per aria, e questa è una nuova coppia che accorre sotto l’arca. Ecco un altro paio di strani animali, che sarebber chiamati pazzi in ogni lingua.
Piet. Salute a tutti.
Giac. Mio buon signore, accoglietelo bene, (al Duc.) che egli è quello spirito balzano che ho sì spesso trovato per la foresta: e giura che è stato un tempo uomo di Corte.
Piet. Se qualcuno ne dubita, mi assogetti alla prova. Ho danzato in cadenza, ho ingannato una donna, sono stato bugiardo col mio amico, ho accarezzato il mio avversario, ho fatto fallire tre sarti, ho avute molte contese, e sono stato sul punto di terminarne una colla spada alla mano.
Giac. Come vi piace quest’originale signore?
Duc. Assai.
Piet. Dio voglia ricompensarvene, signore! Desidero che voi pure a me piacciate. Io corsi qui in fretta, signore, in mezzo a tanti sposi, per giurare come il matrimonio l’impone, e spergiurare quando il calor del sangue sarà passato. Una povera giovane, signore, abbastanza deforme, ma con un cuor tutto mio, è la mia sposa; fu un mio capriccio di voler quella appunto, che nissuno aveva voluto. Le virtù albergano come gli avari sotto povere spoglie: e così fa appunto anche la perla della conchìglia.
Duc. Sull’onor mio, il suo spirito è vivo e sentenzioso.
Piet. Esso è simile alla pietra che lancia il pazzo, mio signore.
Giac. Torniamo alla tua contesa. Come seguì essa?
Piet. Presso a poco così. Io disapprovai il modo con cui un certo cortigiano si era tagliata la barba, ed egli mi mandò a dire che se io non trovava la sua barba ben fatta, egli credeva che essa lo fosse benissimo, ed era quella che chiamasi una risposta di Corte. Io gli sostenni ch’essa era mal tagliata, ed ei mi rispose che l’aveva fatta tagliar così, perchè così gli piaceva, risposta caustica. Io insistei, ed egli mi trattò da dissennato, risposta inurbana. Io persistei, ed ei mi smentì, risposta da duellatore. Io mi mantenni fermo, ed egli mi volse le spalle, atto che esige sangue. Fino a questo punto ne andammo, dopo di che seguì la catastrofe.
Giac. Quale fu?
Piet. Sguainammo le spade, le incrociammo, e vistele lunghe del pari, ci siamo separati.
Giac. La conchìusione era degna di tai campioni. (entrano l’Imeneo conducente per mano Rosalinda in abiti da donna e Celia. S’ode una musica dolce)
Im. Il Cielo è in allegria, quando la tenerezza e la pace uniscono gli uomini. — Buon duca, accogli la figlia tua, e dimenticando la tua patria, gusta con lei giorni sereni. L’Imeneo scese dalla volta immortale, per unirla a questo sposo fedele a cui era destinata.
Ros. (al Duc.) A voi mi do, perocchè son vostra: a voi mi do, (a Orl.) perocchè vi appartengo.
Duc. Se i miei occhi non m’ingannano, tu sei mia figlia.
Orl. Se il falso io non discerno, voi siete la mia Rosalinda.
Feb. Se la sua presenza e le sue forme son vere... addio, mio amore.
Ros. (al Duc.) Non avrò più padre, se voi non siete il mio; non avrò più sposo, (a Orl.) se voi il mio non siete, e se mai mi ammoglio, voi (a Feb.) sarete la mia sposa.
Im. Silenzio; vieto a tutti le parole, tocca a me solo lo svolgere il tessuto meraviglioso di questi avvemmenti, onde la verità splenda a tutti gli occhi, e si avveri il sogno della vostra felicità. Se la mia arte divina non è una menzogna, quattro coppie qui allaccieranno le loro mani, per unire sotto le mie leggi i loro cuori e il loro destino. Voi sarete inseparabili, (a Orl. e Ros.) Voi due non formerete più che uno, (a Ol. e Cel.) tu volgerai in miglior parte (a Feb.) i tuoi affetti, o quella felicità avrai solo che può darti una donna. Per quella legge che marita l’inverno alla tempesta, voi dovete essere uniti insieme, (a Piet. e And.) per un gran numero d’anni.
Intanto che noi cantiamo l’inno del matrimonio, alimentate con parole i vostri desiderii curiosi: così la verità svolgerà ai vostri occhi la tela che fu ordita nell’Empireo, dimora celeste.
Canzone.
Il matrimonio è la corona che l’augusta Giuno concede agli amanti virtuosi. Dolci accordi i vincoli fortunati da cui giorno e notte sono strette due anime amanti. Il Dio d’Imene? il Dio delle città; egli empie anche i deserti e li popola; sparge a larga mano le più belle e le più caste gioie.
Duc. Oh! mia cara nipote, con qual piacere io ti riveggo. No, tu non mi sei meno cara della mia figlia stessa.
Feb. (a Sil.) Non verrò meno alla mia parola; fin da ora tu sei mio; eccoti la mia mano, e con essa la mia fedeltà. (entra James de Bois)
Jam. Vogliate concedermi udienza un istante. Io sono il secondo figlio del vecchio cavalier Rowland, ed ecco le notizie che reco a quest’illustre brigata. Il duca Federico stanco di intendere dir tutti i giorni quante persone cospicue venivano a questa foresta, levò un grande esercito, e marciò alla testa delle sue schiere, risoluto d’impadronirsi di suo fratello e di farlo morire. Già già egli toccava alla cinta di questo bosco selvaggio, ma là gli fu incontro un vecchio e santo eremita, che dopo alcune conferenze lo fe’ rinunziare alla sua opera ed anche al mondo. Il duca abdicò immantinente, lasciando la sua corona al fratello che aveva bandito, e restituendo a quelli che l’avevan seguitato nel suo esilio tutti i loro possedimenti. Sto garante colla mia vita della verità di questo racconto.
Duc. Siate il benvenuto, giovine. Voi offrite un bel presente di nozze ai vostri due fratelli: all’uno il patrimonio di cui era stato spogliato, all’altro una terra immensa, una potente duchéa. Ma prima compiamo in questa foresta l’opera che vi avevamo così felicemente iniziata, e poscia ognuno dei felici compagni del nostro bando, che passarono qui con noi tanti tristi giorni e tante notti anche più triste, staranno a parte delle fortune che su di noi ricadono, secondo il merito loro e la loro condizione. Dimentichiamo per ora questa nostra insperata ventura, e abbandoniamoci ai nostri rustici solazzi. — Suonate, musici. E voi, sposi e spose di questo dì, accompagnate i loro suoni con movimenti ispirati dalla gioia.
Giac. Signore, con vostra licenza... S’io vi ho ben inteso, il duca ha abbracciata la vita claustrale, abiurando il fasto delle Corti?
Jam. Così ha fatto.
Giac. Voglio andarlo a trovare. V’è molto da apprendere da questa specie di convertiti. Vi lascio (al Duc.) le vostre antiche dignità; la vostra pazienze e le vostre virtù le meritano. A voi (a Orl.) lascio l’amore che è dovuto alla vostra fede sincera. A voi (a Ol.) rimetto le vostre terre, la tenerezza di una sposa e parenti illustri. A voi (a Sil.) confido le gioie del matrimonio lungo tempo desiderate. E a te, (a Piet.) abbandono le contese di un mal assortito nodo che solo per pazzia hai contratto. Così datevi tutti in preda alle vostre inclinazioni; a me piaceri migliori occorrono, che non son quelli delle nozze.
Duc. Fermati, Giacomo, rimani con noi.
Giac. Non posso restare per assistere a frivoli diporti: a che rimarrei? Che altro potrei più qui apprendere? (esce)
Duc. (ai Mus.) Continuate, continuate: i vostri suoni fan palpitare di gioia i nostri cuori, nè questa gioia speriamo sarà per cessare. (danza)
epilogo.
Ros. Non suol essere il costume di vedere una signora a recitar l’epilogo, ma ciò non è disdicevole di più che nol sia l’udire un prologo recitato da un uomo. Se il proverbio è vero, che il buon vino non ha bisogno d’insegna, è egualmente vero, che un buon dramma non ha uopo d’epilogo. Nondimeno si annunzia il buon vino con insegne splendide, e i buoni drammi sembrano anche migliori col soccorso di epiloghi eloquenti. In quale stato mi trovo io dunque posta, se un buon epilogo non sono, e se non posso rendervi indulgenti per un buon dramma? Vestita non son da mendica, nè mi si addice il supplicarvi; il solo partito che mi resta è di imporvi coll’autorità di un incantatore. Donne, io vi comando, per l’amore che portate agli uomini, di approvare in questo dramma tutto quello che ad essi piace: e a voi, uomini, ingiungo in nome dell’amore che portate alle donne (avvegnachè mi avveggo dal vostro sorriso che niuno di voi le odia) d’approvare di questo dramma quello che piace alle dame, talchè esso non sia almeno fra di voi fornite di discordie. S’io fossi una donna1 abbraccierei tutti quelli fra di voi che avessero barbe di mio gusto, fisonomie che mi allettassero, e aliti puri; e son certo che coloro fra di voi che han belle barbe, liete faccie e dolci aliti, non rifiuterebbero per riconoscenza del mio cortese desiderio di volgermi un grazioso addio, quando io loro mi inchinassi. (escono)
fine del dramma
e del settimo ed ultimo volume.
- ↑ Ai tempi di Shakspeare le parti delle donne in teatro si compievano dai giovinetti.