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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto ottavo
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C A N T O VIII.
1Io dico seguitando, ch’assai prima,
Che noi fossimo a piè dell’alta torre,
Li occhi nostri n’andar suso alla cima
4Per due fiammette che i vedemmo porre,1
Et un’altra da lunge render cenno,
Tanto ch’a pena il potea l’occhio torre.
7Et io mi volsi al mar di tutto il senno;
Dissi Questo che dice? e che risponde
Quell’altro foco? e chi son quei che il fenno?
10Et elli a me: Su per le sucide onde
Già puoi scorger quello che s’aspetta,
Se il fummo del pantan non tel nasconde.2
13Corda non pinse mai da sè saetta,
Che sì corresse via per l’aere snella,
Com’io vidi una nave piccioletta
16Venir per l’acqua verso noi in quella,
Sotto il governo d’un sol galeoto,3
Che gridava: Or se’ giunta, anima fella?4
19Flegias, Flegias, tu gridi a voto,
Disse lo mio Signore, a questa volta:
Più non ci avrai, che sol passando il loto.
22Quale colui, che grande inganno ascolta
Che li sia fatto, e poi se ne rammarca,
Fecesi Flegias nell’ira accolta.
25Lo Duca mio discese nella barca,
E poi mi fece entrare appresso lui,
E sol, quand’io fui dentro, parve carca.
28Tosto che il Duca, et io nel legno fui,
Secando se ne va l’antica prora
Dell’acqua più, che non suol con altrui.
31Mentre noi corravam la morta gora,
Dinanzi mi si fece un pien di fango,
E disse: Chi se’ tu che vieni anzi ora?
34Et io a lui: S’io vegno, io non rimango;
Ma tu chi se', che sì se’ fatto brutto?
Rispose: Vedi, che son un che piango.
37Et io a lui: Con piangere e con lutto,
Spirito maledetto, ti rimani:
Ch’io ti conosco, ancor sia lordo tutto.5
40Allora stese al legno ambo le mani;
Perchè il Maestro accorto lo sospinse,
Dicendo: Via costà con li altri cani.
43Lo collo poi con le braccia m’avvinse:6
Baciommi il volto e disse: Alma sdegnosa,
Benedetta colei, che in te si cinse.
46Questi fu 7 al mondo persona orgogliosa:
Bontà non è, che sua memoria fregi:
Così se l’ombra sua qui furiosa.
49Quanti si tegnon or lassù gran regi,
Che qui staranno come porci in brago,
Di sè lasciando orribili dispregi!
52Et io: Maestro, molto sarei vago
Di vederlo attuffare in questa broda,
Prima che noi uscissimo del lago.
55Et elli a me: Avanti che la proda8
Ti si lasci veder, tu sarai sazio;
Di tal disio converrà, che tu goda.
58Dopo ciò poco vid’io quello strazio
Far di costui alle fangose genti,
Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio.
61Tutti gridavan: A Filippo Argenti;
E il Fiorentino spirito bizzarro
In sè medesmo si volgea coi denti.9
64Quivi il lasciamo, che più non ne narro;
Ma nell’orecchie mi percosse un duolo,
Per ch’io avanti l’occhio intento sbarro.10
67Lo buon Maestro disse: Omai figliuolo,
S’appressa la città, ch’ à nome Dite,
Coi gravi cittadin, col grande stuolo.
70Et io: Maestro, già le sue meschite
Là entro certo nella valle cerno
Vermiglie, come se di fuoco uscite
73Fossero; et el mi disse: Il foco eterno,
Ch’entro le affoca, le dimostra rosse,
Come tu vedi in questo basso inferno.
76Noi pur giugnemmo dentro all’alte fosse,
Che vallan quella terra sconsolata:
Le mura mi parean che ferro fosse.
79Non sanza prima far grande aggirata,11
Venimmo in parte, dove il nocchier, forte,
Usciteci, gridò: qui è l’entrata.
82Io vidi più di mille in su le porte
Da ciel piovuti, che stizzosamente
Dicean: Chi è costui, che sanza morte
85Va per lo regno della morta gente?
E il savio mio Maestro fece segno
Di voler lor parlar segretamente.
88Allor chiusono un poco il gran disdegno,
E disser: Vien tu solo, e quei sen vada,
Che sì ardito entrò per questo regno.12
91Sol si ritorni per la folle strada;
Pruovi, se sa: chè tu qui rimarrai,
Che li ài scorta sì buia contrada.13
94Pensa, Lettore, se io mi sconfortai
Nel suon delle parole maladette,
Ch’io non credetti ritornarci mai.
97O caro Duca mio, che più di sette
Volte m’ài sicurtà renduta, e tratto14
D'altro periglio, che in contra mi stette,15
100Non mi lasciar, diss’io, così disfatto:16
E se il passar più oltre c’è negato,
Ritroviam l'orme nostre insieme ratto.17
103E quel Signor, che lì m’avea menato,
Mi disse: Non temer, che il nostro passo
Non ci può torre alcun: da tal n’è dato.
106Ma qui m'attendi, e lo spirito lasso
Conforta e ciba di speranza bona,
Ch’io non ti lascerò nel mondo basso.
109Così sen va, e quivi m’abbandona
Lo dolce Padre, et io rimango in forse:18
Che il no, e il sì nel capo mi tenciona.19
112Udir non potei quel ch’ a lor si porse;
Ma el non stette là con essi guari,
Che ciascun dentro a pruova si ricorse.
115Chiuser le porti quei nostri avversari
Nel petto al mio Signor, che fuor rimase:
Ei si rivolse a me con passi rari.20
118Li occhi alla terra, e le ciglia avea rase
D’ogni baldanza, e dicea nei sospiri:21
Chi m’à negate le dolenti case?
121Et a me disse: Tu, perch’io m’adiri,
Non sbigottir, ch’io vincerò la prova,
Qual ch’alla difension dentro s’aggiri.
124Questa lor tracotanza non è nova,
Che già l’usaro a men secreta porta,
La qual sanza serrame ancor si trova.
127Sopr'essa vedestù la scritta morta:22
E già di qua da lei discende l’erta,
Passando per li cerchi sanza scorta
130Tal, che per lui ne fia la porta aperta.
- ↑ v. 4. i vedemmo. I per quivi è un troncamento del latino ibi. E.
- ↑ v. 12. nol ti nasconde.
- ↑ v. 17. Galeoto con un solo t, non per cagione di rima; sì per imitazione de’ Trovatori che aveano pure galiot. E.
- ↑ v. 18. C. M. Gridando: Or se’ tu giunta,
- ↑ v. 39. C. M. ancor sii lordo
- ↑ v. 43. C. M. poi che le
- ↑ v. 46. Quei fu
- ↑ v. 55. C. M. Innanti che
- ↑ v. 63. C. M. si mordea coi denti.
- ↑ v. 66. C. M. intento gli occhi sbarro.
- ↑ v. 79. Aggirata per giro, come imperiato per imperio, usato per uso e via dicendo. Ennio adoperò occasus per occasio. E.
- ↑ v. 90. Che sì sicuro
- ↑ v. 93. Nidobeato legge «Che scorto l’ài per sì buia contrada» Allora scorto è participio accorciato da scortato, come cerco, trovo, per cercato, trovato. E.
- ↑ v. 98. C. M. sigurtà
- ↑ v. 99. D’alto periglio,
- ↑ v. 100. Disfatto vale rovinato, perduto. E.
- ↑ v. 102. C. M. Ritorniam l’ombre nostre
- ↑ v. 110. C. M. rimasi in forse:
- ↑ v. 111. tenciona. Per l’amistà, che ànno tra loro il c e la z, facilmente si scambiano. Quindi si usa ospicio, officio, mercè, per ospizio, offizio, merzè e via dicendo. E.
- ↑ v. 117. E rivolsesi
- ↑ v. 119. C. M. D’ogni baldezza,
- ↑ v. 127. Vedestù; vedesti tu, incorporato il nome personale e sottratte alcune lettere, al modo che i Latini dicevano viden per videsne ed altrettali. E.
C O M M E N T O
Io dico ec. In questo ottavo canto l’autore seguita la materia cominciata; cioè del quinto cerchio ove à posti l’irosi e li accidiosi, e pone come pervenne alla città che à nome Dite; e dividesi questo canto principalmente in due parti: imperciò che prima compie la narrazione del v cerchio; nella seconda entra già a narrare delle
cose che sentie del sesto cerchio, quivi: Lo buon Maestro ec. Questa prima, ove si tratta del quinto cerchio, che sarà la prima lezione, si divide in viiii parti: imperò prima pone come vidono porre in su quella torre alla quale pervennono, innanzi che vi pervenissono, due fiamme; nella seconda, la domanda che perciò fece a Virgilio, quivi: Et io mi volsi ec.; nella terza, la risposta di Virgilio, come
venne la nave, e quel che Flegias disse, quivi: Corda non pinse ec.; nella quarta, la risposta di Virgilio a Flegias, quivi: Flegias, Flegias ec.; nella quinta narra come introrono 1 nella nave, e navicarono, quivi: Lo Duca mio ec.; nella sesta pone come trovarono in
quella palude, che navicarono, uno suo Fiorentino che il volle impedire, e quel che li rispose, quivi: Mentre noi corravam ec.; nella settima, quel che Virgilio fece poi a Dante, quivi: Lo collo poi ec.; nella ottava manifesta Dante la sua intenzione a Virgilio, e desiderio, e la risposta di Virgilio, quivi: Et io: Maestro ec.; nella nona pone quello che poi vide fare del suo Fiorentino, quivi: Dopo ciò poco ec. Divisa dunque la lezione, è ora da vedere la sentenzia litterale, la quale è questa.
Dice che innanzi che giugnessono a piè dell’alta torre, della quale già è detto, vidono porre due fiammette in su la detta torre; e una in su una torre da lungi, che a pena si potea vedere rendere cenno. Ond’elli domandò Virgilio, quello che significava, e chi lo faceva; e Virgilio li rispose che su per l’acqua del palude potea vedere la cagione, se il fummo non lo impacciava. E mentre che Virgilio dicea così a Dante, venne la navicella con uno demonio, ch’elli chiama Flegias, più tosto che una saetta non n’è pinta dal balestro, e gridò Flegias a Dante: Or se’ vinta 2, anima fella! Onde Virgilio li rispuose: Flegias, tu gridi a voto, tu non ci avrai se non tanto, quanto passeremo il loto; e per questo rimanendo Flegias cruccioso e lamentevole, Virgilio scese nella barca prima, et appresso Dante, et allora parve carica pur di Dante, e prese più dell’acqua che non solea con li altri, perchè Dante era col corpo. E mentre che navicavano, dice che si fece dinanzi a Dante uno pieno di fango, e domandò Dante: Chi se’ tu, che vieni innanzi ora? Onde Dante li rispose: S’io vengo, io non rimango; ma tu chi se’ che se’ si brutto? Et elli rispose: Son un che piango. Onde Dante li disse: E tu rimani con pianto, e con lutto, spirito maladetto: chè io ti conosco, avvegna che tu sia tutto brutto. E quello spirito allora stese le mani al legno per affondarlo, et allora Virgilio accorto, lo spinse e disse: Via costà con li altri cani; e poi si rivolse a Dante et abbracciollo, e baciollo, dicendo: Benedetta tua madre, che in te si cinse, o anima sdegnosa: sappi che costui fu orgoglioso al mondo sanza bontà, e così è qui l’ombra sua furiosa: molti sono grandi regi che staranno qui in questo fango come porci, lasciando di sè mala fama! Allora Dante, disse a Virgilio, che avea grande desiderio di vederlo attuffare in quel fango; e Virgilio disse, che di questo desiderio sarebbe sazio. E poco stando, vide fare quello strazio di costui a quelle genti fangose, che ancora ne ringrazia Idio; e tutti erano contro a lui, e gridavano: A Filippo Argenti, spirito bizzarro; et elli sè medesimo rodea coi denti. E qui dice che lo lasciarono; ma poi dice ch’elli udì un duolo, per lo quale elli intento, incominciò a guardare innanzi se vedesse la cagione di quello. E qui finisce la sentenzia litterale, ora è da
esporre il testo con le allegorie.
C. VIII — v. 4-6. In questi due ternari lo nostro autore pone quello che dice che vide, innanzi che pervenissono alla torre alla quale all’ultimo venne, dicendo: Io; cioè Dante, dico seguitando; il processo del cammino, ch'assai prima; cioè di buon pezzo innanzi, Che noi; cioè Virgilio et io Dante, fossimo a piè dell'alta torre; della quale feci menzione di sopra, cap. vii, Li occhi nostri; cioè i miei, e di Virgilio, n'andar suso alla cima; cioè della detta torre, Per due fiammette che i vedemmo porre; cioè in su la detta torre, per li demoni che vi stavano a guardia: e per quel modo significavano a quelli della città di Dite, quanti erano coloro che venivano: però che tante fiaccole ponevano, quanti erano coloro che venivano, come si dà tocchi di campane alle castella di guardia, quando vegnono cavalieri. Et un'altra da lunge render cenno; cioè rispondere della città 3 Dite a quelle fiammette, Tanto ch’a pena il potea l’occhio torre; cioè scorgere. E così finge l'autore che tra’ demoni fosse ordine e concordia a conservare la loro mansione, per insegnare moralmente che non che tra’ buoni; ma eziandio tra’ rei, conviene essere concordia a conservazione, come appare nelle compagnie di genti d’arme. Onde disse Cristo nell’Evangelio: Omne regnum in seipsum divisum desolabitur, et domus supra domum cadet ec.
C. VIII - v. 7-12. In questi due ternari lo nostro autore pone come Dante maravigliandosi de’ cenni veduti, domanda la cagione a Virgilio, e come Virgilio a ciò li risponde, dicendo: Et io; cioè Dante, mi volsi al mar di tutto il senno; cioè a Virgilio, parlando iperbolice; cioè superlativamente, che è colore retorico che si fa quando l’uomo vuol mostrare assai la cosa, dicene vie più che non è. Ma veramente assai fu grande mare di sapienzia l’opera di Virgilio, come appare a coloro che la ragguardano sottilmente. Dissi; a Virgilio: Questo che dice; che fa due fiammette? e che risponde Quell’altro foco; che si fa nella città? e chi son quei che il fenno; cioè l’uno e l’altro fuoco della torre, alla quale erano venuti, e di quella della città? Et elli; cioè Virgilio, disse, a me; cioè Dante: Su per le sucide onde; della palude Stige, Già puoi scorger quello che s’aspetta; cioè puoi vedere la navicella che viene e che noi aspettiamo, per la quale sono stati fatti questi fuochi; cioè questi due delle torre che è qui, a significare a quelli della città, che mandassono qua la navicella per due; e però fece due fuochi, e quello della città ne fece uno, a dimostrare che il cenno era venuto, e che la navicella veniva, Se il fummo del pantan non tel nasconde; la navicella che viene. Litteralmente dice convenientemente che, di tal palude finge sempre uscir fummo: imperò che di quelli del mondo addiviene lo simile. Ma allegoricamente vuol dire, se l’umbrazione dell’intelletto non t’impaccia, che procede alcuna volta da ira, alcuna volta da tristizia d’animo, nelle quale conviene l’uomo essere, quando di quelle considera, trattandone e scrivendone. La fizione delle torri, e delle fiaccole è litterale tutta, per dare verisimilitudine al passamento di Dante e di Virgilio.
C. VIII — v. 13-18. In questi due ternari l’autor nostro facendo una similitudine, dimostra come dicendo Virgilio quel che è detto di sopra, subitamente li si manifestò quello che per l’acqua venia; onde dice: Corda; cioè d’arco, o di balestro, non pinse mai da sè saetta; quando si lascia e scocca, Che sì corresse via per l’aere snella; cioè leggiere, assettata e ritta, sanza torcere in qua, o in là; ma andare ritta con foga, Com’io; cioè Dante, vidi una nave piccioletta Venir per l'acqua verso noi in quella; cioè in quel mezzo che Virgilio dicea così, come detto è di sopra. Et è qui da notare che allegoricamente l’autore nostro finse qui la prestezza dell’avvenimento della navicella, a mostrare che subitamente vengono li movimenti dell’ira e dell’accidia. E dice piccioletta: imperò che i primi movimenti sono piccoli; ma poi crescono: e questo si dimostra per la montata in su la piccola nave, e poscia per ritrovarsi nel gran pantano. Sotto il governo d’un sol galeoto. Questo era uno demonio che incontanente lo nominerà Flegias, che s’interpetra turbazione di mente: veramente questa è quella che guida la navicella che significa li movimenti dell’ira, e dell’accidia; e secondo la lettera ancora si conviene in tal navicella tale governatore e solo: imperò che a tutti i cerchi passati à posto uno solo demonio, come principe di quel luogo. Che gridava: Or se’ giunta, anima fella? Questo finge Dante che Flegias gridasse inverso lui, anima fella chiamandolo; cioè colpevole, per spaurirlo e farlo rimanere.
C. VIII — v. 19-24. In questi due ternari pone l’autore nostro la risposta che finge che facesse Virgilio a Flegias per lui a quel che disse di sopra, dicendo: Flegias, Flegias. Questo Flegias, secondo che fingono li poeti fu padre di Coronide, la quale Febo vizioe e nacquene Esculapio che fu detto Idio della medicina. E per questo, indegnato Flegias mise fuoco nel tempio di Febo, et arselo; e per questo finge Virgilio che sia nell’inferno, et interpetrasi ira fremente, o vero turbazione di mente; e però lo nostro autore in questo luogo il pone per lo demonio dell’ira, seguendo Virgilio che per lo incendio, che fece mosso dal furore dell’ira, del tempio di Febo, lo pose nell’inferno, ove dice nel vi dell’Eneida: Phlegyasque miserrimus omnes Admonet, et magna testatur voce per umbras: Discite iustitiam moniti, et non temnere Divos. E replica il nome per mostrare maggiore indignazione, et è colore retorico che si chiama conduplicazione, tu gridi a voto; cioè in vano. Disse lo mio Signore; cioè Virgilio, a questa volta. Dice perchè l’altre volte li venia fatto quello, perchè veniva che trovava i peccatori dell’ira, i quali pigliava in su la navicella sua, e poi li attuffava nel pantano chiamato Stige; e quest’è conveniente fizione quanto alla lettera. Et allegoricamente s’intende di quelli del mondo che in su la navicella dell’ira governati sono dalla turbazione della mente e straboccati nella tristizia della mente, e del corpo. Più non ci avrai; cioè me e Dante, che sol passando il loto; cioè se non tanto quanto noi peneremo a passare questa palude, e per questo dà a intendere che non deono rimanere. Et allegoricamente significa che la sensualità, e la ragione di Dante non s’era occupata nell’ira, se non tanto quanto starà in pensamento et in considerazione di quella trattandone, che fia tanto quanto penerà a compiere il suo passamento della palude: imperò che poi tratterà d’altre cose, e poi fa la similitudine, dimostrando come fece Flegias, dicendo: Quale colui che grande inganno ascolta Che li sia fatto, e poi se ne rammarca; cioè lamenta, Fecesi Flegias nell’ira accolta; tale quale si fa colui che ascolta che li sia fatto grande inganno, e poi si lamenta; così si lamentò Flegias reputandosi ingannato di sua intenzione, che si credea aver guadagnati questi due; cioè Virgilio e Dante.
C. VIII - v. 25-30. In questi due ternari l’autor nostro pone lo discendimento loro; cioè di Virgilio, e di sè nella barca di Flegias, che era venuta, come detto fu di sopra; onde dice: Lo Duca mio; cioè Virgilio, ch’ era mia guida, nella barca di Flegias discese; che di sopra chiamò navicella, E poi mi fece entrare appresso lui; cioè poi mi comandò ch’io entrassi in essa dopo sè, e così feci, E sol; cioè solamente, quand’io fui dentro; io Dante, parve carca; cioè caricata: imperò che quando v’entrò Virgilio non aggravò in giù. Questa è conveniente fizione secondo la lettera: imperò che Virgilio era solo spirito, e Dante era col corpo, sì che conveniente cosa è che Virgilio non aggravasse la barca, ma sì Dante; e però questo volle dimostrare allegoricamente intendendo sì di quelli che sono nel mondo, che lo primo impeto dell’ira non è ira piena, e non è peccato perchè non è in nostra podestà di fare che non vegna; et allora si può dire che sia disceso pur Virgilio, che significa la ragione. Veramente la ragione discende della sua dignità, quando si sottomette all’ira; ma quando nell’ira si ferma, allora si può dire che sia carica la barca: imperò che allora è peccato et evvi tutto l’uomo; e però finge che vi sia ancora Dante, che significa la sensualità. E notantemente dice che Virgilio lo fece entrare appresso a sè: imperò che quando la ragione s’inganna giudicando male quel che non è, e però questo 4 si cruccia, tirasi dietro tutti li giudizi de’ sentimenti, sicché a tutti pare da crucciarsi, et allora è carica la barca: imperò che è fatta piena d’ira e di peccato. Tosto che il Duca; cioè Virgilio, et io; cioè Dante, nel legno fui; cioè nella detta navicella, Secando se ne va l'antica prora; cioè l'antica navicella. Benché prora sia la prima parte della nave, qui si piglia per lo tutto, secondo quel colore retorico che si chiama intelletto; e dice antica perchè secondo la lettera intende che fosse fatta infin che fu fatto l’inferno; et allegoricamente intese che fosse antico il peccato dell’ira: imperò che fu infino dal principio della creazione delli angeli, nelli angeli rei quando si ribellarono da Dio. Dell'acqua più, che non suol con altrui; cioè perchè la navicella era più carica, perchè Dante v’era ch’era col corpo, più pigliava della palude Stige che non solea, quando portava solo l’anime. E questa è conveniente fizione, secondo la lettera; e secondo l’allegorico intelletto dimostra, che quanto l’uomo più si dà all’ira, più nella tristizia s’immerge dell’ animo, che è significata per la palude Stige.
C. VIII — v. 31-42. In questi quattro ternari l’autor nostro pone lo impedimento che occorse nel loro navicare, e lo rimedio che Virgilio vi prese, e dice così: Mentre noi; cioè Virgilio et io Dante, corravam5; cioè navicavamo veloci, come chi corre, la morta gora: cioè quella palude Stige, che è acqua morta, e lotoso6 come detto è di sopra, Dinanzi mi si fece; cioè a me Dante, un pien di fango; cioè uno spirito di quelli che si punivano in quel pantano, e però dice pien di fango, perchè finge che fosse tutto fangoso, e lotoso. E disse; a me Dante: Chi se’ tu che vieni anzi ora; cioè innanzi che sia ora di venire, considerato che non se’ ancora morto? Questi che domandò, fìnge Dante, che fosse uno Fiorentino, come si dirà di sotto, il quale credea che Dante fosse menato dalla navicella per essere gittato nella palude, come fìnge l’autore che solesse fare Flegias, delli altri che raccoglieva in su la navicella. Allora Dante rispose: Et io; cioè Dante risposi, s’intende, a lui: S’io vegno, io non rimango; come rimangono li altri che ci vengono. E per questo allegoricamente intende l’autore, che benché molti del mondo vadano in su l’ira, non rimangono: chè se n’escono pentendosi, e confessandosene, e portandone la penitenzia, e questi non sono gittati nella palude Stige. Ma tu chi se’, che sì se’ fatto brutto? Domanda ora Dante per riconoscer lui, e improverandoli la sua bruttura. Veramente brutta cosa è a vedere l’atto dell’iroso. Rispose; quel brutto a me Dante: Vedi, che son un che piango. L’autore rappresenta la condizione dell’iroso, che è impaziente quando s’ode biasimare, come ora costui che Dante dice che è brutto; e non potendosi altrimenti vendicare piagne, e però fìnge che costui rispondesse a quel modo. Et io; cioè Dante dissi, s’intende, a lui; cioè a quello che m’avea così risposto: Con piangere e con lutto, Spirito maledetto, ti rimani; in cotesto pantano, e nella tua bruttura, Ch’io ti conosco; chi tu se’, ancor sia lordo tutto; cioè benché tu sia tutto lordo. Questo finge l’autore per mostrare che, quando l’uomo si mette a considerare le condizioni dell’iroso, se ne turba pigliandone dispiacere. Chi è che consideri saviamente lo peccato e il vizio, che non ne pigli dispiacere? E però in su la nave dell’ira non si navica sanza ira. Allora; cioè quando Dante ebbe così risposto, stese; quello spirito, al legno; cioè alla navicella, ambo le mani; per afferrarlo, e per tirare Dante sotto nella palude. E qui si mostra l’altra condizione dell’iroso, che poi che à oltraggiato con parole, si sforza di oltraggiare con li fatti, crescendo l’ira per le risposte fatte; et allora stende al legno ambo le mani; cioè stende all’ira tutta la sua affezione. Perchè il Maestro; cioè Virgilio, accorto lo sospinse; quello spirito che volle tirare Dante, Dicendo: Via costà con li altri cani; cioè irosi: l’iroso s’assomiglia al cane, com’è detto di sopra nell’altro canto. Et allegoricamente si dimostra qui, in quanto pone lo rimedio di Virgilio, che alcuna volta con forza e fatti, et amari detti si cessano li nocimenti delli irosi, quando li rimedi si fanno dalla ragione che è significata per Virgilio.
C. VIII — v. 43— 51. In questi tre ternari lo nostro autore finge che Virgilio facesse poi festa a sè Dante, e manifestasseli le condizioni di quello peccatore, dicendo: Lo collo; cioè mio, dice Dante, poi con le braccia; cioè sue di Virgilio, m’avvinse; cioè legò a me Dante; cioè abbracciommi il collo: Baciommi il volto; cioè a me Dante; e disse; Virgilio a me Dante: Alma; cioè anima, sdegnosa; cioè de’ vizi e de’ peccati, Benedetta colei, che in te si cinse; cioè benedetta colei, che ti portò nel suo ventre; cioè la madre tua, che essendo gravida, si cingea in sul suo ventre, ove tu eri, e così si cingea in te. Questi fu al mondo persona orgogliosa; cioè questo peccatore del quale è detto di sopra, fu persona con la mente gonfiata7 e sdegnosa, che a sè attribuiva ogni cosa, e tutti li altri vilipendeva; et è questo grado di superbia, che molti chiamano arroganza. Bontà non è, che sua memoria fregi; cioè adorni; cioè non à veruna fama di bontà: Così se l’ombra sua qui furiosa; cioè irosa, e così è qui l’anima sua, come fu nel mondo. Quanti si tegnon or lassù; cioè nel mondo, gran regi; cioè infiniti e sanza numero, Che qui staranno; cioè in questa palude, come porci in brago; cioè stanno nel loto. Di sè lasciando orribili dispregi; cioè non lasciando di loro, se non cose da essere avute in orrore, et in dispregio! Et è notabile, e qui non à altra esposizione che litterale, se non nella prima parte ove lo autore allegoricamente dimostra che la ragione si rallegra alla sensualità, quando la vede disposta a le virtù, et odiare li vizi.
C. VIII — v. 52-57. In questi due ternari lo nostro autore manifesta lo suo desiderio a Virgilio, e pone la risposta che sopra ciò li fa Virgilio, dicendo: Et io; cioè Dante dissi, s’intende: Maestro; cioè Virgilio, lo qual chiama per diversi nomi, come detto è di sopra cap. ii, molto sarei vago; cioè desideroso, Di vederlo attuffare in questa broda; cioè costui del quale è detto di sopra; e chiama broda la palude8, perch’era piena di loto come broda, Prima che noi uscissimo del lago; cioè della palude che noi navichiamo. Per questo dimostra Dante che dell’iroso ognuno si sdegna, e desiderane vendetta. Et elli; cioè Virgilio disse, s’intende, a me; cioè Dante: Avanti che la proda; cioè l’altra ripa, Ti si lasci veder; cioè innanzi che sia di là, tu sarai sazio; del tuo desiderio, Di tal disio; cioè desiderio, Converrà, che tu goda; cioè che n’abbi adempimento: la mente gode quand’è adempiuto lo suo desiderio.
C. VIII — v. 58-66. In questi tre ternari l’autor nostro finge come lo desiderio suo fu adempiuto, e manifesta chi era costui, e procede più oltre nel suo trattato. Dice adunque: Dopo ciò; che Virgilio detto avea, poco; cioè stando, vid’io; Dante, quello strazio Far di costui alle fangose genti; cioè fare di quello spirito del quale detto è di sopra, delli altri9 ch’erano insieme nel padule. E per questo allegoricamente dimostra l’autore che nel mondo l’uno iroso paga e punisce l’altro, come può esser manifesto a chi ben considera ciò. Che Dio ancor ne lodo e ne ringrazio; dice Dante che ancor al presente ne loda e ne ringrazia Idio10 della sua giustizia. Tutti gridavan; cioè quelle gente fangose: A Filippo Argenti. Qui manifesta l’autore chi fu questo spirito e dice che fu messer Filippo Argenti delli Adimari da Fiorenza, e fu uomo molto arrogante et iroso e diffamato del vizio dell’ira; e fu chiamato Argenti, perchè facea ferrare lo suo cavallo coi ferri d’ariento. E dice l’autore che li altri spiriti gridavano contra costui, e concordavansi11 a gittarli del loto, et attuffarlo, e sommergerlo nel palude. E il Fiorentino spirito bizzaro In sè medesmo, cioè il detto spirito imbizzarrito, e crucciato contro sè medesimo, si volgea12 coi denti. Questo finge l’autore, perchè, secondo la lettera, conveniente cosa è che lo iroso sostegna di quel che à fatto, e come è stato nocivo a sè medesimo nel mondo; così è ancora nell’altro mondo. Ma allegoricamente vuol dimostrare essere questo medesimo nel mondo, che l’uno iroso strazia l’altro, e perchè per rabbia lo iroso in sè medesimo si volge, e si morde, e si straccia. Quivi; cioè nella palude, il lasciamo; cioè Virgilio, et io Dante, che più non ne narro; e così pon fine a questa materia; Ma nell’orecchie; cioè mie, mi percosse un duolo. Ecco che l’autore passa della detta materia ad altra materia dicendo, che sentie dopo le dette cose uno duolo e lamento che li diè cagione di guardarsi innanzi, e però dice: Per ch’io avanti l’occhio intento sbarro; cioè apro per vedere quello che fosse cagione di quel duolo. E qui finisce la lezione prima. Seguita la seconda.
Lo buon Maestro ec. Questa è la seconda lezione del canto, et è la seconda parte principale, ove l’autore finge che pervennono alla città ch’elli chiama Dite. E dividesi questa parte in otto parti: imperò che prima pone quel che Virgilio disse a Dante, e la risposta di Dante; nella seconda, come giunsono alla porta della città Dite, quivi: Noi pur giugnemmo; nella terza, quel che quivi Dante vide, quivi: Io vidi ec. nella quarta, come ricorre a Virgilio, impaurito di quel che vide, quivi: O caro Duca ec.; nella quinta, come Virgilio lo conforta, quivi: E quel Signor ec.; nella sesta, come Virgilio va per prendere rimedio, quivi: Così sen va ec.; nella settima, quel che Virgilio ricevette da’ demoni, e la sua ritornata a Dante, quivi: Chiuser le porti ec.; nell’ottavo13 si pone lo conforto che diede a Dante, quivi; Et a me disse ec. Divisa adunque la lezione, è da vedere la sentenzia litterale la quale è questa.
Poi che Dante si diede a mirare14 innanzi per lo duolo che sentì, Virgilio per dichiararlo di ciò disse: Non ti maravigliare se tu senti duolo: chè si appressa la città chiamata Dite, che à grandi peccatori, e grande moltitudine; onde risponde Dante confermando lo detto suo che già vede le sue sommità nella valle, come campanili e torri fatte a modo sarainesco15 come si convenia a quel luogo, vermiglie come fossono uscite di fuoco: erano roventi. Poi pone come giunsono dentro alle fosse che circundavano la città, e che li parvono le mura di ferro; e girando molto delle mura pervennono alla porta, onde Flegias nocchieri gridò con impeto furiosamente come si conviene all’ira: Usciteci fuor della barca: qui è l’entrata della città; e poi che furono scesi dice l’autore, che vide più di mille dimoni quivi in sulle porti, e stizzosamente diceano: Chi è costui che va per lo regno de’ morti, sanza morte? Onde Virgilio fece loro cenno che con loro volea favellare segretamente. Allora celarono16 il loro grande disdegno, e dissono: Vieni tu solo, e colui se ne vada che entrò17 sì ardito in questo regno; solo si ritorni per la stolta strada per la quale elli è venuto: chè tu rimarrai qui, che l’ài menato per questa buia contrada. Onde Dante cominciò ad avere paura, udendo sì fatte parole temendo di non tornare mai; e però disse a Virgilio: O caro Duca mio, che m’ài renduto sicurtà più di sette volte, non mi lasciare così disfatto; e se non possiamo andare più oltre, torniamo a dietro. E Virgilio rispose: Non temere che il nostro andare non ci può essere tolto: da tale ci è conceduto; cioè da Dio; ma aspettami qui, e confortati con buona speranza: chè io non ti lascerò qui; e così se ne andò et abbandonò Dante, onde Dante rimase in forse del tornare di Virgilio. E dice l’autore che non potè udire quel che dissono; ma non stette molto ch’ellino corsono dentro, e chiusonli la porta nella faccia. E Virgilio allora ritornò a Dante, molto cruccioso et addolorato, dicendo: Chi m'à negato le dolenti case; e disse a Dante: Perch’io mi crucci, non temere tu, ch’io vincerò la pugna, difendansi quantunque possono. Questa loro arroganzia e presunzione non è nuova: chè elli l’usarono ancora dalla prima porta dell’inferno onde tu entrasti, la quale fu aperta per forza et ancora si truova aperta: e sopra quella porta vedesti la scritta di colore oscuro che dice: Per me si va nella città dolente ec. Et ancora ti so dire che già discende l’erta di qua dalla porta, per li cerchi passando uno che ci farà aprire la porta contra loro grado. E qui finisce la sentenzia litterale. Ora è da vedere il testo con l’allegorie, ovvero moralitadi.
C. VIII — v. 67-75. In questi tre ternari lo nostro autore finge che Virgilio li manifestasse la città, la quale di lungi navicando vedeano, et alla quale andavano, dicendo: Lo buon Maestro; cioè Virgilio, disse; cioè a me Dante: Omai; cioè oggimai 18, figliuolo, S’appressa la città, ch'à nome Dite. Et in questo si può dire che l’autore intendesse che quando Virgilio disse nel sesto libro dell’Eneida: Noctes atque dies patet atri janua Ditis, che questo Ditis si ponesse per lo nome della città, e non per lo nome dello Idio infernale, lo quale si chiama in grammatica Pluto, et anco Dis, Ditis, additando perch’elli arricchisse delle nostre morti, come tutti li più delli sponitori di Virgilio vogliono, intendendo per questo nome Ditis, l’inferno. Coi gravi cittadin; questo dice perchè in essa finge l’autore che sieno li gravi peccatori, col grande stuolo; dice perchè in quella città finge che vi sia grande multitudine. Et io: Maestro. Qui risponde l’autore, confermando quel che à detto Virgilio, dicendo: Et io; cioè Dante dissi, s’intende: Maestro; cioè Virgilio, lo quale chiama in più nomi simili e convenienti a lui, come appare nel processo del libro, già le sue meschite; cioè torri, o campanili della città predetta. Meschita è vocabolo sarainesco, et è luogo ove li Saracini vanno ad adorare; e perchè quelli luoghi ànno torri a modo di campanili ove montano li sacerdoti loro a chiamare lo popolo che vada ad adorare Idio, però l’autore chiama le torre di Dite meschite. Là entro certo nella valle cerno; cioè veggio, Vermiglie, come se di fuoco uscite Fossero; cioè come si fossono affocate, et el 19 mi disse; cioè Virgilio: Il foco eterno; dello inferno, Ch’entro le affoca, le dimostra rosse, Come tu; cioè Dante, vedi in questo basso inferno. E puossi intendere che perchè Dante finge che le mura della città Dite erano di ferro, che ancor le torri fossono di ferro, e fossono roventate per lo continuo fuoco che dentro v’è; e sopra questa parte basta 20 la esposizione litterale.
C. VIII — v. 76-81. In questi due ternari finge l’autor nostro come navicando pervennono alla città, dicendo: Noi; cioè Virgilio et io Dante, pur giugnemmo dentro all’alte fosse; cioè profonde, Che vallan; cioè le quali circundano, quella terra sconsolata; cioè Dite, ove non è mai consolazione: Le mura mi parean che ferro fosse; cioè a me Dante parea che le mura della città fossono di ferro. E questa è conveniente fizione che la città, ove si puniscono li ostinati peccatori, abbia le mura di ferro, che significa ostinazione. Et allegoricamente questa città si truova nel mondo, quanto a’ peccatori ostinati che peccano per malizia, e non per incontinenzia come si dimostra di sotto. Non sanza prima far grande aggirata; per le fosse che circuivano la città Dite, Venimmo in parte; Virgilio et io Dante navigando, dove il nocchier; cioè Flegias, forte gridò: Usciteci; cioè della mia nave che v’à qui portati: ben che si conviene a Flegias gridare come ad adiroso 21, et ad arrogante: qui è l’entrata; della città Dite, quasi dicesse: Qui è la porta; e così lo posò e lasciollo presso alla porta, e qui non cade altra esposizione.
C. VIII — v. 82-96. In questi cinque ternari l’autore nostro pone quello che seguitò, poi ch’elli furono usciti della nave, dicendo: Io vidi; cioè io Dante, più di mille in su le porte; della città Dite, Da ciel piovuti; cioè demoni che piovvono dal cielo, quando peccarono contro a Dio, che stizzosamente; cioè crucciosamente, Dicean: Chi è costui, che sanza morte; cioè innanzi che sia morto, Va per lo regno della morta gente; cioè delli infernali che non possono essere se non morti, e di ciò si crucciavano? E il savio mio Maestro; cioè Virgilio, fece segno Di voler lor parlar segretamente; cioè con quelli demoni. Allor chiusono un poco; cioè occultarono 22 e tennon celato, il gran disdegno; che avevano preso, E disser; a Virgilio: Vien tu solo, e quei; cioè Dante, sen vada; cioè se ne vada, Che sì ardito entrò per questo regno; dell’inferno. Sol si ritorni per la folle strada; cioè stolta via. Via stolta è quella che mena l’uomo all’inferno. Pruovi, se sa; cioè faccia esperienza del suo sapere, chè tu qui rimarrai; cioè tu Virgilio, Che li ài scorta; cioè mostrata sì buia contrada; come è questa dell’inferno. L’autor nostro finge verisimilmente essere stati ragionamenti nell’inferno, tra li demoni e Virgilio, per volere impedire il loro andare. Ma allegoricamente intese essere nel mondo questi impedimenti in persona sua, e di Virgilio, et in tutti coloro che si danno a considerare li vizi, e peccati e lor pene, non bruttandosi in essi: imperò che di ciò li demoni si crucciano, che l’uomo sanza morte vada per lo regno della morte; cioè che l’uomo sanza peccato vada per lo regno del peccato con considerazione, non bruttandosi in esso. E di questo non bruttarsi è cagione la ragione significata per Virgilio, che guida la sensualità significata per Dante; e perciò si sforzano di tor via tale guida, a ciò che la sensualità rimanga smarrita nel peccato. E notantemente pone l’autore in questo luogo, che li demoni volessono fare questa separazione, da Virgilio, di Dante, a denotare che la materia de’ peccati de’ quali 23 oggi mai dovea trattare, è quella che occupa la ragione: imperò che dentro alla città Dite si puniscono li peccati che vengono per malizia e bestialità, le quali 24 occupano, et impregionano la ragione; et infino a qui à trattato de’ peccati che procedono per incontinenzia, li quali si puniscono per li cerchi detti dinanzi, nelli quali la ragione non è al tutto occupata. E quanto alla lettera pone quattro modi, che tennono li demoni per istorpiarlo, a dimostrare che questi medesimi modi tengono con li uomini del mondo; in prima quando confortano li uomini al bene acciò che n’esca male, come confortavano che Virgilio venisse solo acciò che Dante scompagnato si rimanesse del buon proposito; lo secondo è quando sotto bene apparente inducono l’uomo a pericolare, come quando diceano che Dante se ne andasse, ch’era entrato sì ardito nell’inferno; lo terzo quando lodano li uomini per farli presumere di sè medesimi, acciò che pericolino; quando dice: Sol si ritorni per la folle strada: Pruovi, se sa; il quarto è quando spauriscono l’uomo per farlo venir meno, quando dice: chè tu qui rimarrai. Seguita poi, come impaurito non credette mai ritornare, onde dice: Pensa, Lettore; che leggi questo canto, se io mi sconfortai; cioè io Dante, Nel suon delle parole maladette; queste parole possono essere tutte le dette di sopra dai demoni, et ancora si può intendere pur di quest’ultime: Chè qui tu rimarrai. Ch’io non credetti ritornarci mai; cioè io Dante non credetti mai ritornare a questa vita del mondo, avendo paura di rimanere nello inferno. Et allegoricamente intende l’autore di mostrare in persona sua, quanto quelli del mondo deono temere che non sia occupata la ragione e la bestialità 25: chè non si ritorna mai, se non è bene special grazia di Dio. E quanto alla lettera dimostra che in alcun modo è più da levare l’uomo dal buono proponimento, che con la paura; e moralmente che chi perde la ragione, che è guida, mai non può compiere cosa d’intelletto che n’abbia onore, come è lo presente poema.
C. VIII — v. 96-102. In questi due ternari l’autor nostro finge come spaurito per quel ch’avea udito, ricorse a Virgilio, dicendo: O caro Duca mio; cioè Virgilio, che più di sette Volte m’ài sicurtà renduta; quasi dica: Molte volte m’ài fatto sicuro, e questo è vero quanto alla lettera, come appare nel poema, che è ito innanzi, quante volte Dante è impaurito, e Virgilio l’à assicurato; et allegoricamente ancora intendendo per Virgilio la ragione, la quale nelle paure conforta l’uomo, e tratto D'altro periglio; cioè cavato d’altro pericolo che non è questo, che incontra mi stette; questo dice per la lupa che li apparve al montar dal monte26 che lo facea rovinare nella valle silvestra, se non che Virgilio li apparve, e quindi lo trasse, come appare di sopra nel primo canto, e l’allegoria fu posta in quel luogo, e però la lascio. Non mi lasciar, diss’io; Dante, così disfatto. Assai rimarrebbe disfatto chi perdesse la guida andando per l’inferno, e questo è quanto alla lettera; ma allegoricamente assai rimane disfatto chi comincia una opera, et elli sia abbandonato dalla ragione che il guida: imperò che non la può recare a perfezione. E se il passar più oltre c’è negato; cioè se non si può andare più oltre, Ritroviam l’orme nostre; cioè le pedate nostre; cioè per la via per la qual siamo venuti in fino a qui, insieme; tu Virgilio, et io Dante, ratto; cioè tostamente, innanzi ch’altro impaccio ci vegna; e questo è quanto alla lettera. Quanto all’allegoria s’intende che se al poeta viene meno lo sapere procedere più oltre nel suo poema, innanzi se ne dee rimanere ch’andar più oltre; e così d’ogni opera, che l’uomo fa in questo mondo, puossi ancora intendere, che quando s’avviene a materia alla quale non possa aggiugnere il suo ingegno, che ritorni a quello che è possibile, e questo è trovare le pedate prime.
C. VIII — v. 103-108. In questi due ternari l’autor nostro pone il conforto che Virgilio diede alla sua paura, dicendo: E quel Signor; cioè Virgilio. E qui si dimostra che Dante per Virgilio intende la ragione: imperò che Sallustio dice: Sed dux atque imperator vitae animus est, qui ec.; e l’animo è quel che usa la ragione, che lì m’avea menato; cioè avea menato quivi me Dante; cioè a quel luogo, Mi disse; cioè a me Dante: Non temer, che il nostro passo Non ci può torre alcun: da tal n’è dato; cioè da Dio ci è conceduto, alla cui potenzia niuno può contrastare. E per questo dimostra che l’altezza dell’ingegno che l’uomo à, è grazia data da Dio specialmente, benchè tutti li beni ancora sieno dati da lui. Ma qui m’attendi; cioè m’aspetta, e lo spirito lasso; cioè stanco, Conforta e ciba di speranza bona; cioè abbi buona speranza, Ch’io non ti lascerò nel mondo basso; cioè in questo inferno, quanto alla lettera; quanto all’allegoria s’intende che la ragion di non lascerebbe la sensualità di Dante in questa vile materia de’ vizi e de’ peccati; ma le conducerà 27 più alto a considerazione delle virtù purgatorie, come apparirà nel processo del poema.
C. VIII — v. 109-114. In questi due ternari l’autor nostro finge quel che seguì dopo lo partimento di Virgilio, dicendo: Così sen va, e quivi m’abbandona Lo dolce Padre; cioè Virgilio, et io; cioè Dante, rimango in forse; cioè in dubbio, Che il no, e il sì nel capo mi tenciona; cioè che l’un pensiere dicea: Ben tornerà, e l’altro dicea: No. Credea del sì, perchè Virgilio li avea promesso; dubitava del no per quel che avean detto li demoni. E qui si può notare che più tormenta l’aspettare, che non farebbe, perchè l’uomo sta in dubbio. Udir non potei quel ch’a lor si porse; cioè io Dante non potei intendere quel che Virgilio disse a quelli demoni; et in questo si scusa l’autore che non pone quello che dicessono: però che non l’udì; ma poeticamente finge questo per dare a pensare a’ lettori. E qui possiamo pensare che Virgilio dicesse loro che Dante venia per grazia concedutali da Dio, e che Idio volea così; ma quelli che sono ostinati in male più che li altri non vollono credere a Virgilio, come Carone e li altri demoni; e però dice: Ma el; cioè Virgilio, non stette là con essi guari; cioè con quelli demoni non stette molto tempo, Che ciascun; demonio, dentro; della porta, a pruova; l’un dell’altro, si ricorse.
C. VIII — v. 115-120. In questi due ternari pone l’autor nostro quel che poi feciono li demoni, dicendo: Chiuser le porti; della città Dite, quei nostri avversari; cioè demoni, Nel petto al mio Signor; cioè Virgilio, che fuor rimase; della porta di Dite. E questo dice l’autore per dichiarare che di sopra avea finto che dicessono li demoni: Chè qui tu rimarrai ec. Ei; cioè Virgilio, si rivolse a me; cioè Dante, con passi rari; come va a chi à pensiere, e dolore. Li occhi alla terra; avea Virgilio; questo dicea per mostrare l’abito che dà lo dolore e l’ira: imperò che prima li occhi guardano in terra, e le ciglia avea rase D’ogni baldanza; appresso sta con le ciglia chiuse, le quali l’uomo apre, et alza quando à allegrezza et ardire, e dicea nei sospiri; ecco l’altro segno di dolore e d’ira: Chi m’à negate le dolenti case? Questo dice interrogativamente per mostrare indegnazione, quasi dicesse: Guarda chi non mi lascia entrare?
C. VIII — v. 121-130. In questi tre ternari e uno verso l’autor nostro finge come Virgilio ritornato a lui, lo conforta dicendo: Poi che Virgilio sospirando disse le parole dette di sopra, Et a me; cioè Dante, disse; quel che seguita: Tu; cioè Dante, perch’io; cioè Virgilio, m’adiri; cioè mi crucci, Non sbigottir, ch’io vincerò la prova; cioè ch’io v’enterrò 28 pur teco, Qual ch’alla difension dentro s’aggiri; cioè benchè dentro s’aggiri intorno alle mura per quelli dentro alla difensione, come si fa dalli assediati nelle castella e nelle cittadi. Questa lor tracotanza; cioè questa lor presunzione de’ demoni che pensano da sè potere quel che non possono, non è nova; perchè altra volta è stata; e però dice: Che già l’usaro a men secreta porta. Qui mostra Virgilio a Dante per similitudine, come già altra volta li demoni vollono ricalcitrare al divino volere, e perderono la pruova; e però dice che altra volta l’usarono a porta men secreta; cioè alla prima dell’inferno, che è men secreta che questa della città Dite, perchè quella è nella prima entrata; e questo è nel sesto cerchio, e questo fu quando Gesù Cristo venne al limbo per ispogliarlo, e di questo intende qui l’autore. La qual sanza serrame ancor si trova. Questo dice perchè quando Cristo discese al limbo, tutte le serrature della prima porta dell’inferno si spezzarono, e rimase la porta aperta; e questo si dice litteralmente, per accordarsi col Salmista che disse: Attollite portas, principes, vestras ec. Ma allegoricamente s’intende che si ruppono tutte le leggi, e tutte le sentenzie date per la disubbidienzia, ovvero peccato del primo uomo, per l’obbedienzia di Gesù Cristo, e rimase poi aperta la porta della morte eterna: imperò che innanzi alla passione di Cristo v’andava ognuno, poi non v’è ito, se non che 29 à voluto per lo suo peccato, e non volutosi pentere: Sopr’essa vedestù la scritta morta. Dichiara qual porta fu quella, dicendo che fu quella sopra la quale vide scritti certi versi di colore morto, come fu detto di sopra nel terzo canto, cioè: Per me si va nella città dolente. — E già di qua da lei discende l’erta, Passando per li cerchi sanza scorta. Ora conforta Virgilio Dante, dicendo come la porta loro fu aperta, dicendo che già era dentro alla detta porta, e scendea la montata giù per li cerchi che 30 siamo passati noi, sanza guida: chè non à bisogno, Tal, che per lui ne fia la porta aperta. Questi è l’angelo che l’autore finge che fosse mandato da Dio, a fare aprire la porta di Dite contra la volontà de’ demoni, e questo fa per mostrare che niuna cosa può resistere al volere divino. Qui si può dubitare come Virgilio sapea questo, cioè che l’angelo discendesse. A che si può rispondere allegoricamente che la ragione sua vedeva, che ogni impedimento 31 dato dal demonio si toglie per li angeli messi da Dio, quando Idio vuole; ma litteralmente si può dire che l’infernali possano sapere in quanto è loro revelato 32, come dire si può; che Dante finga ora che fosse revelato a Virgilio per qualche parola che udì dire a quelli demoni quando chiusono le porti 33; e qui finisce questo canto viii. Seguita lo nono canto.
- ↑ Introrono è voce da lasciarsi; ma viene dalla terza singolare, aggiuntovi al solito ro o reno. E.
- ↑ C.M. se’ giunto, anima
- ↑ Città Dite. Qui si è ommesso il di che mostra la cagione formale, ed è imitazione del caso d’apposizione de' Latini, i quali dicevano Urbs Roma ed Urbs Romae. E.
- ↑ C. M. e per questo si cruccia,
- ↑ Corravam è per consueta riduzione de’ verbi d’una coniugazione ad un’altra, nell’origine della nostra favella. E.
- ↑ C. M. e cenosa come
- ↑ C. M. gonfiata et orgogliosa e sdegnosa,
- ↑ C. M. la palude che era piena di ceno e pantano fatto come broda,
- ↑ C. M. dalli altri
- ↑ C. M. Idio. Li omini boni sempre lodano e ringraziano Idio della sua giustizia.
- ↑ Altrimenti - e concitavansi a gittarli
- ↑ Altrimenti - si volvea
- ↑ Quantunque abbia detto il nostro Commentatore nella prima, nella seconda ec. sottintesovi sempre parte; qui sta scritto nell’ottavo, taciutovi luogo. E.
- ↑ C.M. a riguardare innanti
- ↑ Sarainesco, saraino per saracinesco, saracino fognato il c siccome usasi anche oggi in alcune voci. Il simile avviene talvolta del g, come in reale per regale ed altri. E.
- ↑ C. M. Allora appiattonno lo gran disdegno,
- ↑ C. M. entrà
- ↑ C. M. ingiummai,
- ↑ El, ello, elli, derivati dal latino ille. E.
- ↑ C. M. vasta solo l’esposizione testuale quanto alla lettera.
- ↑ C. M. ad iroso et arrogante
- ↑ C. M. cioè appiattonno e tenneno celato,
- ↑ C. M. de’ quali e’ in giù mai
- ↑ C. M. le quali cattivano et occupano la ragione;
- ↑ C. M. dalla bestialità:
- ↑ C. M. montare del bel monte
- ↑ Conducerà, da conducere alla guisa de’ Latini molto imitati dai nostri primi Scrittori. E.
- ↑ Enterrò, entrerò. Il raddoppiamento dell’r induce la sincope usata dai padri di nostra lingua, come non di rado si vede nello stesso Allighieri, che à merrenti, misurrebbe e cotali. E.
- ↑ C. M. chi a voluto; - ed il nostro Codice - che à voluto - e noi lasciamo così, perchè torna facile sottintendervi uomo. E.
- ↑ Che; per che, per i quali. Codesta maniera di adoperare il relativo senza veruna particella è comune ai nostri Classici. E.
- ↑ Altrimenti - ogni intendimento
- ↑ C. M. rivellato,
- ↑ C. M. chiusero la porta;
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