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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto undicesimo
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C A N T O XI.
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1In su l’estremità d’un’alta ripa,1
Che facevan gran pietre rotte in cerchio,
Venimmo sopra più crudele stipa:
4 E quivi per l’orribile soperchio
Del puzzo, che il profondo abisso gitta,
Ci raccostammo dietro ad un coperchio
7D’un grande avello, ov’io vidi una scritta,2
Che diceva: Anastasio Papa guardo,3
Lo qual trasse Fotin della via ritta.4
10Lo nostro scender convien esser tardo,
Sì che s’ausi un poco prima il senso
Al tristo fiato, e poi non fia riguardo.
13Così il Maestro; et io: Alcun compenso,
Dissi lui, truova che il tempo non passi
Perduto. Et elli: Vedi che a ciò penso.
16Figliuol mio, dentro da cotesti sassi,
Cominciò poi a dir, son tre cerchietti
Di grado in grado, come quei che lassi.5
19Tutti son pien di spirti maladetti;
Ma perchè poi ti basti pur la vista,6
Intendi come e perchè son costretti.
22D’ogni malizia, che odio in Cielo acquista,
Ingiuria è il fine; et ogni fin cotale
O con forza o con frode altrui contrista.7
25Ma perchè frode è dell'uom proprio male,
Più spiace a Dio; e però stan di sutto8
Li frodolenti, e più dolor li assale.
28De’ violenti il primo cerchio è tutto;
Ma perchè si fa forza a tre persone,
In tre gironi è distinto e costrutto.
31A Dio, a sè, al prossimo si puone9
Far forza; dico in loro et in lor cose,
Come udirai con aperta ragione.
34Morte per forza e ferute dogliose
Nel prossimo si danno, e nel suo avere
Rovine, incendi e tollette dannose;
37Onde omicide, e ciascun che mal fiere,10
Guastatori e predon tutti tormenta
Lo giron primo per diverse schiere.
40Puote uomo aver in sè man violenta,
E nei suoi beni; e però nel secondo
Giron convien che sanza pro si penta
43Qualunque priva sè del vostro mondo,
Biscazza e fonde la sua facultate,
E piange là dov’esser dee giocondo.
46Puossi far forza nella Deitate,
Col cuor negando e bestemmiando quella,11
E spregiando natura e sua bontate;
49E però lo minor giron suggella
Col segno suo e Soddoma e Caorsa,12
E chi, spregiando Idio, col cuor favella.
52La frode, ond’ogni coscienzia è morsa,
Può l’uomo usare in chi di lui si fida,13
Et in quel che fidanza non imborsa.
55Questo modo di retro par che uccida
Pur lo vincol d'amor che fa natura;
Onde nel cerchio secondo s'annida
58Ipocresia, lusinghe, e chi affattura,
Falsator, ladroneccio, e simonia,14
Ruffian, baratti, e simile lordura.
61Per altro modo quello amor s’oblia,
Che fa natura, e quel che è poi aggiunto,
Di che la fede special si cria;
64Onde nel cerchio minore, ove è il punto
Dell'universo in su che Dite siede,
Qualunque trade in eterno è consunto.
67Et io: Maestro, assai chiara procede15
La tua ragione, et assai ben distingue
Questo baratro, e il popol che possiede.16
70Ma dimmi: Quei della palude pingue,
Che mena il vento, e che batte la pioggia,
E che s’incontran con sì aspre lingue,
73Perchè non d’entro della città roggia
Son ei puniti, se Dio gli à in ira?
E se non gli à, perchè sono a tal foggia?
76Et elli a me: Perchè tanto delira,
Disse, lo ingegno tuo da quel che suole,
O ver la mente tua altrove mira?
79Non ti rimembra di quelle parole,
Con le quai la tua Etica pertratta
Le tre disposizion, che il Ciel non vuole;
82Incontinenzia, malizia e la matta
Bestialitade? e come incontinenza
Men Dio offende e men biasimo accatta?
85Se tu riguardi ben questa sentenza,
E rechiti alla mente chi son quelli,
Che su di fuor sostengon penitenza,
88Tu vedrai ben perchè da questi felli
Sien dipartiti, e perchè men crucciata
La divina Giustizia li martelli.17
91O Sol, che sani ogni vista turbata,
Tu mi contenti sì quando tu solvi,
Che non men di saver, dubbiar m’aggrata.18
94Ancor un poco indietro ti rivolvi,
Diss’io, là dove dì, ch’usura offende
La divina bontà, e il groppo solvi.
97Filosofìa, mi disse, a chi la intende,
Nota non pur in una sola parte,19
Come natura lo suo corso prende
100Dal divino Intelletto e da sua arte;
E se tu ben la tua Fisica note,
Tu troverai non dopo molte carte,20
103Che l’arte vostra quella, quanto puote,
Segue, come il Maestro fa il discente,
Sì che vostr’arte a Dio quasi è nipote.
106Da queste due, se tu ti rechi a mente
Lo Genesis dal principio, convene
Prender sua vita, et avanzar la gente.
109Ma perchè l’usuriere altra via tiene,
Per sè natura, per la sua seguace21
Dispregia, poi che in altro pon la spene.22
112Ma seguimi ora mai, che il gir mi piace,
Che i Pesci guizzan su per l’orizonta,23
E il Carro tutto sopra il Coro giace,24
E il balzo via là oltre si dismonta.25
- ↑ v. 1 C. M. dell’alta
- ↑ v. 7 C. M. e vidivi
- ↑ v. 8. C. M. Anastagio
- ↑ v. 9. C. M. via dritta.
- ↑ v. 18. Lassi; lasci, da lassare che odesi tutto di’ in Toscana, e deriva dal latino laxare. E.
- ↑ v. 20. C. M. ti basti più la vista,
- ↑ v. 24. alcun contrista: e il Cod. M. altri contrista.
- ↑ v. 26. Sutto, dal subtus de’ Latini. E.
- ↑ v. 31. Puone; può. Gli antichi, perchè la voce avesse una certa posa, aggiugnevano un’e in fine di alcune parole, e talvolta acciochè dallo scontro di due vocali non ne venisse un suono troppo smaccato, tramettevano una n. E.
- ↑ v. 37. Omicide, plurale di omicida, così presso gli antichi per uniformità di cadenza. E.
- ↑ v. 47. C. M. biasimando
- ↑ v. 50. Del segno suo. - I Caorsini furono così dati all’usura, che Chaorcis nell’idioma romano prese il significato d’usuraio. Qui Caorsa vale moltitudine d’usurieri. E.
- ↑ v. 53. in colui ch’in lui si fida,
- ↑ v. 59. Falsità
- ↑ v. 67 chiaro procede
- ↑ v. 69 C. M. ch’el possiede.
- ↑ v. 90. C. M. La divina vendetta
- ↑ v. 93. C. M. men che saver,
- ↑ v. 98. C. M. Nota non solo pur in una parte,
- ↑ v. 102. C. M. Tu troverai un di po’ molte carte,
- ↑ v. 110. C. M. Per sè natura, per sè sua seguace
- ↑ v. 111. Spene; speme per lo scambio dell’m in n, donde in antico andiano per andiamo, con per com ec. E.
- ↑ v. 113. C. M. Orizonta. Parecchi nomi al presente finiti in e, in antico si terminavano anche in a. Flegetonta, pentecosta ec. E.
- ↑ v. 114. sopra il Toro
- ↑ v. 113-115. C. M. Orizonte, - dismonte.
C O M M E N T O
In su l'estremità ec. Qui si comincia lo canto xi nel quale l’autor
esce del sesto cerchio et entra nel settimo, e mostra l’ordine di cerchi
dei quali à a trattare et eziandio di quelli che à trattato; e dividesi
principalmente questo canto in due parti, perchè prima continua
ancora della eresia, et incomincia a dimostrare l’ordine del processo,
distinguendo li cerchi e li peccati che in esso si puniscono; nella
seconda muove Dante uno dubbio del passato, quivi: Et io: Maestro, ec. La prima che sarà la prima lezione si divide in nove parti:
imperò che prima pone come vennono in su la ripa dove è il discenso nel vii cerchio; nella seconda pone l’ammonimento che Virgilio
dà al modo del discendere, e la dimanda di Dante dell’ordine de’
cerchi e comincia, quivi: Lo nostro scender ec.; nella terza pone lo
dichiaramento che comincia a fare Virgilio in generale, quivi: Figliuol mio, ec.; nella quarta pone come Virgilio premette una divisione
divisione di due membri, quivi: D’ogni malizia, ec.; nella quinta pone come Virgilio seguita la divisione del primo membro, e tratta la divisione de’ modi del terzo membro, quivi: A Dio, a sè, ec.; nella sesta seguita il secondo membro della detta divisione, ponendo le sue spezie, quivi: Puote uomo ec.; nella settima pone li modi del primo membro della detta divisione, quivi: Puossi far forza ec.; nella ottava piglia lo secondo membro della prima divisione e pone le sue spezie, e poi dell’una specie pone li suoi modi, quivi: La frode, ond’ogni ec.; nella nona pone li modi dell’altra spezie, quivi: Per altro modo ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale. Dice così:
Andando per quel sentieri, del quale è detto di sopra, pervenimmo in su l’estremità d’un’altra ripa, la qual’era fatta di gran pietre rotte in cerchio, e così pervenimmo a siepe più crudele: e per la orribile puzza, che venia del profondo abisso, ci raccostammo indietro ad uno coperchio d’un gran sepolcro, dov’era una scritta che dicea: Io guardo Anastagio papa, lo quale Fotino eretico trasse dalla via diritta. E dice Virgilio a Dante: E’ ci conviene scender tardamente sì, che s’ausi lo senso dell’odorato al tristo fiato, e poi non ce ne cureremo. E Dante dice: Truova alcun compenso che il tempo non si perda; e Virgilio risponde, che a ciò pensa, et incomincia a render ragione dell’ordine de’ seguitati cerchi e di quelli che seguiranno, e dice così: Figliuol mio, dentro da cotesti sassi sono tre cerchietti, minori l’uno che l’altro, tondi e disgradati, secondo che più strigne come li cerchi lastrati 1: e perchè ti turbasti per lo vedere, ti dirò, che peccato si punisce in essi. Onde debbi sapere che ingiuria è fine d’ogni peccato, che procede dalla malizia e che è odiato da Dio; e questa ingiuria o si fa, o con forza, o con froda; ma perchè la froda è proprio male dell’uomo, però spiace più a Dio; e sono posti li fraudulenti più giù et a maggior pena. E lo vii cerchio che seguita dopo il sesto, ove sono li eretici, è de’ violenti; cioè di coloro che usano forza; e questo si distingue in quelli tre cerchietti, che detto è di sopra: imperò che si può far forza a tre persone; cioè a Dio, al prossimo, et a sè medesimo. Al prossimo si può far forza in sè e nelle sue cose; in sè, dandoli morte, o battiture, o ferite; nelle sue cose, dando ruine, incendi e ruberie; e però omicidi, feritori, guastatori, scherani; cioè incendiari, rubatori e corsali sono puniti nel primo cerchietto del vii cerchio. E coloro che fanno violenzia a sè e nelli suoi beni; cioè che uccidono sè medesimo e che giuocano e gittano la sua ricchezza, sono puniti nel secondo cerchietto, siccome più gravi peccatori. E coloro che fanno violenzia a Dio; cioè che col cuore lo negano2, e che il bestemmiano, et alle sue cose; cioè alla natura et all’arte, sono puniti nel terzo cerchietto, come sono Soddomiti, Caorsini e bestemmiatori3 di Dio. E fatta questa distinzione del vii cerchio in tre cerchietti, distingue li altri due ove si punisce la froda, dicendo, che la froda che è con rimordimento di coscienzia, perchè procede da malizia, et eziandio da bestialità quando4 viene in usanza, si divide in due specie: imperò che froda si può usare verso colui che si fida, sì come in amico; et in verso colui che non si fida, se non come in uomo lo quale elli non à offeso, e questo secondo modo si punisce nell’viii cerchio, perchè è men grave: imperò che qui si rompe pure uno grado di carità; cioè l’amor naturale, e in questo sono puniti ipocriti, lusinghieri, maliziosi, falsatori, ladroni, simoniaci, ruffiani, barattieri, e simili peccatori. Mala frode, che si commette verso colui che si fida, è più grave perchè rompe due gradi d’amore: cioè lo naturale et accidentale, onde nasce fede speciale, e però si punisce nel nono cerchio, ove è il centro della terra, e qui è Lucifero: e questi cotali, che fanno frode a chi si fida, si chiamano traditori, e però dice che nel nono si puniscono li traditori. Et è qui da notare che tutte queste spezie si contengono sotto la superbia, o sotto la invidia che è sua figliuola. Ora è da vedere il testo con le allegorie, o vero moralitadi.
C. XI — v. 1-9. In questi tre ternari l’autor nostro finge come, continuando lo suo processo, pervennono in su una ripa ov’era la descensione nel vii cerchio, dicendo: In su l’estremità d’un’alta ripa. Estremità è l’ultima parte, ripa è ogni tagliamento di terreno; e dice alta5: chè grande abbassamento è dal peccato della eresia a quelli che si tratterranno di sotto: imperò che l’eresia viene con ignoranzia, e questi altri con malizia; e benchè ignoranzia non escusi lo peccato, pur lo sgrava. Che; cioè la qual ripa, facevan gran pietre rotte in cerchio. Questo dice per mostrare che la ripa era di pietre e non di terra; e dice grande, per mostrare che fosse alta la ripa; e dice in cerchio per osservare la fizione della ritondità de’ cerchi incominciata nel principio del poema. E moralmente queste grandi pietre significano grande ostinazione, o vero gravamenti che sono nelli seguenti peccati; e la rottura in torno6 significa la mala volontà, che cagiona che questi peccati non àn fine. Venimmo; cioè Virgilio et io Dante, andando per lo sentier detto di sopra, sopra più crudele stipa; cioè siepe, che chiude e circonda; e per questo si può intendere che qui dentro si punisce più grave peccato, con maggior tormento e pena. Potrebbe intendere lo testo stipa: però che stivo in Grammatica sta per istivare; cioè per empiere bene quanto cape, come si dice: La nave è stivata; e così stiva; cioè grande empimento di crudeltà; e così può intendere crudele abondanzia di peccatori e di tormenti. E quivi; cioè su la detta estremità, per l'orribile soperchio Del puzzo, che il profondo abisso gitta; questo finge l'autore per mostrare l'abominazione de' peccati, che nelli cerchi seguenti finge esser puniti, Ci raccostammo; Virgilio et io Dante, dietro ad un coperchio D'un grande avello. Di questi avelli assai fu detto di sopra; ma qui dice grande notantemente, per mostrare la setta di sì fatti eretici, come qui sono puniti, sia grande. ov'io; cioè Dante, vidi una scritta, che diceva: Anastasio Papa guardo. Finge Dante che in su l'avello fosse scritto: Io guardo Papa Anastasio, come si scrive in su li nostri sepolcri: Qui giace Martino ec. Lo qual; cioè Papa, trasse Fotin; eretico, della via ritta; e fecelo errare nella fede. Questo Fotin fu diacono Antiociano, et ebbe questa eresia che in Cristo non fosse, se non una natura; cioè umana tanto, e che Cristo fosse puro uomo, e così fece credere a Papa Anastasio, e tanto vi mise questa eresia in lui, ch'elli volle restituire uno eretico che la Chiesa avea dannato, se 7 non i cardinali non consentirono; e finalmente male morì: imperò che essendo ito al secreto luogo della natura, per miracolo divino gittò fuori 8 tutte le intestine.
C. XI - v. 10-15. In questi due ternari finge l'autore nostro come Virgilio l'ammonisce dello scendere, e com'elli domanda dell'ordine de' cerchi, dicendo: Lo nostro scender; cioè di te Dante e di me Virgilio, convien esser tardo 9; cioè ci conviene scendere con tardità e non con prestezza, Sì che s'ausi un poco prima il senso Al tristo fiato. Ecco la cagione perchè à detto che si dee tardare a scendere; per avezzare l'odorato alla puzza: imperò che Aristotile dice: Ab assuetis non fit passio. - e poi non fia riguardo: imperò che avezzati alla puzza, potremo sicuramente discendere sanza offensione. Così il Maestro; cioè Virgilio disse, come è detto di sopra, et io; cioè Dante: Alcun compenso; cioè alcun rimedio, Dissi lui; cioè diss'io Dante a lui Virgilio, truova che il tempo non passi Perduto; quasi dicesse, che questo tempo, che noi stiamo qui, non si perda; e questo è notabile che niuno dee volere perdere lo tempo. Et elli; cioè Virgilio disse a me Dante: Vedi che a ciò penso; cioè penso di fare che il tempo non si perda.
C. XI - v. 16-21. In questi due ternari finge Dante come Virgilio, per non perder lo tempo, li cominciò a mostrare l’ordine di cerchi, che à a vedere, e dice: Figliuol mio; chiama Virgilio Dante figliuolo: imperò che il maestro è secondo padre del discepolo, dentro da cotesti sassi; cioè da cotesta ripa fatta di sassi, Cominciò poi a dir; Virgilio, son tre cerchietti Di grado in grado; minori l’uno che l’altro: con ciò sia cosa che quanto più si scendea, tanto minore è lo cerchio, come quei che lassi; cioè, com’ài veduto delli sei passati; così dè essere de’ tre che sono a vedere. Tutti; cioè questi tre cerchi, son pien di spirti maladetti; cioè dannati; Ma perchè poi ti basti pur la vista; cioè a ciò che non abbi poi10 a domandare, Intendi come e perchè son costretti; quelli maladetti spiriti; cioè vedi lo modo e la cagione.
C. XI - v. 22-30. In questi tre ternari finge l’autore nostro che Virgilio cominciasse a rendere ragione de’ cerchi di sotto e de’ peccati che vi puniscono, e perchè sono così ordinati, dicendo così: D’ogni malizia, che odio in Cielo acquista, Ingiuria è il fine. Ad intender questo è da sapere che malizia è pensamento della rea mente, e perchè la rea mente non sempre pensa male, però aggiugne: che odio in Cielo acquista; a significar che lo pensamento della rea mente, allora è odiato da Dio e dalli angeli e da’ santi, quando è rio, et allora è rio quando intende ad ingiuria. Lo reo pensamento della rea mente sempre intende a questo fine; cioè ad ingiuria: ingiuria è ogni atto fatto contra ragione; onde ben disse, quando disse: Ingiurie sono quelle che o vero con villania offendono li orecchi, o con percotimento offendono lo corpo, o con alcuna sozzezza macchiano la vita altrui; e però dice l’autore che ingiuria è lo fine d’ogni malizia 11 acquistata con odio in cielo; et ogni fin cotale; cioè ingiurioso, O con forza o con frode altrui contrista. Qui dichiara li modi co’ quali si commette lo peccato che è a fine della ingiuria, li quali sono due; cioè forza e inganno; e dice contrista altrui: imperò che la ingiuria contrista lo paziente. Ma perchè frode è dell’uom proprio male. Qui dimostra che il peccato commesso con frode è più grave che quello che si commette con forza 12, e questa è la ragione perchè la frode è proprio male dell’uomo: imperò che niuno altro animale à frode, se non l’uomo. Ànno ben forza li animali; ma non frode; solo l’uomo à frode; imperò che frode è inganno occulto intorno alla vicendevole fede. Ma lo peccato che si commette con forza non è tanto grave: imperò che forza non è rea in sè, se non tanto quanto l’uomo l’usa in male; e questa ancora si truova nelli animali non ragionevoli più che nell’uomo, sì che non è proprio male dell’uomo. E puossi usare in bene et in male; ma la fraude pure in male, et ancora non si può tanto nuocere con la forza, quanto con la frode: imperò che si richiede che truovi più debole di sè; onde tal peccato conviene avere effetto per la forza dello agente e per la debilità del paziente; e però dice: Più spiace a Dio; la frode che la forza: e però stan di sutto Li frodolenti; cioè sotto a tutti li altri peccatori: imperò che sono puniti nell’ottavo e nono cerchio, che sono li ultimi, e più dolor li assale: imperò che ànno maggiore dolore che li violenti. De’ violenti; cioè di coloro che commettono peccato per forza, il primo cerchio è tutto; cioè lo vii che è lo primo di quelli tre, de’ quali è a trattare; Ma perchè si fa forza a tre persone; qui dimostra come la forza si può usare 13 in tre modi, secondo tre diversità di persone che la ricevono: In tre gironi è distinto; cioè diviso, e costrutto; cioè ordinato questo vii cerchio.
C. XI - v. 31-39. In questi tre ternari finge l’autor nostro che Virgilio li distinguesse lo peccato, che si commette con forza, in tre spezie principalmente, e poi tocca le spezie che si contengono sotto ciascuna, dicendo così prima: A Dio, a sè, al prossimo si puone; cioè si può, Far forza. Ecco che in tre spezie si divide lo peccato che si commette con forza: imperò che o egli è di grave colpa, o di più grave, o di gravissima: imperò che, se l’uomo fa forza al prossimo, è di colpa grave lo peccato, e puniscesi nel primo girone; se l’uomo fa forza a sè medesimo, allora lo peccato è di più grave colpa, e puniscesi nel secondo girone; e se l'uomo fa forza a Dio, allora lo peccato è di colpa gravissima, e puniscesi nel terzo girone. dico in loro et in lor cose. Ora dichiara che in due modi si può usare la forza; cioè o contra la persona, o contra le cose sue, come apparirà di sotto; e però dice: Come udirai con aperta ragione; ecco che promette di dichiarare questo di sotto. Seguita prima dell’offesa del prossimo, dicendo: Morte per forza e ferute dogliose Nel prossimo si danno; ecco due modi nelli quali offende 14 la persona del prossimo; cioè o uccidendolo, o ferendolo, o vero battendolo; e ferire e battere s’intende una medesima cosa. E notantemente dice: Morte e ferute dogliose si danno per forza, a ciò che s’intenda di colui che intende ad ingiuria, e non a giustizia come fa lo giudice, e a misericordia come fa il medico: chè questo è virtù; dogliose, si dice perchè danno dolore. e nel suo avere; ora dichiara li modi, in che s’offende lo prossimo: nelle sue cose si danno, s’intende, Rovine, incendi e tollette danose; e queste sono tre spezie: imperò che s’offende lo prossimo nelle sue cose; o disfacendo li suoi edifici, e però dice rovine; o ardendo li suoi beni, e però dice incendi; o rubando le sue facultà, e però dice tollette dannose, e conchiude: Onde omicide; che sono quelli che offendono il prossimo nella sua persona, dando morte, e ciascun che mal fiere e questi offende dando ferite, o battendo similmente la persona del prossimo, Guastatori; questi sono quelli che offendono il prossimo nelle sue cose, dando ruina et incendi, e predon; questi son quelli che offendono il prossimo nelle sue cose, rubando le sue cose; e così rispondono i peccatori alle spezie dette di sopra, tutti; cioè i detti peccatori, tormenta Lo giron primo; del vii cerchio, per diverse schiere; secondo le dette spezie et ancora seconda la quantità li più peccatori con li più peccatori, e li men peccatori con li men peccatori.
C. XI — v. 40-45. In questi due ternari finge l’autore che Virgilio li dimostri, come li violenti contra sè medesimo sono puniti nel secondo girone nel vii cerchio, dicendo: Puote uomo; cioè può l’uomo, aver in sè; cioè contra sè, man violenta; cioè fare forza a sè medesimo, uccidendosi; e questo è l’uno dei due modi, E nei suo beni; cioè ardendoli e disfacendoli, giuocando e gittando il suo; e questo è l’altro modo; e però nel secondo Giron; del vii cerchio, convien che sanza pro si penta: imperò che patisce pena del suo peccato; e pentere 15 in questa parte s’intende sostenere pena et avere stimolo e dolore d’aver fatto tal peccato; e dice sanza pro: imperò che, benchè porti pena del peccato et abbi stimolo e dolore d’averlo fatto, non si corregge però la volontà ch’ella voglia se non averlo fatto; et ancora vorrebbe poterlo fare, come di questo dichiara il Maestro delle sentenzie nel quarto libro presso al fine, nel capitolo sotto la rubrica: Si mali in inferno peccabunt. — Qualunque priva sè del vostro mondo; cioè del mondo, ove vivi tu Dante e li altri uomini. Qui dichiara l’autore in che modo elli intende avere l’uomo contra sè e nei suoi beni man violenta, dicendo che avere in sè mano violenta, s’intende uccidere sè medesimo: imperò che del battere o ferire sè medesimo l’uomo se ne pente a mano a mano, e quella penitenzia è fruttuosa; ma s’elli s’uccide, quella penitenzia ch’elli à poi, nell’altro mondo è infruttuosa. Biscazza e fonde la sua facultate; cioè giuoca e gitta li suoi beni spendendoli come non si dee, e tocca pur questi modi 16 due e non li altri: imperò che di questi due modi rade volte l’uomo si pente in questa vita; dell’ardere e rovinare li suoi beni, che alcuna volta l’uomo fa in ira, se ne pente incontanente, sì che la penitenzia puote essere fruttuosa. E piange là dov’essere dee giocondo; cioè nell’altra vita ove dovrebbe avere allegrezza: imperò che a quel fine fu creato l’uomo che elli godesse nell’altra vita con Cristo; e se muore in peccato mortale, à tristizia e pianto col demonio.
C. XI - v. 46-54. In questi due ternari l’autor nostro finge come Virgilio dichiara in che modo si può far forza per l’uomo a Dio; e dimostra in genere che sono due modi; l’uno è immediate contra Idio; l’altro è contra Idio per mezzo della natura, che è detta figliuola di Dio, onde dice: Puossi far forza; per l’uomo s’intende, nella Deitate; cioè contro l’essenzia 17 sanza mezzo in due modi; cioè Col cuor negando e bestemmiando quella. Chi nega Idio col cuore, annulla Idio, sì che quanto in lui e’ fa forza a Dio, benchè Idio nullo mancamento in sè riceve; similmente è di chi il bestemmia 18. E notantemente dice col cuore: imperò che l’uomo lo potrebbe negare e bestemmiare 19 in voce; ma non col cuore per paura di tormento, o di morte, e questo non sarebbe sì grave peccato, come quello di ch’elli intende. E spregiando natura e sua bontate. Ora manifesta come in due modi si fa forza a Dio, facendo forza alla natura che è figliuola di Dio; cioè spregiando essa natura, come fanno quelli che commettono peccato contra natura; o spregiando sua bontade; cioè l’arte che è bontà della natura, e figliuola della natura e nipote di Dio, come fanno li usurieri che fanno contra l’arte che è figliuola della natura, come si dimosterrà di sotto. E però lo minor giron; cioè lo terzo, che è minor che gli altri due del vii cerchio, suggella Col segno suo; quasi dica: Tieni inchiusi con la spezie o sotto la spezie del peccato detto di sopra, e Soddoma, e Caorsa; cioè peccatori contra natura, et usurieri, E chi, spregiando Idio, col cuor favella; cioè bestemmiandolo 20 e negandolo. E debbasi qui notare che Soddoma fu una città grande nel confine d’Arabia e Palestina, la quale, come dice Orosio nel primo libro, con quattro altre città le quali elli nomina, convertite per troppo bene che aveano a lussuria ed a peccato contra natura, per giustizia di Dio arsono tutte per fuoco mandato dal cielo; e qui ov’erono 21 le città è ora uno stagno, et intorno, come dice Solino, nascono pomi che a vederli di fuori sono bellissimi e d’entro sono pieni di fuliggine; onde struggendoli n’esce fuori fumo e polvere e tutto quel terreno è ceneroso; e pertanto l’infetti di tal vizio si chiamano soddomiti. Caorsa è una città nella Proenza ove sono molti usurieri, e però li usurieri sono chiamati Caorsini.
C. XI — v. 52-60. In questi tre ternari l’autor nostro finge come Virgilio seguita la sua distinzione incominciata de’cerchi sì, che poi ch'à detto del vii, dice ora dell'viii, ove pone che si puniscano li frodolenti che ingannano chi non si fida; e prima distingue la frode e poi dice dell'uno membro, dicendo: La frode, ond'ogni coscienzia; cioè della quale ciascuna coscienzia; cioè di colui che l’usa, è morsa; questo dice, perchè ciascuno che l’usa n’à rimordimento di coscienzia, Può l’uomo usare in chi di lui si fida; e questa è una spezie più grave e chiamasi tradimento; e perchè è più grave però finge che sia punita nel nono cerchio et ultimo dell’inferno, Et in quel che fidanza non imborsa; cioè in chi non si fida; e questa è l’altra spezie men grave: imperò che questa fa pur contro alla carità del prossimo, che è imposto all'uomo da natura. E la prima fa contra la carità naturale del prossimo et ancora contra la speciale; cioè contra la fede e però è più grave, e come è più grave finge che sia punita nel nono cerchio, come è detto; ma l'altra che è meno grave; finge che sia punita nell'viii cerchio, e però manifestando questo dice: Questo modo di retro; cioè della frode contra chi non si fida, par che uccida; cioè rompa, Pur lo vincol d’amor; cioè lo legame d’amor naturale tra l’uno uomo e l’altro, che fa natura: imperò che legge di natura è che l’uno uomo ami l’altro e serva. Onde nel cerchio secondo; cioè viii che è secondo a questo che si chiama vii, s’annida; cioè s’alloga per essere punite le infrascritte spezie, che si contengono nella seconda spezie della frode men grave, Ipocresia; che è mostrarsi buono et essere reo; a questo intende l’ipocriti 22, lusinghe; cioè li lusinghieri, e chi affattura; cioè li maliosi, Falsator; cioè falsatori di moneta, di scrittura e d’ogni altra cosa, ladroneccio; cioè rubatori. che usano ladroneccio, e simonia 23; di chi mercata le cose sacre, Ruffian; cioè ingannatori di femmine, baratti; cioè barattieri che vendono le grazie de’ loro signori, e simile lordura; cioè altre spezie simili a queste, delle quali si dirà di sotto nel suo luogo pienamente e distintamente.
C. XI-v. 64-66. In questi due ternari l'autor nostro finge che Virgilio dichiara, come quelli che frodano l’amore della natura e la fede, che è doppio inganno, sono puniti nel ix cerchio, dicendo così: Per altro modo; cioè da quelli che sono detti di sopra, quello amor s’oblia; cioè si dimentica, Che fa natura; cioè che viene da natura: imperò che da natura è che l’uomo 24 ami l’altro, e quel; cioè amore, che è poi aggiunto; cioè al naturale, Di che la fede special si cria: imperò che della fede o vero dire amore special, nasce la fede: imperò che vedendosi amare l’uomo si fida, Onde nel cerchio minore; cioè nono et ultimo, ove è il punto Dell’universo; cioè centrale, non della terra; ma Dell‘universo; cioè di tutti li cerchi de’ cieli; e questo dice notantemente, per verificare la fizione che porrà di sotto della terra, che essa venisse più su verso il nostro emisperio per fuggire lo Lucifero, quando cadde dal cielo. in su che Dite; cioè Plutone, secondo li poeti; lo quale è Lucifero, secondo la fizione dell’autore, siede: imperò che l’autor finge che Lucifero, quando cadde venisse in fine al centro e qui si fermasse: imperò che le cose gravi non possono andare, se non infìno al centro. Qualunque trade; cioè ciascuno che usa fraude contra colui che si fida, che si chiama tradire, in eterno è consunto; cioè punito nel cerchio nono et ultimo dove è il Lucifero; dice in eterno: imperò che mai non à fine la pena sua, e ponsi eterno; perpetuo 25. E qui finisce la prima lezione.
Et io: Maestro, ec. Questa è la seconda lezione del canto, nella quale l’autor muove dubbio a Virgilio, poi che dichiarato è lo processo dei cerchi che à a passare, de’ cerchi passati e d’alcuno detto di Virgilio nel passato, e lo processo del suo cammino; e dividesi questa lezione tutta in cinque parti: imperò che prima Dante, commendando la divisione fatta di sopra da Virgilio, li domanda dichiaragione perchè li peccati che si puniscono nelli primi quattro cerchi, non si puniscono dentro alla città Dite; nella seconda pone che Virgilio li rende la ragione di ciò, quivi: Et elli a me; nella terza si pone come Dante domanda dichiaragionc d’uno detto di Virgilio, posto nella lezione passata, quivi: O Sol, che sani; nella quarta si contiene la dichiaragione di Virgilio, quivi: Filosofia, mi disse, ec.; nella quinta si contiene il conforto di Virgilio al processo del cammino, quivi: Ma seguimi ec. Divisa la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale, la quale si continua così:
Poi che Virgilio ebbe distinti li tre cerchi, li quali Dante avea a cercare, Dante commendando la sua distinzione, muove uno dubbio, dicendo: Maestro, assai chiara procede la tua ragione et assai ben distingue questa voragine e li peccatori che ci sono; ma dimmi quelli della palude Stige; cioè iracundi et accidiosi: e quelli che mena il vento; cioè li lussuriosi: e quelli che batte la pioggia; cioè li golosi: e quelli che si scontrano con sì aspre lingue; cioè prodighi e li avari, perchè non sono puniti d’entro alla città Dite, se Idio gli à in ira? E se non gli à, perchè sono in quelli tormenti? A che Virgilio risponde, riprendendo Dante d’essersi partito l’ingegno suo dalla sottilità usata, o da vedere 26 la mente dirizzata ad
altro, e riduceli a mente una distinzione che fa Aristotile nell’Etica di tre spezie di peccati che il cielo caccia da sè; cioè d’incontinenzia, malizia e bestialità: e come incontinenzia meno offende ldio che li altri due; e per tanto mostra che sia convenevole che sieno puniti di fuori dalla città Dite. Udita questa dichiarazione, Dante la commenda, e domanda dichiarazione d’uno detto di Virgilio nella passata lezione; cioè quando disse che s’offendea la divina bontà, dicendo: Come si può offendere ldio, dichiarami questo; cioè o dal soddomito o dall’usuriere? A che Virgilio risponde, come la filosofia dichiara in più luoghi come la natura piglia corso dal divino Intelletto; e nel primo libro della Fisica 27 si contiene come l’arte seguita la natura quanto può. Onde seguita che la natura sia figliuola di Dio, perchè sanza mezzo viene da lui, et è l’arte figliuola della natura, perchè viene da lei 28, e nipote di Dio; e da queste due cose; cioè dall’arte e dalla natura, come appare nel Genesi, convenne nel 29 principio del mondo li uomini pigliar suo corso et avanzar l‘uno l’altro; e perchè l’usuriere tiene altra via; cioè ch’elli spregia natura in quanto non istà all’ operazion della natura, anzi vuole che il danaio faccia il danaio che è contro a natura: e similmente spregia l’arte; cioè che non vuol fare alcuna arte, però seguita che offenda la divina bontà; e così lo soddomito che fa contra natura. E poi conchiude e continua lo suo processo, dicendo Virgilio: Seguitami tu Dante: chè mi piace d’andare: chè lo segno che si chiama Piscis appare nell’Oriente e il Carro della Tramontana giace tutto sopra quella parte 30 che si chiama Coro, sicché andiamo a dismontare colà oltre il balzo. Ora è da vedere il testo con le allegorie e moralità.
C. XI — v. 67-75. In questi tre ternari l’autor nostro finge che li commendasse la distinzione di Virgilio posta di sopra, e com’elli lo domandasse che li dichiarasse, perchè quelli che sono puniti nelli quattro cerchi posti di sopra, fuor della città Dite, non sono puniti dentro, dicendo così: Et, io; cioè Dante dissi, s’intende: Maestro, assai chiara procede La tua ragione; detta di sopra, distinguendo le spezie de’ peccati e li cerchi che aveano a cercare, e però aggiugne: et assai ben distingue Questo baratro; cioè questo luogo cupo et oscuro, e il popol che possiede; cioè i peccatori che ci sono dentro; e commendato lo detto di Virgilio, muove uno dubbio dicendo: Ma dimmi; tu Virgilio: Quei della palude pingue; che si chiama Stige; cioè quelli del quinto cerchio, de’ quali fu detto di sopra ove à detto che si puniscono l’irosi e li accidiosi, Che mena il vento; cioè quelli del secondo cerchio; cioè li lussuriosi, e che batte la pioggia; cioè quelli del terzo cerchio; cioè li golosi, E che s’incontran 31 con sì aspre lingue; cioè quelli del quarto cerchio; cioè li prodighi e li avari i quali, quando s’incontrano, l’uno rimpruovera all’altro lo suo peccato, dicendo: Perchè tieni o perchè burli? Perchè non d’entro della città roggia; cioè aspra, che si chiama Dite, Son ei puniti; come questi altri, se Dio gli à in ira; che mostra che sì? E se non gli à; in ira s’intende, perchè sono a tal foggia; cioè perchè sono a quelle pene che è detto di sopra? Questa domanda fa Dante per certificare lo lettore, perchè elli à fatta questa fìzione distinguendo questi peccati, de’ quali à ridire, da quelli che sono detti; e la ragione si mosterrà di sotto.
C. XI — v. 76-90. In questi cinque ternari l’autor nostro finge come Virgilio risponde alla sua domanda e solve lo suo dubbio; primo, riprendendo lui nel dubitare, riprendendo le cagioni che possono essere del dubbio, dicendo così: Et elli; cioè Virgilio, a me; cioè Dante, disse: Perchè tanto delira; cioè esce del solco; cioè si svia, lo ingegno tuo da quel che suole; cioè da la sottigliezza della ragione, che suole avere, e questa può essere l’una cagione del dubitare. Aggiugne l’altra, dicendo: O ver la mente tua altrove mira? Quasi dica: Perchè mira la tua mente altrove: imperò che quando l’uomo è intento ad altro, non intende quel che ode, nè che dee intendere; onde si dice: Pluribus intentus minor est ad singula sensus? E reduceli a memoria la sentenzia d’Aristotile nel libro dell’Etica, dicendo: Non ti rimembra; cioè non ti ricorda, di quelle parole, Con le quai la tua Etica. Questo è uno libro che fece Aristotile ove si tratta de’ costumi, et Etica tanto vuol dire quanto scienzia morale; e dice tua, a dimostrare che Dante fu studioso di quel libro e di quella scienzia e seppela bene. pertratta Le tre disposizion, che il Ciel non vuole. Incomincia a riducere a memoria a Dante della sentenzia d’Aristotile nel vii libro dell’Etica, ove dice che tre spezie di peccati sono che il cielo scaccia da sè, e sotto questa divisione 32 l’autor puose ordine al suo trattato, e non secondo le specie de’ peccati mortali capitali, come molti credono; e niente di meno di tutti li peccati mortali tratta in questa prima cantica ordinatamente, come appare a chi la legge intellettivamente; e manifesta quali sono queste specie, dicendo: Incontinenzia, malizia e la matta Bestialitade? Qui Virgilio dimostra la divisione de’ vizi che pone Aristotile nel libro vii dell’Etica, secondo l’ordine della quale divisione l’autore compuose questa prima cantica. E qui è da notare che incontinenzia è vizio quando la ragione conosce quello che si dee fuggire, e la concupiscenzia la tira ad esso, e seducevi l’uomo per non raffrenare la concupiscenza; e per questo à posto di fuori lussuria, gola, avarizia, prodigalità, ira et accidia, in quanto si commettono per incontinenzia e non fa menzione della superbia e dell’invidia, perchè mai non si commettono per incontinenzia; ma per propria malizia: imperò che nelli peccati detti di sopra sono delettazioni e tristizie; e continenzia et incontinenzia è intorno alli diletti et alle tristizie, e può stare lo giudizio della ragione. Ancor è necessario, come dice Aristotile nel detto libro, che sempre stia lo giudicio della ragione che conosca quello che non è da fare; ma tirato dalla concupiscenzia 33: e se ristesse, sarebbe continenzia. Malizia, è come dice Aristotile, vizio contrario alle virtù morali e quando la ragione è sì accecata che elegge lo vizio parendoli bene, e da eleggere sotto apparenzia di bene, e però dice bene elli: Omnis malus ignorans; e sotto questa si contiene superbia et invidia specialmente, perchè a questi due non si può discéndere, stante lo giudicio della ragione, per concupiscienzia: imperò che in questi due non è delettazione. Possonsi li sopra detti peccati; cioè lussuria, gola ec. commettere per malizia ancora, quando la ragione e sì accecata che ella giudica questi esser bene, e sotto apparenzia di bene acconsente ad essi; e per tanto finge l’autore che siano puniti d’entro alla città di Dite, come apparirà nel processo del libro. E però di questi tratta l’autore di fuori della città di Dite in quanto si commettono per incontinenzia; e d’entro alla città, in quanto si commettono per malizia o per bestialità; ma sott’altri nomi e vocaboli: come li irosi e golosi, superbi et avari e lussuriosi sotto la violenzia; così lussuriosi et avari, et invidiosi, e superbi, et irosi, e prodigi secondo diverse spezie e modi delli detti peccati sotto la fraude, come appare nel testo di sopra, quando furono nominate le loro spezie, e mostrata la loro distinzione. E questa fizione fa l’autore per fare verisimile lo suo poema: imperò che ragionevole è che men grave peccato men gravemente sia punito, e il più grave più gravemente: meno gravi pene sono fuori della città Dite che dentro, come appare a chi bene le considera. Appresso ebbe rispetto allegoricamente a quelli del mondo: imperò che chi pecca per incontinenzia nelli detti cinque peccati, è fuori dell’ostinazione che è significata per la città Dite e riceve le pene che danno si fatti peccati, come mostrato è in ciascuno luogo; e chi pecca per malizia o per bestialità in sì fatti peccati o nelli altri è abile ad entrare in ostinazione, se la grazia di Dio non ne il cava innanzi che muoia. Bestialità è quando l’uomo per sì fatto modo è involto nel peccato, ch’elli avanza tutti li altri simili peccatori sì, come quelli che commettono peccato contra natura che avanzano in malizia tutti li altri lussuriosi. E secondo queste tre spezie l’autore à divisa la prima cantica ponendo li cinque peccati detti di sopra, quando si commettono per incontinenzia, di fuori della città Dite; e quando si commettono per malizia o per bestialità, d’entro alla città Dite più giuso e più grave, secondo che l’uno è più grave che l’altro; et è da notare che l’autore dice: la matta Bestialitade; perchè al tutto è accecato l’intelletto. Onde pone Aristotile ch’ alcuna volta bestialità viene per infermità corporale, come nelli frenetici; alcuna volta per pazzia; cioè rivolgimento di cerebro; alcuna volta per orbità d’intelletto, per ignoranza di legge o per lunga consuetudine; e questo ultimo modo è peccato, e bene rende l’uomo matto o bestiale. e come incontinenza Men Dio offende e men biasimo accatta? Occorre ora un dubbio in quel che detto è, che incontinenza meno offende ldio e men biasimo accatta: imperò che pare lo contrario, considerato quel che detto è di sopra; che nella incontinenzia sta lo giudizio della ragione, e che nella malizia e bestialità s’inganna, eleggendo lo male per bene. A che si può rispondere che la ragione teorica sta nell’uno e nell’altro; ma la ragion pratica sta nell’incontinenzia e nella malizia: e la bestialità s’inganna reputando bene quel che non è, facendolo continuamente et abbandonatamente, che non fa così lo incontinente: anzi tuttavia se ne ritiene e ritrasene 34 alcuna volta. Se tu; cioè Dante, riguardi ben questa sentenza; che detta è di sopra, d’Aristotile, E rechiti alla mente chi son quelli, Che su di fuor sostengon penitenza; cioè l’incontinenti che sono puniti fuor della città Dite, Tu vedrai ben perchè da questi felli; cioè rei, Sien dipartiti; cioè sieno puniti in diverso luogo, e perchè men crucciata La divina Giustizia li martelli; cioè li punisca la giustizia di Dio: imperò che quelli peccati, a che c’induce concupiscenza, sono di minore colpa che quelli a che c’induce propia malizia.
C. XI — v. 91-96. In questi due ternari finge l’autor nostro come domandò a Virgilio dichiarazione d’un altro dubbio, che li occorrea de’ detti di Virgilio, e prima commenda la dichiarazione fatta dell’altro dubbio, dicendo a Virgilio: O Sol; cioè o chiarezza, che sani ogni vista turbata; come fa lo sole, Tu mi contenti sì quando tu solvi; cioè lo dubbio, Che non men di saver, dubbiar m’aggrata; cioè mi piace non meno il dubitare che il sapere per udirti: Ancor un poco indietro ti rivolvi, Diss’io; cioè Dante, rivolgiti in dietro; cioè ritorna alla sentenzia già detta: ritornare alle cose già dette è rivolgersi a dietro, là dove dì, ch’usura offende La divina bontà; ecco lo detto a che vuole che ritorni, e il groppo solvi; cioè lo dubbio. Domanda Dante Virgilio che dichiari in che modo l’usura offende Idio, et aggiugne che faccia la soluzione.
C. XI — v. 97-111. In questi cinque ternari l’autor nostro finse come Virgilio dichiara lo dubbio suo, dicendo: Filosofia, mi disse; cioè Virgilio a me Dante, a chi la intende; cioè alli studiosi di quella, Nota non pur in una sola parte; ma in più parti: imperò che in più libri et in più parti di Filosofia si truova questa sentenzia, Come natura lo suo corso prende Dal divino Intelletto. Per mostrare come l’usurieri offende Idio, pone questa sentenzia che pone Aristotile nel libro della Fisica et ancora in più luoghi e parti di Filosofia; come la natura piglia suo corso; cioè suo processo dal divino Intelletto, perchè Idio è prima cagione di tutte le cagioni, e da sua arte; cioè dal suo operare; lo suo operare è il suo volere: imperò che come Idio intende, così vuole; e come vuole, così opera: imperò che così le cose vengono ad effetto. E se tu; cioè Dante, ben la tua Fisica note; questa parte della Fisica fu specialmente studiata da Dante, e però dice: tua Fisica, Tu troverai non dopo molte carte: imperò che è presso al principio del libro, Che l’arte vostra quella, quanto puote, Segue. Questa sentenzia pone Aristotile nel libro della Fisica: Ars imitatur naturam in quantum potest. — come il Maestro fa il discente; qui fa una similitudine, che come lo discepolo seguita il maestro; così l’arte, la natura, Sì che vostr’arte a Dio quasi è nipote; pone qui una conclusione corollaria che discende dalle premesse, benché non sia del proposito; che l’arte, che è invenzione umana e però dice vostra; cioè di voi uomini, quasi è nipote di Dio; dice, quasi; cioè per similitudine; ma non propriamente; e questa 35 seguita, che se la natura à suo principio da Dio, e l’arte à suo principio dalla natura, la natura si può dire per similitudine figliuola di Dio, perchè à suo principio da lui, come lo figliuolo dal padre; e l’arte se può dire figliuola della natura, in quanto seguita quella quanto può; e così si può dire per similitudine nipote di Dio: imperò che Dio à messo nelle menti umane l’arti, per mezzo della natura. Da queste due; cioè dalla natura e dall’arte, se tu ti rechi a mente Lo Genesis; cioè lo primo libro della Bibbia, ove si tratta della creazione del mondo, e del primo uomo, e dell’ordine della vita che incominciò, vi si pone questa sentenzia che seguita: Oportuit ab initio saeculi humanum genus sumere vitam et excedere ec. — dal principio; cioè come appare nel suo principio, convene Prender sua vita; cioè l’ordine e il modo del vivere, et avanzar la gente; cioè li uomini avanzare l’uno l’altro nelle ricchezze e beni temporali: e questo è licito appo Dio et appo il mondo l’uno uomo avanzare l’altro, o per sua industria, o esercizio di sua persona affaticandosi e lavorando la terra, o commettendosi all’opere della natura, tenendo bestiame lo quale secondo corso di natura fruttifica, se a Dio piace, et ancora una volta muore, stando contento a quello che Idio fa. Ma perchè l’usuriere altra via tiene; che quella della natura, non tenendo li suoi danari in bestiame; e che quella dell’arte: imperò che non lavora e non s’esercita, Per sè natura; per la sua seguace; cioè l’arte, Dispregia, poi che in altro pon la spene; cioè la speranza, così dispregia Idio dispregiando le cose sue; cioè natura ed arte; anzi fa contra natura: imperò ch’elli vuole che il danaio faccia danaio, la quale cosa è contra natura: imperò che le cose non animate non possono multiplicare per generazione, come le cose animate: et ancora dispregia Idio, in quanto non si fida della bontà di Dio.
C. XI — v. 112-115. In questo ternario et un verso l’autor nostro fìnge che Virgilio lo sollicitasse dell’andare, assegnando la brevità del tempo, che era a venire della notte innanzi al di’, dicendo così: Ma seguimi; tu Dante, ora mai; cioè oggi mai, che il gir mi piace; cioè a me Virgilio. E questo finge l’autore perchè di sopra lo restar si finse che il facesse far Virgilio sì, come appar di sopra; et assegna la cagione della brevità del tempo ch’era a venire di quella prima notte, che finge essere già stati nell’inferno, descrivendo lo tempo per Astrologia narrando lo sito dei due segni del zodiaco; cioè del segno ascendente ch’era allora Pisces, e per lo segno descendente ch’era allora Virgo 36. Pisces e Virgo sono due segni oppositi l’uno all’altro, sicché quando l’uno nasce l’altro tramonta; e per questo volea mostrare ch’era presso al di’ per due ore, o vero quasi: imperò che il sole era allora in Ariete, siccome appare nel primo canto, prima cantica, dove dice: Temp’era del principio del mattino, ove dimostra che di marzo, la notte che viene innanzi al venerdi’ santo, ebbe questa fantasia presso al di’, e poi tutto il venerdi’ santo consumò a combattere con le fiere, et a parlamentar con Virgilio, et in su la sera finge ch’entrassono nell’inferno. E questo si può provare per lo canto secondo, prima cantica che dice: Lo giorno se n’andava, e l’aer bruno ec.; e che fosse la notte ch’era tra il venerdi’ santo e sabbato santo si dimostra per quel testo del xxi canto, prima cantica che dice: Ier più oltre cinque ore che quest’otta, Mille dugento con sessanta sei Anni compièr, che qui la via fu rotta: imperò che quella via si ruppe, quando l’anima di Cristo con la divinità discese nel limbo, e questo fu all’ora sesta del venerdi’ santo; sicchè fu la notte che va innanzi al sabbato, et era allora quasi presso al di’ per due ore, e questo si dimostra perchè dice: Che i Pesci guizzan su per l’orizonta. Pisces è uno de’ xii segni del zodiaco: questo è uno cerchio che è nel cielo del firmamento; cioè del cielo stellifero, ove secondo li Astrologi sono xii segni posti in questo ordine l’uno dopo l’altro, come appare in questo cerchio; sì che Aries che è il primo si congiugne con Pisces che è l’ultimo.
Et è da sapere che sei segni passono lo nostro emisperio il di’, e sei la notte, e ciascuno segno tiene di lunghezza del detto cerchio gradi xxx. Ancora è da sapere che il sole che è vie più basso che il zodiaco, sicchè tra lui e il zodiaco sono tre pianeti; cioè Marte, Giove e Saturno, sempre fa il suo corso sotto il zodiaco per lo mezzo di quello, sicchè mai non si parte dalla linea elittica che viene per lo mezzo del zodiaco: e va lo sole contra il movimento del primo mobile ogni di’ uno grado, benchè il primo mobile si tiri seco lo cielo del fermamento e tutti li altri cieli delle pianete 37, sicché in xxiiii ore tutti fanno una rivoluzione; e per tanto in xxx di’ passa uno segno, e così del primo entra nel secondo e così va sotto tutti in uno anno. Ancora è da sapere che l’orizonte è lo cerchio che termina lo nostro emisperio da quel di sotto, dal quale in su possiamo vedere lo cielo, e da indi in giù no; ma quella parte del cielo che noi non veggiamo il di’ veggiamo poi la notte; sicchè tra di’ e notte lo veggiamo 38 tutto; e però dice l’autore che era presso al di’ quasi per due ore: imperò che Pisces che esce fuori dell’orizonte innanzi ad Aries nel quale era allora il sole che facea il di’, guizzava 39 su per l’orizonte; cioè incominciavano ad apparire nel nostro emisperio dalla parte dell’oriente: e notantemente dice guizzavano, avendo respetto alla natura del pesce 40 che guizza nell’acqua. E dopo lo nascimento di Pisces seguita lo nascimento di Aries, sotto quale era il sole che facea lo di’; e del nascimento dall’un segno all’altro non può avere più che due ore; et imperò seguita ch’era presso al di’ a due ore: e poi ch’à mostrato lo tempo per lo segno Pisces, lo dimostra per lo suo opposito che si chiama Virgo: però che quando Pisces nasceva nel nostro emisperio, allora Virgo 41 tramontava nell’altro; e questo dimostrò molto sottilmente per lo carro dicendo: E il Carro tutto sopra il Coro giace. Onde è da sapere che il Carro si chiama quelle sette stelle che girano intorno alla tramontana nel polo artico, che ne vanno quattro innanzi accompagnate due e due, e tre vengono poi in filo; ma l’ultima torce un poco allato, e questa ultima sta sempre diritta al segno Leo, onde quando Leo è per tramontare, questo timone è dritto verso l’occidente e le quattro dinanzi ànno già data la volta tra l’occidente e settentrione, onde viene un vento che si chiama Coro, e però disse: E il Carro tutto sopra il Coro giace; cioè sopra quella parte onde soffia Coro; e poi che l’à sollicitato del seguire, lo sollicita del discendere, dicendo: E il balzo; cioè la ripa alta, via là oltre si dismonta; cioè si discende; e così s’appressarono alla scesa. E qui finisce il canto XI.
- ↑ C. M. come li lassati: e perchè ti basti poi pur lo vedere,
- ↑ Al nostro Codice manca — che — lo negano, - le quali tre parole abbiamo tolto dal Magliabechiano, acciocchè il senso corresse più spedito. E.
- ↑ C.M. biastimatori
- ↑ C.M. quando vive per usanza
- ↑ C. M. alta per mostrare che grande
- ↑ C. M. in tondo
- ↑ C.M. se non che i cardinali
- ↑ C.M. fuora tutte le intestina di sotto.
- ↑ C.M. convien esser più tardo;
- ↑ C. M. non abbi più a dimandare,
- ↑ C. M. malizia che acquista odio
- ↑ C. M. per forza,
- ↑ C. M. si può distinguere in tre modi,
- ↑ C. M. si offende
- ↑ C. M. pentire
- ↑ C. M. questi due modi
- ↑ C. M. contra la sentenzia divina senza
- ↑ C. M. il biastima.
- ↑ C. M. biastimare
- ↑ C. M. biastimandolo e negandolo. E dèsi
- ↑ C. M. E quine dove era la città è avale uno stagno, - Erono; erano, è cadenza comune tra il popolo toscano; ma non approvata. Essa provenne dall’aver dato l’uscita in ono a tutte le terze persone plurali del presente indicativo: amono, sentono; amavono, sentivono. E.
- ↑ C. M. buono, essendo rio, e per questo s’intende l’ ipocriti,
- ↑ C. M. simonia; cioè venditori delle cose sante, che commettono simonia, Ruffian;
- ↑ C. M. l’uno omo
- ↑ C. M. e puosi eterno per perpetuo.
- ↑ C. M. o d’avere la mente
- ↑ C. M. della Filosofia
- ↑ C. M. da lei è nipote
- ↑ C. M. dal principio
- ↑ C. M. parte, unde vien quel vento, che si chiama
- ↑ Il Codice Antaldino offre una lezione che esprime con più di precisione il concetto Dantesco - E che si scontran con sì aspre lingue. E.
- ↑ C. M. sotto questa diffinizione l’autore
- ↑ C. M. dalla concupiscenzia consenta, e per tanto incontinenzia, e se resistesse,
- ↑ ritrasene; se ne ritra, o ritrae. Ritra deriva dall’infinito ritrare. E.
- ↑ C. M. E questo seguita: imperò che se la natura
- ↑ C. M. allora Leo. — Codesti segni del zodiaco presso gli antichi truovansi nominati quasi alla latina. E.
- ↑ C. M. delli pianeti,
- ↑ Da - poi a tutto - si è racconciato col Magliabechiano. E.
- ↑ C. M. guizzavano
- ↑ C. M. del pescio
- ↑ C. M. allora lo Leone
Note
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