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Inferno - Canto XIV Inferno - Canto XVI

C A N T O   XV.

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1Ora cen porta l’un de’ duri margini,
      E il fumo del ruscel di sopra aduggia
       Sì, che dal fuoco salva l’acqua e li argini.1
4Quale i Fiamminghi tra Quizzante e Bruggia,2
      Temendo il fiotto, che ver lor s’avventa,
      Fanno lo schermo, perchè il mar si fuggia;3
7E quale i Padovan lungo la Brenta,
      Per difender lor ville e lor castelli,
      Anzi che Chiarentana il caldo senta;
10A tale imagin eran fatti quelli,
      Tutto che nè sì alti, nè sì grossi,4
      Qual che si fosse, lo maestro felli.
13Già eravam dalla selva rimossi
      Tanto, che non avrei visto dov’era,5
      Perch’io indietro rivolto mi fossi,
16Quando incontrammo d’anime una schiera,6
      Che venia lungo l’argine; e ciascuna7
      Ci riguardava, come suol da sera

19Guardar l’un l’altro sotto nova luna;
      E sì ver noi aguzzavan le ciglia,
      Come il vecchio sartor fa nella cruna.
22Così adocchiato da cotal famiglia
     Fu’ conosciuto da una, che mi prese8
      Per lo lembo, e gridò: Qual maraviglia?
25Et io, quando il suo braccio a me distese,
      Ficca’li li occhi per lo cotto aspetto,
     Sì che il viso abbruciato non difese
28La conoscenza sua al mio intelletto:
      E chinando la mia alla sua faccia,9
     Risposi: Siete voi qui, ser Brunetto?
31E quelli: O figliuol mio, non ti dispiaccia
      Se Brunetto Latino un poco teco10
      Ritorna indietro, e lascia andar la traccia.11
34Io dissi a lui: Quanto posso ven preco;12
     E se volete che con voi m’asseggia,13
     Faròl, se piace a costui, che vo seco.
37O figliuol, disse, qual di questa greggia
    Si resta punto, giace poi cent’anni14
     Sanza rostarsi quando il fuoco il seggia.1516
40Però va oltre: io ti verrò ai panni,
     E poi rigiugnerò la mia masnada,
      Che va piangendo i suoi eterni danni.
43Io non osava scender della strada
      Per andar par di lui; ma il capo chino
      Tenea, com’uom che reverente vada.

46El cominciò: Qual fortuna o destino,
       Anzi l’ultimo di’ qua giù ti mena?17
       E chi è quei che ti mostra il cammino?
49Lassù di sopra in la vita serena,
       Risposi a lui, mi smarri’ in una valle,
       Avanti che l’età mia fosse piena.18
52Pur ier mattina le volsi le spalle:
       Questi m’apparve, tornando io in quella,
       E reducemi a ca per questo calle.19
55Et elli a me: Se tu segui tua stella,
      Non puoi fallire al glorioso porto,20
      Se ben m’accorsi nella vita bella:
58E s’io non fossi sì per tempo morto,
      Veggendo il Cielo a te così benigno,
      Dato t’avrei all’opera conforto.
61Ma quello ingrato popolo e maligno,
      Che discese di Fiesole ab antico,
      E tiene ancor del monte e del macigno,
64Ti si farà, per tuo ben far, nimico;
      Et è ragion: chè tra li lazzi sorbi
      Si disconvien fruttare al dolce fico.
67Vecchia fama nel mondo li chiama orbi,
      Gente avara, invidiosa, e superba:
      Da lor costumi fa che tu ti forbi.
70La tua fortuna tanto onor ti serba,
      Che l’una parte, e l’altra avranno fame
      Di te; ma lungi fia dal becco l’erba.

73Faccian le bestie Fiesolane strame
      Di lor semente, e non guastin la pianta,21
      S’alcuna surge ancor in lor letame,22
76In cui ruina la semente santa
      Di quei Roman, che vi rimaser, quando
      Fu fatto il nidio di malizia tanta.
79Se fosse tutto pieno il mio dimando,23
      Rispuosi lui, voi non sareste ancora
      Dell’umana natura posto in bando:
82Chè in la mente m’è fìtta, et or m’accora
      La chiara e buona imagine e paterna24
      Di voi, quando nel mondo ad ora ad ora
85M’insegnavate come l’uom sè eterna:
      E quanto l’abbia a grato, mentre vivo,25
      Convien che nella mia lingua si scerna.
88Ciò, che narrate di mio corso, scrivo,
      E serbolo a chiosar con altro testo
      A donna, che saprà, se a lei arrivo.
91Tanto vogl’io che vi sia manifesto,
      Pur che mia coscienza non mi garra,
      Che alla Fortuna, come vuol, son presto.
94Non è nuova alli orecchi miei tale arra;
      Però giri Fortuna la sua rota,
      Come le piace, e il villan la sua marra.
97Lo mio Maestro allora in sulla gota
      Destra si volse indietro, e riguardommi;
      Poi disse: Bene ascolta chi la nota;

100Nè per tanto di men parlando vommi26
      Con ser Brunetto, e domando chi sono
      Li suoi compagni più noti, e più sommi.
103Et elli a me: Saper d’alcuno è bono;
      Delli altri fìa laudabile tacerci:
      Chè il tempo saria corto a tanto sono.
106In somma sappi, che tutti fur cherci,
      E litterati grandi e di gran fama,
      D’un medesmo peccato al mondo lerci.
109Priscian sen va con quella turba grama,
      E Francesco d’Accorso; anco vedervi,
      Savessi avuto di tal tigna brama,
112Colui potei, che dal Servo de’ servi
      Fu trasmutato d’Arno in Bacchiglione,
      Dove lasciò li mal protesi nervi.
115Di più direi; ma il venir e il sermone
      Più lungo esser non può: però ch’io veggio27
      Surger là nuovo fumo del sabbione.28
118Gente vien con la quale esser non deggio:
      Siati raccomandato il mio Tesoro,29
      Nel quale io vivo ancora; e più non cheggio.
121Poi si rivolse, e parve di coloro,
     Che corrono a Verona il drappo verde
     Per la campagna; e parve di costoro
124Colui che vince, e non colui che perde.

  1. C. M. e i margini
  2. v. 4. Tra gli antichi codici e stampe altri danno Guizzante ed alcuni Guzzante; ma nessuno di questi sembra il vero nome. Sarà forse Cadsandt o Cassand. E.
  3. v. 6. Fuggia; da fuggere che rende fuggia e fugga sì, come chieggia, e chiegga; veggia e vegga. E.
  4. v. 11. C. M. non sì alti,
  5. v. 14. C. M. ch’io
  6. v. 16. C.M. Quando scontrammo
  7. v. 17. C. M. Che venian
  8. v. 23. da un che mi prese
  9. v. 29. chinando la mano
  10. v. 32. C. M. Ser Brunetto
  11. v. 33. Traccia vale qui brigata, schiera, torma. E.
  12. v. 34. Preco: imitazione latina, come al c. xiiiv. 38. sermo. E..
  13. v. 35. Asseggia, da asseggiare; sedere. E.
  14. v. 38. s’arresta
  15. v. 39. Rostarsi; pararsi, schermirsi. In Toscana chiamasi rosta il parafuoco.
  16. v. 39. il feggia.
  17. v. 47. C. M. Anti l’ultimo di’
  18. v. 51. C. M. Innanti che
  19. v. 54. Ca; casa, nel modo che Ennio avea adoperato do per domun, ed
    Omero δῶ per δῶμα. E.
  20. v. 56. Fallire; mancare di giugnere. E.
  21. v. 74. Di lor medesme, e non tocchin la pianta,
  22. v. 75. C. M. nel lor letame,
  23. v. 79. Se fosse pieno tutto il mio dimando,
  24. v. 83. C. M. La cara e buona imagine paterna
  25. v. 86. C. M. a grado mentr’io vivo,
  26. v. 100. C. M. Non per tanto
  27. v. 116. C. M. perchè io veggio
  28. v. 117. C. M. Là surger
  29. v. 119. Sieti

C O M M E N T O

Ora cen porta l’un de’duri ec. Qui si comincia lo xv canto, lo quale 1 col sedecimo intende di trattare de’ violenti contra la natura tanto; e nel xvii canto, delli violenti contra la natura e l’arte 2, che sono puniti nel secondo girone del settimo cerchio insieme con li violenti contra Dio, secondo che finge l’autore; e dividesi questo canto principalmente in due parti, perchè prima finge che andando su per l’uno de’detti due margini; cioè su per quello ch’era verso loro, si scontrò con ser Brunetto Latino e sua brigata, e come si riconobbe con lui e li ragionamenti ch’ebbe con lui soggiugne; nella seconda parte pone altri ragionamenti, che ebbe col detto ser Brunetto e delle sue condizioni e di Fiorenza, quivi: Et elli a me ec. La prima, che sarà la prima lezione, si divide in cinque parti: imperò che prima pone come continuarono loro cammino; nella seconda, come si scontrarono in una brigata d’anime, e come fu da una conosciuto, quivi: Già eravam dalla selva ec.; nella terza, com’elli riconobbe lei e come lo nominò e com’elli addomandò di andare con lui, quivi: Et io, quando ec.; nella quarta pone com’elli a quell’anima risponde, quivi: Io dissi a lui ec.; nella quinta pone lo modo, che tenea andando con la detta anima, quivi: Io non osava ec. Divisa la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale.
     Noi montamo 3 su l’uno de’detti margini, ch’erano le sponde del fiume ch’erano di pietra sicchè, perchè vi fosse caduto lo fuoco, non vi sarebbe acceso; e di sopra non vi potea cadere lo fuoco, perchè lo fummo del fiume lo spegnea 4. E pone due similitudini per mostrare come erano fatti questi margini, dicendo che come in Fiandra 5 è fatto tra Guizzante e Bruggia, che sono due città, per difendere la lor pianura sono fatti due margini di pietre, acciò che il flusso del mare non li allaghi; et a Padova è fatto similmente a uno fiume che si chiama la Brenta, due margini di pietre acciocchè difendano lo piano dal diluvio dell’acqua che viene la state, quando si risolvono le nevi che sono in su la montagna chiamata Chiarentana; così erano fatti quelli, benchè non fossino sì alti, nè sì grossi fatti dal maestro che li fe, qualunque si fosse. E dice che già erano tanto dipartiti dalla selva, che essendosi rivolti a dietro non l’avrebbe veduta, quando scontrarono una schiera d’anime che veniva lungo l’argine e ciascuna ragguardava Virgilio e Dante, come di notte quando è innovata la luna che non appare il suo splendore, ragguarda l’uno l’altro fisamente et accrespavano 6 le ciglia, come fa lo sartore, quando è vecchio, nella cruna dell’ago; e così adocchiato da costoro fu conosciuto da uno, che l’afferrò per lo lembo e gridò: Che maraviglia è questa che tu se’ qui? Et allora dice Dante che, fitto 7 lo suo viso per lo volto incotto per l’arsura di quell’anima, lo riconobbe benchè fosse abbruciato, e chinando la sua faccia a quella di quell’anima disse: O ser Brunetto, siete voi qui? Et allora quell’anima; cioè ser Brunetto rispose: Io voglio essere un poco teco, ritorna a dietro e lascia andare questa brigata 8. Allora disse Dante: Io ve ne priego quanto posso; e se volete ch’io mi ponga a sedere con voi, farollo se piacerà a colui col quale io vo. Allora disse ser Brunetto: Io non voglio restare d’andare: però che m’è vietato, perchè qualunque di questo luogo s’arresta punto, giace poi cent’anni sanza rostarsi 9, quando lo fuoco li viene a dosso e friggelo; e però seguita lo tuo cammino, io ti verrò accostato e poi raggiugnerò la mia brigata che va piangendo li suoi eterni danni. E soggiugne Dante che perch’elli non osava scender della strada, per non abbruciarsi i piedi andava col capo chinato, come persona che va reverente a suo maggiore. Et allora cominciò ser Brunetto: Qual fortuna o destino innanzi l’ultimo di’ della vita ti mena qua giù, e chi è colui che ti mostra il cammino? Allora risponde Dante che di sopra nella vita serena; cioè nel mondo, si ritrovò in una valle, della quale fece menzione nel principio del libro, innanzi che l’età sua fosse piena; et aggiugne che pur iermattina le volse le spalle che si partì da essa, et allor li apparve Virgilio quando tornava a dietro, e menollo a casa sua per questa via; e questa è la sentenzia litterale. Ora è da vedere lo testo con l’allegorie, ovvero moralitadi.

C. XV — v. 1-12. In questi quattro ternari l’autor nostro pone il processo del suo cammino su per uno argine del fiume, dimostrando per due similitudini com’eran fatti, dicendo: Ora cen porta; cioè Virgilio e me Dante, l’un de’duri margini; dice duri perch’erano di pietra, E il fumo del ruscel; cioè di quel che detto fu di sopra, e questo fumo così grande mostrava la gran caldezza dell’acqua 10, come noi veggiamo l’acque sulfuree calde fumano, Sì, che dal fuoco; cioè di sopra e di sotto, salva l’acqua e li argini. Questo è naturale che il fumo spenga il fuoco come veggiamo che, posta una candela accesa sopra uno fumo, incontanente si spegne; e questo è perchè il fumo caccia via l’aere, e qui ove non è l’aere non può vivere lo fuoco in fiamma, nè lume: imperò che, cessato l’aere, non à la sua esalazione la fiamma. E questo finge l’autore litteralmente, per fare verisimile la sua fizione: però che parrebbe impossibile che fossono passati per lo fuoco; e moralmente vole intendere che la considerazione della pena debita a tal peccato difende l’acqua; cioè li flussibili come l’acqua, e li margini; cioè li fermi e duri come la pietra, dal fuoco 11; cioè l’ardore e desiderio di tal peccato: e come lo fummo è demostrazione e segno del fuoco; così la demostrazione della colpa, quant’ella è grande, e la convenienza della pena a sì fatta colpa mostrata o considerata dall’uomo, lo fa cessare dal desiderio del peccato, e dal peccato. E per dimostrare com’erano fatti quelli argini, adduce due similitudini, dicendo: Quale i Fiamminghi; cioè quale argine fanno quelli di Fiandra, tra Quizzante; ch’è una città di Fiandra, e Bruggia; che è un’altra città di Fiandra, Temendo il fiotto; cioè lo flusso del mare, che ver lor s’avventa; cioè che corre verso loro, Fanno lo schermo; cioè la defensione con li argini grossi et alti dal lato, fatti di roveri e grosse le sponde; cioè le due pareti da ogni lato bene concatenate, messa la terra e ripieno in terra 12 tra li detti due steccati, perchè l’acqua non scorra su per la loro pianura, perchè il mar si fuggia; cioè acciò che tra quelli corra il mare, e non si sparga per la loro pianura. Onde qui è da sapere che il mare oceano cresce e monta 13 ogni di’ naturale, due volte, e dura lo crescere forse tre ore 14 che la corrente, e l’altre tre dura poi lo reflusso, sì che sta ore sei et altrettante sta che v’è pochissima acqua in quel canale fatto tra li due margini; e quando è lo crescimento vanno le cocche et i legni grandi infino alli ponti fatti per caricare e scaricare la mercatanzia: et è la lunghezza di questo canale, che è tra le dette due cittadi bene miglia 18, e quando cresce corre sì fortemente, che se fosse uno 15 cavallo al mezzo dello spazio e correndo andasse verso li ponti, non sarebbe giunto ad essi che lo corso dell’acqua l’arebbe 16 giunto; onde talvolta si credono li legni essere in grande pelago in quello canale, che si trovano in secco e così per opposito, passato spazio d’ore sei, e però usano li legni che sieno abili a quelle mutazioni. Aggiugne l’altra similitudine, dicendo: E quale; schermo, s’intende; cioè difensione, i Padovan; cioè quelli di Padova, che è una città di Lombardia, lungo la Brenta; che è uno fiume, che va per lo loro terreno, Per difender lor ville e lor castelli; che allagherebbono, se non avessono buoni argini, alti e grossi, Anzi che Chiarentana il caldo senta; Chiarentana è una montagna di sopra a Padova la quale di verno sta coperta di neve; quando viene lo caldo ovvero la state si struggono le nevi, come è da giugno in là, et allora comincia a sentire il caldo, che infino a quel tempo non l’à potuto sentire per la neve che v’è stata suso, e per le nevi risolute ricresce sì allora la Brenta, che allagherebbe le ville e le castella, se non fossono fatti buoni argini al fiume da ogni lato; A tale imagin; cioè similitudine, eran fatti quelli; dell’inferno al lato al detto fiume, Tutto che; cioè benchè, nè sì alti, nè sì grossi; come quelli di Padova e di Fiandra. Qual che si fosse lo maestro; cioè qualunque fosse colui che li fe, che fu Idio, come appare nella scrittura, che finge essere al sommo della porta, cap. iii ove dice: Fecemi la Divina Potestate-, felli; cioè non li fece questo maestro sì alti, nè sì grossi.

C. XV — v. 13-24. In questi quattro ternari l’autor nostro finge che, andando elli e Virgilio su per uno argine del detto fiume, scontrarono 17 una schiera d’anime, e come fu da una conosciuto, dicendo così: Già eravam; Virgilio et io Dante, dalla selva; onde eravam partiti, rimossi Tanto, che; cioè io Dante, non avrei visto dov’era; quella selva onde eravam partiti, Perch’io indietro rivolto mi fossi; per veder la selva, Quando incontrammo; Virgilio et io Dante, d’anime una schiera, Che venia lungo; cioè allato a l’argine; su per lo quale andavamo, e ciascuna; di quelle anime, Ci riguardava; cioè Virgilio e me Dante, come suol da sera Guardar l’un l’altro; delli uomini, sotto nova luna; cioè quando la luna è fatta nuova, che non à ancora lume, perchè è ancor sotto il sole; E sì ver noi; cioè Virgilio e me Dante, aguzzavan le ciglia; delli loro occhi per conoscerci e vederci meglio, Come il vecchio sartor fa nella cruna; dell’ago, che aguzza e leva in su le ciglia delli occhi, per veder meglio la cruna dell’ago. Così adocchiato; io Dante, da cotal famiglia; quale è detta di sopra, Fu’ conosciuto; io Dante, da una; di quell’anime, che mi prese Per lo lembo; cioè per l’estremo del mantello, e gridò: Qual maraviglia; è questa ch’io ti veggio qui, Dante vivo, ove non sogliono essere se non li morti?
     C. XV. — v. 25-33. In questi tre ternari finge l’autore come riconobbe quell’anima, ch’avea conosciuto 18 a lui e nominala, dicendo: Et io; cioè Dante, quando il suo braccio; quell’anima, a me; Dante, distese; per pigliarmi per lo lembo, Ficca’li li occhi; miei, per lo cotto aspetto; cioè per lo suo volto arsicciato, Sì che il viso; suo, abbruciato non difese La conoscenza sua al mio intelletto; cioè con tutto che fosse arso lo suo volto, per sì fatto modo lo ragguardai, che il mio intelletto ebbe conoscenza di lui. Qui tratta l’autor de’ soddomiti, del qual vizio per la sua bruttura non n’è da parlare; ma per satisfare alla materia, dironne più nettamente che potrò. Questo peccato è una delle spezie della lussuria; ma perchè non si cade in sì fatto peccato se non per propia malizia o bestialità, però à trattato d’esso dentro alla città Dite e non ne fece menzione di fuori, ove trattò della lussuria, in quanto viene per incontinenzia. E perchè in sì fatto peccato si fa contra la natura, però l’à posto sotto la violenzia, et à finte sì fatte pene, come sono state dette di sopra: con ciò sia cosa che si truovino essere in sì fatti peccatori nel mondo. E verisimilmente finge che per convenienzia rispondono 19 tutti abbruciati e che per l’arsione non sono conosciuti, e veramente tali peccatori nel mondo non si possono conoscere essere uomini; ma peggio che bestie quando ardono di tal peccato, e però finge che si chinasse per riconoscer ser Brunetto, e però dice: E chinando la mia alla sua faccia; per vederlo meglio, Risposi; domandandolo, e dissi: Siete voi qui, ser Brunetto? Quasi dica: Io non conobbi mai che voi fossi 20 macchiato di tal vizio, che voi doveste essere in questo luogo, e per tanto vuole scusare sè l’autore, che ben ch’avesse conversazion con lui, non lo conobbe mai vizioso di tal vizio; ma poi mostra che l’avesse per fama, che fosse di tal vizio maculato. Questo ser Brunetto fu uno notaio fiorentino che fu grande scientifico et ancora astrologo, come apparirà di sotto, e compuose un libro il quale si chiama Tesoro, nel quale trattò della filosofia naturale, trattando della composizion del mondo; e similemente della morale e dell’arti liberali e meccaniche e di teologia, quasi ponendo quivi le più preziose cose, e però fu chiamato Tesoro, e fecelo in lingua francesca; et un altro libro che si chiama il Tesoretto in lingua latina e volgare; e da questo ser Brunetto Dante imparò molto, e però li fa grande reverenzia. E quelli; cioè ser Brunetto disse a Dante: O fìgliuol mio, non ti dispiaccia Se Brunetto Latino; ecco che si nomina elli, un poco teco Ritorna indietro; per ragionarti, e lascia andar la traccia; delli altri. E questa fizione è necessaria secondo la lettera: imperò che andando Dante in là, e ser Brunetto 21 in contro a lui, era bisogno se voleano ragionare, o che s’arrestassono, o che l’uno o ver l’altro tornasse a dietro; ma finge l’autore che ser Brunetto torni a dietro innanzi ch’elli, perchè è più conveniente: però che Dante guidato dalla ragione significata per Virgilio, andava per tornare alle virtù per considerazione de’ vizi e peccati e delle loro pene sì, che non si convenia tornare addietro; ma sì andare innanzi.

C XV — v. 34-42. In questi tre ternari l’autor finge lo ragionamento, ch’ebbe con ser Brunetto, dell’andare e dello stare, dicendo: Io; cioè Dante, dissi a lui; cioè a ser Brunetto: Quanto posso ven preco; che torniate a dietro meco; E se volete che con voi m’asseggia; cioè a sedere mi ponga, Faròl, se piace a costui; cioè a Virgilio, che vo seco; cioè che vo con lui. E qui è notabile che l’uomo non dee deliberare, se non quel che detta la ragione, e così dimostra l’autor moralmente, rimettendo la volontà sua in Virgilio, lo quale significa come dimostrato è in più luoghi, la ragione; et allora rispose ser Brunetto, dicendo: O figliuol, disse; ser Brunetto a Dante; ben se li convenia questo nome: imperò ch’era stato suo discepolo, qual di questa greggia; cioè di questo luogo del terzo girone: greggia è lo luogo dove sta la mandria delle pecore; ma qui si pone per lo luogo a quelli dannati deputato, Si resta punto; cioè che non vada continuamente, giace poi cent’anni; per pena della disubbidienza della giustizia, Sanza rostarsi; dalle fiamme che caggiono 22 sopra di lui, quando il fuoco il seggia; cioè lo fascia e cuocelo: propiamente s’intende siede sopra esso. Per questa fizione mostra 23 l’autore la pena de’ violenti contra la natura, tanto che sono li soddomiti, della quale fu detto di sopra, e però non si replica qui; e dimostra che non sia licito a nessuno dell’inferno cessarsi dalla Giustizia divina: imperò che sarebbe violento contro a Dio 24, che è giacere come fu detto di sopra; et in quanto dice cent’anni seguita l’autorità di Virgilio che dice dell’insepulti; cioè non sepeliti: Centum errant annos, e de’si intendere tempo infinito per lo finito: imperò che dice cent’anni, comprendendo tutta la vita corporale dell’uomo che si termina in fra questi cent’anni; così volle intendere tutta la vita spirituale, che non à termine, giacciono li violenti contra Idio. E moralmente intendendo di quelli del mondo, si può esporre che quando quelli del mondo, che vanno discorrendo per sì disonesto vizio, vi s’arrestano per ostinazione, giacciono poi cent’anni; cioè tutto il tempo di loro vita, in sì fatta bruttura, sanza rostarsi; cioè difendersi da sì fatta arsione et incendio di sì fatto vizio. Però va oltre; dice ser Brunetto a Dante: io ti verrò ai panni; cioè ti verrò al lato, E poi rigiugnerò la mia masnada; cioè la mia brigata, Che va piangendo i suoi eterni danni; cioè le sue pene, che durano in eterno.

C. XV — v. 43-54. In questi quattro ternari l’autor finge che ser Brunetto lo domandasse di due cose, e com’eili a ciò rispose; ma prima pone lo modo che tenea ad andare con ser Brunetto, dicendo: Io; cioè Dante, non osava scender della strada; cioè d’in sul margine in sul quale io era: imperò che io mi sarei abbruciato per l’arsura, Per andar par di lui; cioè di ser Brunetto, ch’era conveniente che li facesse reverenzia. E questo si può esponere moralmente, ch’elli non osava scendere della fermezza e costanzia a che l’avea menato la ragione, per essere pari di ser Brunetto in sì fatto vizio; e per questo vuol dimostrare che, benchè avesse conversazione con lui in questa vita, sempre la conversazion sua fu onesta. ma il capo chino Tenea; Io Dante, com’uom che reverente vada; facevali reverenzia, come a suo maestro. E qui è notabile che l’uomo vizioso in alcuno peccato puote avere virtù in sè, per la quale merita onore e reverenzia; e così mostra l’autore che facesse a ser Brunetto nella vita presente onorando la virtù ch’era in lui, lasciando il vizio; et accordasi con la esposizione fatta di sopra. El; cioè ser Brunetto, cominciò: Qual fortuna o destino; cioè qual felicità de’ corpi celesti o ver qual grazia della providenzia di Dio: imperò che ser Brunetto fu astrologo, come apparirà di sotto. Finge che domandasse di queste due cose qual fosse l’una; cioè, o fortuna, o destino; e della prima finge che domandi, per satisfare all’opinione che comunemente tengono li astrologi; della seconda, per satisfare alla fede catolica che tiene che li uomini sieno predestinati, o presciti da Dio, sì che l’una pose per sè ch’era astrologo, e l’altra per Dante ch’era catolico. Et è qui da notare che fortuna è l’evenimcnto 25 delle cose provedute da Dio, lo quale evenimento è cagionato dalle influenzie de’ corpi celesti che sono cagioni seconde, e della prudenzia di Dio, come da cagione prima sì, che intendendo come si dee, non è fortuna sanza destino; ma destino è ben sanza fortuna, inanzi che le cose abbino effetto. E di questa fortuna è stato detto per l’autore, di sopra assai sofficientemente: imperò che tale cammino non si potea 26 fare sanza guida e dimostratore. Dante è domandato da ser Brunetto chi è la sua guida: imperò che, benchè dicesse di sopra: Faròl, se piace a costui, che vo seco; si potea intendere ch’andasse come compagno, non come maestro. Anzi l’ultimo di’; cioè innanzi la morte, qua giù ti mena; cioè, qua giù nell’inferno, che non potrebb’essere, sanza speciale grazia di Dio? E chi è quei che’ ti mostra il cammino? Domanda ora chi elli à per sua guida, e così à poste due domande alle quali Dante risponde, e prima alla prima, dicendo: Lassù di sopra in la vita serena; cioè chiara; cioè nel mondo, e ben dice: lassù di sopra: imperò che il mondo era sopra al luogo ove finge che fossono, Risposi; io Dante, a lui; cioè a ser Brunetto, mi smarrì in una valle; io Dante, e questa fu la valle de’ vizi, Avanti che l’età mia fosse piena; cioè fosse perfetta, e questo appare nel primo canto di questa prima cantica, ove dice: Nel mezzo del cammin di nostra vita Mi ritrovai per una selva oscura. Et è qui da notare che l’etadi dell’uomo, secondo che pone Ughiccione 27 e Papia, sono sei; cioè infanzia, puerizia, adolescenzia, giovanezza, virilità e vecchiezza. Infanzia è in fino alli 7 anni; puerizia infino alli 14; adolescienzia da indi infino alli 24; giovanezza da indi infino alli 49; virilità, o vero28 senior che così la chiamano, da indi infino alli 70; vecchiezza, o vero decrepità, da indi infino al fine della vita. E di queste sei età l’età piena s’intende la giovanezza 29 che non cresce più, nè manca l’uomo in quella età la quale li Filosofi chiamano Acines; cioè età di consistenzia. E che l’autore dica che si smarrì in una valle innanzi che l’età sua fosse piena, puossi intendere che si smarrì dalla via diritta, incominciando infino dalla puerizia et avvidesene poi, quando fu nell’età piena; cioè nelli 35 anni, e però disse nel principio che elli si trovò Nel mezzo del cammin di nostra vita in una selva oscura Che la diritta via era smarrita. E non dice quando la smarrì; ma ben dice che si ritrovò nella selva de’ vizi, e che se n’avvide nel mezzo del cammin di nostra vita; cioè nelli 35 anni: però che in fino al tempo dell’autore l’umana vita non si stendea, se non in pochi, oltre alli 70 anni, e quello che è più oltre si può chiamare non vita; ma fatica e dolore: e così chiaramente si vede come s’accorda questo con quello, che fu detto di sopra nel principio del libro. E perchè la moralità di questo smarrire e dell’altre cose, che qui si toccano, fu detto di sopra nel primo canto, però non si pone qui, Pur ier mattina; cioè venerdi’ santo in sul di’, come fu detto di sopra, le volsi le spalle; a quella valle e tornai a dietro alla via diritta delle virtù, per montarvi; ma le tre bestie lo impacciarono e non lo lasciarono montare, e Virgilio li apparve in quella, e però dice: Questi m’apparve; cioè Virgilio, tornando io in quella; cioè ch’ancora tornava in quella valle sinistra delli vizi, ond’io m’era partito, E reducemi 30 a ca; cioè a casa; cioè alla contemplazione delle virtù e delli loro premi, che è la casa ove si dee abitare mentre che siamo in questa vita, operando in quello 31 sì che poi aviamo per premio l’abitazione del cielo, che è casa apparecchiata alli uomini virtuosi, per questo calle; cioè per questa via della considerazione de’ vizi e delle lor pene, come sposto fu moralmente nel primo canto, e così risponde alla seconda domanda. Et è qui da notare che alla prima domanda l’autore non rispose, e così alla seconda, se non per demostrazione: imperò che al savio uomo basta a rispondere per sì fatto modo, et elli poi giudica sopra il fatto; l’autore à risposto così. Ora può ser Brunetto giudicare, se la fortuna o il destino è stato buono o rio; e così l’autore à dimostrato Virgilio, e detto che è sua guida, lo quale ben vedea ser Brunetto; ma non sapea se andava come guida, o come compagno. Ora per la demostrazione è fatto certo ch’elli si è guida, e puossi vedere che lo nostro autore, non sanza intendimento finse queste domande fatte da ser Brunetto, e sì fatte risposte; ma industriosamente finse lo primo, per dichiarare quello che non è ben chiaro nel primo canto; cioè che s’intendesse per lo mezzo del cammino di nostra vita, e qual fosse il colle ove terminava la valle; lo secondo, per dimostrare a ser Brunetto, come a filosofo et astrologo, che non avea conoscenzia di Virgilio che era poeta. E così finisce la prima lezione del canto xv.
     Et elli a me ec. Qui si comincia la seconda lezione del sopraddetto canto, nel quale l’autor pone quel che finge che ser Brunetto li dicesse del suo corso prima, e poi delle condizioni de’ Fiorentini, e nominasseli quelli ch’erano con lui, e come si ritornò poi a’ suoi. E dividesi questa lezione in cinque parti: imperò che prima pone quello che finge che li dicesse del corso della vita sua, e poi delle condizioni de’Fiorentini; nella seconda pone quel, ch’elli rispose a ser Brunetto, qui: Se fosse tutto pieno ec.; nella terza pone come Virgilio commenda la notabile risposta che fece Dante della fortuna, quivi: Lo mio Maestro ec.; nella quarta pone come, andando con ser Brunetto domanda chi sono i compagni suoi, e com’elli ne nomina alquanti, e scusasi delli altri, et accomiatasi da Dante, quivi: Non pertanto di men ec.; nella quinta pone come ser Brunetto tornò a’ suoi compagni, quivi: Poi si rivolse ec. Divisa adunque la lezione, si è ora da vedere la sentenzia litterale. Dice adunque così:
     Che poichè Dante manifestò a ser Brunetto, com’era venuto quivi per singular grazia di Dio, signor grazioso, e chi era quelli che li mostrava il cammino, ser Brunetto sì li cominciò a parlare in questa forma: Se tu segui la inclinazione naturale della costellazion tua, non può fallire che tu non vegni al porto glorioso, se ben m’accorsi d’essa nel mondo: e se io non fossi morto sì tosto, t’avrei dato conforto all’opera, veggendo lo cielo così benigno verso di te; et aggiugne certe cose future per modo di predire, che già erano state, dicendo: Ma quello popolo ingrato e maligno, che discese da Fiesole et ancora tiene del monte e del macigno, ti si farà nimico per tuo ben fare; e questo è ragione che non si conviene al fico che è dolce, fruttificare tra i sorbi che sono afri 32. E continuando le condizioni 33 dice: Vecchia fama nel mondo li chiama orbi, invidiosi, avari e superbi nel mondo, e però fa che ti forbi da’ loro costumi: et aggiugne poi che l’à ammonito delle condizioni loro da esse schifate, e confortalo di lui medesimo, dicendo: La tua fortuna tanto onore ti serba, che l’una parte e l’altra di Fiorenza avranno desiderio di te; ma non se ne sazieranno; e seguitando la sua figura dice: Facciano le bestie Fiesolane strame di lor semente, e non guastin la pianta, se d’egli ne surge alcuna buona ancor nel loro letame, nel quale rovina e perdesi la sementa santa di quelli Romani, che vi rimasono quando fu fatta Fiorenza, nidio di tanta malizia. Finito lo ragionamento di ser Brunetto, rispose Dante: Se fusse tutto adempiuto la mia domanda, voi non sareste ancor morto: chè m’è fitto nella mente, et ora mi rinvigorisce la serena e chiara vostra imagine e paterna, che mi mostravate nel mondo quando m’insegnavate come l’uomo si fa eterno; e quant’io l’abbia a grado conviene che si veggia nella mia lingua: cioe 34 che mi narravate 35 del corso della mia vita scrivo, e serbo a chiosare con altro testo a donna, che saprà se io arriverò a lei. Ma di me tanto vi voglio dire, che io sono apparecchiato alla fortuna com’ella vuole, purchè non mi garra la mia coscienzia: non è nuova alli orecchi miei tal arra, e però giri la fortuna la rota sua, come le piace, e il villano la sua marra. Allora Virgilio si rivolse in sulla gota ritta a dietro, e riguardando Dante, disse: Bene ascolta chi la nota; et aggiugne Dante che niente meno s’andava favellando con ser Brunetto, e domandò chi erano li suoi compagni più cari 36 e più sommi. E ser Brunetto rispose, che buono era a sapere d’alcuni, delli altri era laudevole di tacere: chè il tempo sarebbe corto a dirli di tutti; e diceli in somma: Sappi che tutti furono cherici e grandi letterati e di grandissima fama, brutti al mondo d’uno medesimo peccato; e nomina prima Prisciano grammatico e Francesco d’Accorso: e se avessi avuto voglia di sapere d’un altro, che fu vescovo fiorentino e mutato dal papa a Vicenzia, anche ve lo potevi vedere. Di più ti direi; ma il venire e lo sermone non può essere più lungo, per ch’io veggio oltre nuovo fummo del sabbione; della rena, che è uno segno che gente viene che non è di mia condizione sì, ch’io non debbo essere con loro; et aggiugne: Siati raccomandato il mio Tesoro, nel quale ancora per fama vivo; più non t’addomando. E detto questo, si volse a dietro e corse a modo che corrono quelli, che corrono a Verona il drappo verde, e certo elli parve di coloro, colui che vince e non colui che perde; e qui finisce lo canto et eziandio la lezione. Ora è da vedere la esposizione del testo con le moralità et allegorie.

C. XV — v. 55-78. In questi otto ternari l’autor nostro finge come ser Brunetto, avuta la risposta di Dante ai suoi domandi, conforta Dante a seguitar lo proponimento suo, e manifestali predicendo quello, che dee avvenire a lui del suo fatto 37 e del corso della sua vita, et ammonendolo delle condizioni viziose de’ suoi cittadini, comandandoli che si guardi da esse, dicendo così: Et elli; cioè ser Brunetto disse, a me; cioè Dante, finita la mia risposta detta di sopra: Se tu segui tua stella; cioè la influenzia felice, che tu ài dalla tua costellazione: imperò che in noi è lo volere seguire, o no, Non puoi fallire; che tu non venghi, s’intende, al glorioso porto; cioè a fine che tu sarai glorioso; e questo dice, perchè vide che dovea avere la comune influenzia concordevole, Se ben m’accorsi; cioè se io ben vidi la tua costellazione e la comune, nella vita bella; cioè quando io era nel mondo, lo quale appella bella vita, perchè il mondo è troppo a piacere a’ peccatori, e però vanno a perdizione: imperò che la complacenzia delle cose mondane tira l’anima da Dio, e falla serva della sensualità. E qui sono da notare due cose; prima quando dice tua stella, che benchè ciascuno uomo nasca sotto alcuna costellazione, la quale li dia alcuna inclinazione con la sua influenzia, in sua podestà è di seguitarla, o no, e però si dice: Sapiens dominabitur astris: imperò che, benchè l’uomo sia coartato dalla influenzia dei corpi celesti, non è però necessitato al tutto, sì che in lui è lo libero arbitrio volere seguitare o no, e lo mettere ad esecuzione secondo che è aiutato dalla grazia di Dio, sanza la quale non si può seguitare lo bene, e fuggire lo male. E questa cotale influenzia della costellazione può essere comune e propria; comune è quando influisce sopra molte cose; propia è quando influisce sopra uno individuo, e questa è in ciascuno uomo, e chiamasi inclinazione naturale, e dicano 38 li astrologi che si piglia dalla natività; cioè secondo la costellazione nella quale l’uomo nasce; e però veggiamo che ogni uomo à sua inclinazione, chi a una cosa e chi a un’altra; e questa chiamano li volgari natura, dicendo: Tu se’ d’una natura, et io d’un’altra. Et al mio parere questo dissono li poeti essere ingegno, lo quale diceano essere lo idio propio di ciascuno uomo, lo quale nascea e moria con l’uomo, e lo quale poneano mutevole in contrarie qualità come appare d’Aristotile che, essendo grosso d’ingegno e lussurioso, per l’astinenzia diventò casto, e per lo studio, ingegnoso, onde Orazio nell’ultimo libro delle sue epistole, dice: Scit genius, natale comes qui temperat astrum, Naturae Deus humanae, mortalis in unum quodque caput, vultu mutabilis, albus, et ater. E la influenzia comune è quella che è chiamata Fortuna. E però disse l’autore di sopra: Qual fortuna o destino; e nella seconda cantica dice ancora: Sempre natura se fortuna truova Discorde a sè, come ogn’altra semente Fuora di sua region fa mala pruova. E per queste parole possiamo comprendere che volere seguitare o no la inclinazione naturale sta in noi; ma l’operare sta nella grazia di Dio principalmente, e susseguentemente nelle cagioni concorrenti, le quali aviamo detto che si chiama Fortuna; cioè l’effetto delle cose provedute da Dio, proveniente per mezzo delle cagioni; e per tanto la Fortuna non può essere se non buona, per respetto della providenzia di Dio che non può provedere se non bene, benchè li uomini per respetto di sè dicano altrimenti, e questo dimostra assai chiaro Boezio nel quarto libro della Filosofica Consolazione. Lo secondo che si dee notare, è quando dice al glorioso porto e qui doviamo notare, che gloria non è altro, che chiara notizia con loda; e però intese: Tu non puoi fallire che tu non vegni a grande gloria: e così è che per questa opera l’autore nostro è venuto in notizia in molti chiara e manifesta, et è da loro lodato; e la infamia è contraria alla gloria: imperò che infamia è notizia sozza con vituperazione e biasimo: imperò che dispiace et è biasimato 39. Et ancora è da notare, quando disse: Se ben m’accorsi nella vita bella, che i dannati non ànno notizia del futuro, se non quanto avessono avuto nel mondo per loro congetturazioni o per revelazioni fatte loro da Dio o per considerazioni astrologiche. Potrebbe ancor essere che il dimonio revelerebbe loro per sue congetture o per astrologia quello che vedesse: chè veramente non può sapere lo futuro, che Idio l’à reservato a sè. Possono bene li dannati congetturare, come fu fatto 40 di sopra, nel canto x. di messer Farinata; ma li beati ànno bene notizia d’ogni cosa: imperò che si specchiano in quello specchio ove riluce ogni cosa, come dice santo Agostino: Quid est quod non videant qui videntem omnia vident?E s’io non fossi sì per tempo morto; disse ser Brunetto, se io non fossi morto sì tosto, com’io morii, Dato t’avrei all’opera conforto; cioè all’opera di questa Comedia, a te Dante, Veggendo il Cielo a te così benigno; cioè veggendo il favore che tu avevi dalla influenzia comune e della tua propria costellazione; et oltra questo ser Brunetto li dice delle persecuzioni che dè avere, dicendo: Ma quello ingrato popolo e maligno; cioè fiorentino; e che s’intenda d’esso lo dimostra quel che seguita, Che discese di Fiesole ab antico; cioè è gran tempo, Fiesole fu una città posta in su uno monte 41 molto alto, presso a Fiorenza a tre miglia; della qual città uscirono certi cittadini, li quali insieme con certi cittadini usciti di Roma edificarono primamente Fiorenza; e poi che Attila la disfece, li Fiesolani dierono grande impaccio a quelli che la vollono reedificare, e non l’avrebbono potuta reedificare, se non ch’ebbono la forza dello imperadore e de’ Romani; ma poi si vendicarono de’ Fiesolani in processo di tempo sì, che disfeciono la città, E tiene ancor del monte; cioè della superbia significata per lo monte; e questo dice quanto alla lettera, perchè Fiesole 42 fu in monte, e del macigno; cioè dell’asprezza e durezza: imperò che la macina è aspra e dura, e così è lo popolo fiorentino, dice ser Brunetto; cioè superbo, aspro e duro, in quanto tiene di quella natura montanina e fiesolana, Ti si farà; a te Dante, per tuo ben far, nimico; cioè, per favoreggiare lo bene comune e per difendere la libertà, come fu detto di sopra nel x canto; Et è ragion; che ti si faccia nimica 43: imperò che i buoni non sono amati da’ rei, chè; cioè imperò che, tra li lazzi sorbi; cioè aspri, Si disconvien fruttare al dolce fico; cioè non si convien che il fico, che è dolce, frutti tra li sorbi che sono aspri; e così per simile non si conviene che tu, che se’buono e dolce, stii tra’ Fiorentini che sono aspri e rei. Et occorre qui uno dubbio; come induce Dante ser Brunetto a dir qui che dovesse venire quello, che era già stato? A che si dee rispondere che questo è comune de’ poeti di dire le cose state, come se fossono a venire; ma ben le dicono per modo, che pare che abbino a venire, come ora mostra qui Dante che ser Brunetto dicesse, secondo ch’elli s’avvide in fin ch’elli vivea, che allora non erano ancora le cose avvenute; ma quando l’autore compose questa opera, erano avvenute. E se altri opponesse che, quando Dante finge che avesse questa fantasia nelli 35 anni della sua vita, non erano queste cose avvenute, puossi rispondere che non fece lo libro, la notte che ebbe la fantasia, che sarebbe impossibile; ma fecelo poi in parecchi anni, et aggiunse al suo libro e tolsene, secondo che le cose avvenivano in fino ch’ebbe corretto lo libro a suo modo 44. Ancora è da notare che l’autore in questo parlare di ser Brunetto usa uno colore, che si chiama denominazione in latino, et in greco metafora; quando una dizione si tramuta dal suo proprio significato alio impropio, come fa l’autore che pone li sorbi per li aspri cittadini, e lo fico per lo dolce, come era elli e li suoi simili; e poi ch’à mostrato le condizioni de’ Fiorentini secondo l’origine, dimostrale ancora secondo la fama, dicendo: Vecchia fama; cioè antica, nel mondo li chiama orbi; cioè ciechi, e questo era perchè erano tenuti poco proveduti ne’ fatti loro, Gente avara, invidiosa, e superba; questi tre vizi comunemente sono in loro; onde di sopra ancora disse l’autore: Superbia, invidia et avarizia sono Le tre faville ch’ànno i cuori accesi. E questo s’intende in comune, che in particolare pur vi sono delli buoni che non ànno questi vizi, onde ammonisce ser Brunetto l’autore dicendo: Da’ lor costumi; cioè da’ Fiorentini, fa che tu ti forbi; cioè tu Dante sì, che tu non ne sia macchiato, com’ellino. La tua fortuna; continua ser Brunetto lo suo vaticinio, dicendo che il favore della influenza comune, che Dante à d’essere glorioso e famoso, tanto onor ti serba; a te Dante, Che l’una parte, e l’altra; cioè Bianchi e Neri, avranno fame; cioè desiderio, Di te; Dante; ma lungi fia dal becco l’erba; cioè di lungi fia lo saziamento del loro appetito. E per questo mostra che Dante, infastidito per le condizioni de’suoi cittadini, si partì da Fiorenza, e poi rivocato più volte da loro, non vi volle mai tornare; e seguendo ser Brunetto la sua metafora, soggiugne: Faccian le bestie Fiesolane; cioè li Fiorentini discesi di Fiesole, diventati bestiali, strame; cioè pascansi e faccino strazio di lor medesime 45; cioè di quelli che sono di loro origine e non delli altri: la bestia à questa condizione che si pasce dello strame, e pascendosi se lo caccia sotto li piedi e com’ell’è sanza ragione; così vuol dire che’ Fiorentini non ragionevoli, che sono discesi da Fiesole, si pascano delli descendenti da loro, e loro calchino 46, e non guastin la pianta; cioè l’uomo virtuoso o fruttifero, come la pianta, S’alcuna surge; cioè nasce, ancor in lor letame; cioè nella loro viltà e viziosità, come nacque Dante e li altri virtuosi, In cui; cioè nel quale letame, ruina; cioè si guasta e viene meno, la semente santa; cioè l’origine santa e buona, Di quei Roman; cioè cittadini di Roma, che vi rimaser; insieme coi Fiesolani in Fiorenza, quando Fu fatto il nidio; cioè di Fiorenza, di malizia tanta; quanta qui è abondata. E per questo si può comodamente intendere che l’autor voglia dimostrare l’origine dei Fiorentini non essere solamente da’ Fiesolani; ma eziandio da li Romani.

C. XV — v. 79-96. In questi sei ternari finge l’autor nostro com’elli rispose a ser Brunetto, dicendo: Se fosse tutto pieno il mio dimando, Rispuosi lui; dice Dante a ser Brunetto, voi non sareste ancora; cioè voi ser Brunetto, Dell’umana natura posto in bando; cioè morto: però che chi è morto è in bando dell’umana natura: imperò che l’umana natura è essere unita l’anima col corpo, e da questa unità s’era partito ser Brunetto sì, che non vi potea tornare infino al di’ del Giudicio: Chè in la mente; cioè nella mente mia, dice Dante, m’è fitta, et or m’accora; cioè m’invigorisce e conforta, La chiara e buona imagine e paterna; cioè la similitudine e la memoria che come padre m’ammonavate 47, Di voi; ser Brunetto, quando nel mondo ad ora ad ora M’insegnavate come l’uom sè eterna; cioè si fa eterno. Et è qui da notare che l’uomo si fa eterno con le buone e virtuose opere, per le quali dura la fama del mondo, o vero dell’uomo nel mondo eterna. Et intendendo a questo modo eterna si pone impropriamente; cioè si sempiterna: imperò che eterno è sanza principio e sanza fine; ma sempiterno è con principio e con fine; ma dura lungo tempo. Potrebbesi ancora intendere eterna; cioè perpetua, et allora nel mondo determina quel verbo m’insegnavate, et intendesi che l’uomo si perpetua con le buone opere: imperò che nel mondo vive 48 per fama et in cielo vive 48 per gloria sanza fine. E quanto l’abbia a grato; io Dante questo insegnamento et ammonimento, mentre vivo; cioè mentre ch’io viverò, Convien che nella mia lingua si scerna; cioè si conosca e vegga in quest’opera, la quale io ò fatta. Ciò, che narrate; voi ser Brunetto, di mio corso; cioè di quello che mi dee avvenire nel corso della mia vita, scrivo; io Dante in questa Comedia, E serbolo a chiosar; cioè a disporre, con altro testo; di questa Comedia; cioè con quello che finge che li dicesse messer Farinata, di sopra nel canto x. cioè: Ma non cinquanta volte fia raccesa La faccia della donna, che qui regge, Che tu saprai quanto quell’arte pesa; insieme questo con quello che fu detto di sopra, dice che serba a disporre, A donna, che saprà; cioè a Beatrice che significa la santa Teologia, come detto fu di sopra, e come afferma l’autore nel sopra detto canto, ove finge che Virgilio dica: La mente tua conservi quel che udito Ài contra te, mi comandò quel saggio, Et ora attendi qui, e drizzò il dito. Quando sarai dinanzi al dolce raggio Di quella, il cui bell’occhio tutto vede, Da lei saprai di tua vita il viaggio. Et è qui notabile che l’uomo non dee credere alli indovinanti et alli predicatori, se non quanto permette la santa Teologia. Dice poi: se a lei arrivo; questo si dee intendere, se io compierò, e continuerò questa mia opera, tanto ch’io finga ch’io arrivi a lei, e ch’io finga quel che Beatrice predica della mia vita; e questo fa nella terza cantica, nel canto xxii. Tanto vogl’io; cioè io Dante, che vi sia manifesto; a voi ser Brunetto, Pur che mia coscienza non mi garra; cioè pur che non vegna contra coscienzia, non mi ci 49 morda, Che alla Fortuna, come vuol, son presto; cioè le minaccie della fortuna non mi movono, ch’io sono apparecchiato a sostenere e portare pazientemente ogni cosa che la fortuna vuole, purchè non sia contra la coscienzia lo sostenere. Et è qui da notare che coscienzia è atto della ragione procedente dall’intelletto respettivo ad altra cosa; e però si dice coscienzia; cioè scienzia insieme con altro; cioè con libero arbitrio: imperò che il dettamento, o vero imperio della ragione detta e comanda quello che si dee fare e quel che si dee fuggire, e lo libero arbitrio delibera e vuole lo contrario: allora la ragione àe scienzia di quel che si dee fare, e contro a quello à la deliberazione e volontà del libero arbitrio. E così puoi esponere coscienzia; cioè contra sè scienzia; cioè scienzia di quel che è contra la sua dettazione. Altrimenti e meglio si può dire, secondo che dice Papia: Coscienzia è conoscimento di sè medesimo; et a questo modo può essere in male et in bene, e così dice l’Apostolo: Gaudium vestrum 50, conscientia vestra; ma quando è di bene, contenta e quieta la mente; e quando è di male, turba et inquieta la mente. E niente di meno ancor si può dire: Insieme con altri scienzia; cioè della ragione insieme con la libertà dell’arbitrio, come fu detto di sopra. Appresso è da notare che la ragione non è sottoposta alla fortuna; e però dee contrastare alla volontà, che non seguiti la fortuna in quel che non si dee. Non è nuova alli orecchi miei tale arra; cioè tal 51 patto: arra è la caparra che è fermezza del patto fatto; cioè non m’è nuovo lo patto che è tra li uomini e la fortuna, ch’altra volta l’ò udito; cioè che chi entra nel mondo conviene ch’ubidisca alla fortuna, e stare contento alle sue mutazioni; e questo dice perchè letto l’avea nelli autori, et ancora finge che Virgilio lo dicesse di sopra nel vii canto, quando disse: Colui, lo cui saper tutto trascende ec.; et aggiugne: Però giri Fortuna la sua rota. Li autori fìngono la Fortuna volgere la rota, perchè fa circulari mutazioni nelle città e comunità, come si mostra nel vii canto, e nelli signori e nelli singulari uomini, ponendoli ora in alto stato, ora in basso, ora in montamento, ora in di scendimento, Come le piace; cioè secondo lo suo piacere, ch’io son presto a far quel ch’ella vuole, che non sia contra mia coscienza, e il villan la sua marra; cioè e il contadino giri ancor la sua marra, come li piace, ch’io sono apparecchiato a sostenere, purchè non sia contro a coscienzia, quasi dica: Faccia la Fortuna e facciano li uomini, come piace loro, ch’io sono per sostenere. E questo dice notevolmente, per mostrare che li effetti della Fortuna vengono per due cagioni; l’una è da’corpi celesti e da quella sustanzia, che Dio à posto a dispensare questi beni mondani; l’altra è da libero arbitrio delli uomini: e però à nominato la Fortuna, dicendo, com’appar di sopra, per la prima cagione; e poi lo villano, per la seconda.

C. XV — v. 97-99. In questo ternario l’autor nostro finge la commendazione che fece Virgilio del detto di sopra della Fortuna, detto da Dante, dicendo: Lo mio Maestro; cioè Virgilio, allora; che Dante ebbe detto le parole dette di sopra, in sulla gota Destra si volse indietro; a Dante et a ser brunetto, e riguardommi; cioè me Dante, Poi disse; Virgilio: Bene ascolta chi la nota; cioè la detta sentenzia da Dante della Fortuna. Sopra questo è da considerare che allegoricamente l’autore finse questo essere, detto da Virgilio, acciò che facesse li lettori, che leggeranno questa cantica, attenti sopra la sentenzia detta.da lui della Fortuna; ma quanto alla lettera, Virgilio; cioè la ragione, parla a Dante; cioè alla sensualità, e fallo attento che noti la sentenzia detta da sè, sì che quando viene in pratica non la dimentichi; ma faccia come à detto. Spesse volte dice l’uomo sensualmente una vera sentenzia, e poi che viene a’ fatti e alla pratica, non osserva la sua sentenzia; e però finge l’autor che Virgilio ne l’ammonisca, et ancora a verità la sentenzia detta di sopra non è intelligibile ad ognuno.

C. XV — v. 100-120. In questi sette ternari l’autor nostro finge com’elli domanda ser Brunetto chi sono li compagni, e come ser Brunetto li risponde, dicendo: Nè per tanto di men; cioè, benchè Virgilio così dicesse, come appare di sopra, io non li rispondo; ma niente di meno, parlando vommi; io Dante, Con ser Brunetto, e domando chi sono Li suoi compagni più noti; cioè più famosi, e più sommi; cioè di maggior grado. Et elli; cioè ser Brunetto disse, a me; Dante: Saper d’alcuno è bono; dice esser buono saper d’alquanti; cioè di quelli che s’avea proposto di nominare, et artificiosamente finge che li nomini ser Brunetto, e non elli, perchè infetti di sì fatto vituperoso peccato, non sono noti se non a’ lor simili; e dice che è buono, perchè Dante adduca in esemplo in questo luogo l’infami di sì fatto peccato, come à indotto nelli altri luoghi l’infami di quella spezie di peccato, della quale elli qui trattò, sì che si guardino li lettori da sì fatto peccato e per paura della pena et ancor della infamia. Delli altri; che vi sono, fia laudabile tacerci; dice ser Brunetto, et assegna la ragione: Chè il tempo saria corto a tanto sono 52; e per questo mostra che il numero fosse grande. In somma, sappi, che tutti; cioè li miei compagni, fur cherci; cioè stati nell’ordine del chericato, E litterati grandi; queste due spezie pone insieme, perchè li cherici anticamente tutti soleano essere litterati, e più dice di costoro perchè sono sanza giogo di matrimonio, et ancora perchè a ser Brunetto si convenia sì fatta compagnia, secondo la convenienzia del testo, che pone che sieno divisi a brigate, secondo le loro condizioni, come finse di sopra cap. ix, degli eretici, quando disse: Simile qui con simile è sepolto; e così qui, e di gran fama: imperò che per la scienzia quelli che nominerà, furono uomini molto famosi, D’un medesmo peccato; cioè soddomitico, al mondo; cioè mentre che furono al mondo, lerci; cioè brutti. Priscian sen va con quella turba grama; cioè con quella moltitudine dolente. Questo Prisciano fu apostata e fu grande grammatico, et a petizione di Giuliano consolo de’ Romani compose lo volume, suo dell’arte della Grammatica in xv libri; cioè in xiii de’ costruttibili et in due ultimi della congiunzione 53; lo quale volume è ora diviso, e l’uno si chiama maggiore volume, e l’altro minore. E Francesco d’Accorso, Questo fu legista bolognese figliuolo d’Accorso, lo quale chiosò la legge, anco vedervi; tu Dante, S’avessi avuto di tal tigna brama; cioè, s’avessi avuto desiderio di tale angoscia. Molestia è ad ogni amico 54 onesto vedere li viziosi e massimamente sì fatti, che sono in odio a Dio, alla natura, et alli uomini ragionevoli, et eziandio a’ demoni; e come la tigna fa abominazione allo stomaco; così cotali peccati fanno abominazione all’animo ragionevole. Colui potei; cioè vedervi, che dal Servo de’ servi; cioè dal papa che s’intitola in tutte le sue lettere Servus servorum Dei, secondo che trovò prima, et usò sempre santo Gregorio, Fu trasmutato d’Arno; cioè da Fiorenza che è posta in su l’Arno, in Bacchiglione; cioè in Vicenza che è città di Lombardia, ov’è uno fiume che si chiama Bacchiglione, Dove; cioè in Vicenza, lasciò li mal protesi nervi; cioè li nervi del membro virile che avea teso a malo uso, in quanto l’avea usato contra natura; e pertanto significa che in Vicenza morisse costui. L’autore non nomina; ma descrivelo, et intendesi che fosse un vescovo di Fiorenza, che il papa tramutò e fecelo vescovo di Vicenza. Di più direi; dice ser Brunetto; ma il venir e il sermone Più lungo esser non può; et assegna la cagione: però ch’io; cioè ser Brunetto, veggio Surger là nuovo fumo del sabbione; cioè della rena 55; e questo era segno che gente venia. Gente vien con la quale esser non deggio; io ser Brunetto, però 56 non sono di mia condizione: Siati raccomandato il mio Tesoro; cioè il mio libro, lo quale io feci. Per questo si dee intendere che l’autore ebbe in volere di metterlo in fama in questo suo poema, come di suo fiorentino: imperò che a fama della sua città, quantunque ne dica male, sempre intese. Nel quale io; cioè ser Brunetto, vivo ancora: li scientifìchi uomini vivono in fama per le opere, ch’ànno lasciato dopo loro; e più non cheggio; io ser Brunetto da te Dante. In tutti li più de’ luoghi finge l’autore li dannati essere vaghi e desiderosi di fama, avendo rispetto moralmente a quelli del mondo li quali tutti desiderano fama, quantunque sieno viziosi. E benchè in alcuno sia già stato appetito di fama, eziandio del vizio, non è dubbio che tutti vorrebbono avere piuttosto fama di virtù, che di vizio; ma non potendola avere della virtù, come bestiali e scedati, dicono che vogliono essere nominati almeno per lo vizio, come fece Erostrato che incese lo tempio di Diana in Efeso, per esserne nominato.

C. XV — v. 121-124. In questo ternario et uno verso l’autor nostro finge lo dipartimento di ser Brunetto, e finisce lo canto dicendo: Poi; che ser Brunetto ebbe detto a Dante le cose dette di sopra, si rivolse; a dietro per raggiugnere la brigata de’ litterati, con la quale dovea essere, e parve di coloro, Che corrono a Verona il drappo verde Per la campagna 57: imperò che a Verona, che è una città di Lombardia, s’usa di correre uno palio di drappo verde da uomini da piè 58, la prima domenica della Quaresima; e parve; ser Brunetto, di costoro; che corrono, Colui che vince, e non colui che perde: sì correa fortemente. E così finisce lo canto xv.

  1. C. M. nel quale col sestodecimo
  2. C. M. la natura e l’altre, che sono puniti nel terzo girone
  3. C. M. Noi montammo in su
  4. C. M. lo spegnava.
  5. C. M. in Fiandola
  6. C. M. aguzzavano le cillia come fa lo costore, quando
  7. C. M. che ficcò lo suo viso
  8. Altrimenti - Et allora quell’anima rispuose: ser Brunetto ritornerà un poco teco addietro, non ti dispiaccia e lascerà andare la sua brigata oltre. Allora
  9. C. M. senza restarsi, quando
  10. C. M. dell’acqua, unde uscia, di sopra aduggia; cioè affumma e fa ombra, e questo era per la caldessa dell’acqua, che noi veggiamo che l’acque sulfuree
  11. C. M. del foco; cioè de l’ardore
  12. C. M. ripieno in mezzo tra li detti
  13. C. M. cresce e manca ogni di’
  14. C. M. tre ore con la corrente e tre l’altre ore dura
  15. C. M. uno a cavallo
  16. Arebbe; voce sempre vivente nel popolo tosco, la quale proviene dall’infinito are. E.
  17. C. M. scontrò una
  18. C. M. avea ricognosciuto lui
  19. C. M. rispondano a loro nello inferno, e però finge che siano tutti
  20. C. M. fuste - La terminazione fossi, come dà il nostro Codice, ora non si vorrebbe scrivere, quantunque fra gli antichi e il popolo si truovi di frequente. E.
  21. C. M. Brunetto venendo in contra lui,
  22. C. M. cadeno
  23. C. M. questa fizione manifesta
  24. C. M. contra Dio e meriterebbe pena dei violenti contra Dio, che
  25. C. M. che l’avvenimento
  26. C. M. non potea fare Dante senza
  27. C. M. Uguccione
  28. C. M. o vero senettute che
  29. C. M. di giovinezza
  30. E reducemmi
  31. C. M. operandoci in quel sì
  32. C. M. sono lazzi.
  33. C. M. delle condizioni de’ Fiorentini, dice: Vecchia fama li chiama orbi; cioè ciechi nel mondo, e gente avara, invidiosa e superba, e però
  34. Cioe; ciò, aggiuntovi al solito una vocale per dolcezza di favella. E.
  35. C. M. narrate
  36. C. M. più noti e più sommi.
  37. C. M. del suo stato, e del corso
  38. Oggi i verbi della seconda coniugazione finiscono in ono; ma in sul perfezionarsi del nostro linguaggio fu tentato di comprenderli tutti in una sola. Di qui debbano, dicano per debbono, dicono. E.
  39. C. M. è biastimato.
  40. C. M. fu ditto di sopra,
  41. C. M. monte non molto alto presso a Fiorenza per millia . .; della quale
  42. C. M. Fiesoli
  43. C. M. nimico
  44. Le correzioni della prima cantica erano già compiute nell’ottobre del 1308, dopo il qual tempo Dante si condusse a Parigi. E.
  45. C. M. di lor semente; cioè
  46. C. M. e loro scalchino,
  47. Ammonavate; ammonivate, per la consueta riduzione degli antichi. E.
  48. 48,0 48,1 C. M. viene
  49. C. M. non mi ricorda
  50. C. M. nostrum est,
  51. C. M. tal peccato: arra
  52. C. M. a tanto sono; cioè a tanto parlare; e per questo
  53. C. M. della costruzione;
  54. C. M. ad ogni animo onesto
  55. C. M. della terra;
  56. C. M. perchè non sono della mia condizione:
  57. C. M. Per la campagna: dice che ser Brunetto corse sì velocemente per aggiungere la sua brigata, ch’elli parve di quelli che a Verona correno lo drappo verde per la campagna: imperò che
  58. C. M. da omini a piè,

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