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Inferno - Canto XVI Inferno - Canto XVIII

C A N T O   XVII.

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1Ecco la fiera con la coda aguzza,
      Che passa i monti, e rompe i muri e l’armi:
      Questa è colei, che tutto il mondo appuzza.1
4Sì cominciò lo mio Duca a parlarmi,
      Et accennolle che venisse a proda,
      Vicina al fin de’ passeggiati marmi:
7E quella sozza imagine di froda
     Sen venne, et arrivò la testa e il busto;
      Ma in su la riva non trasse la coda.
10La faccia sua era faccia d’uom giusto,
      Tanto benigna avea di fuor la pelle,
      E d’un serpente tutto l’altro fusto.
13Due branche avea pilose infin l’ascelle:
      Lo dosso e il petto et amendue le coste
      Dipinte avea di nodi e di rotelle.
16Con più color sommesse e soprapposte2
      Non fer mai drappo Tartari, nè Turchi,
      Nè fur tai tele per Aragne imposte.
19Come tal volta stanno a riva i burchi,
      Che parte stanno in acqua e parte in terra,
      E come là tra li Tedeschi e i Lurchi

22Lo bivero s’assetta a far sua guerra;
      Così la fiera pessima si stava
      Su l’orlo, che di pietra il sabbion serra.
25Nel vano tutta sua coda guizzava,
      Torcendo in su la velenosa forca,3
      Che a guisa di scorpion la punta armava.
28Lo Duca disse: Or convien che si torca
      La nostra via un poco, infino a quella
      Bestia malvagia che colà si corca.
31Però scendemmo alla destra mammella,
      E dieci passi femmo in su l’estremo,
      Per ben cessar la rena e la fiammella:
34E quando noi a lei venuti semo,
      Poco più oltre veggio in su la rena
      Gente seder propinqua al luogo scemo.
37Quivi il Maestro: A ciò che tutta piena
      Esperienzia desto giron porti,
      Mi disse, or va, e vedi la lor mena.
40Li tuoi ragionamenti sien là corti:
      Mentre che torni parlerò con questa,
      Che ne conceda i suoi omeri forti.
43Così ancor su per l’estrema testa
      Di quel settimo cerchio, tutto solo
      Andai, dove sedea la gente mesta.
46Per li occhi fuori scoppiava lor duolo:4
      Di qua, di là soccorrean con le mani,
      Quando al vapore, e quando al caldo suolo.5

49Non altrimenti fan di state i cani,6
      Or col ceffo or col piè, quando son morsi7
      O da pulci o da mosche o da tafani.8
52Poi che nel viso a certi li occhi porsi,
      Nel quale il doloroso fuoco casca,
      Non ne conobbi alcun; ma io m’accorsi,
55Che dal collo a ciascun pendea una tasca,
     Ch’avea certo colore e certo segno,
      E quindi par che il loro occhio si pasca.
58E com’io riguardando tra lor vegno,
      In una borsa gialla vidi azzurro,
      Che di un leone avea faccia e contegno.
61Poi procedendo di mio sguardo il curro,
      Vidine un’altra, come sangue, rossa
      Mostrando un’oca bianca più che il burro.9
64Et un, che d’una scrofa azzurra e grossa10
      Segnato avea lo suo sacchetto bianco,
      Mi disse: Che fai tu in questa fossa?
67Or te ne va; e perchè se’ vivo anco,
      Sappi che il mio vicino Vitaliano
      Sederà qui dal mio sinistro fianco.
70Con questi Fiorentin son Padovano:
      Spesse fiate m’intronan li orecchi,11
      Gridando: Vegna il cavalier sovrano,
73Che recherà la tasca con tre becchi.
      Qui distorse la bocca, e di fuor trasse12
      La lingua, come il bue che naso lecchi.

76Et io temendo che il più star crucciasse
      Lui, che di poco star m’avea ammonito,
      Tornaimi indietro dall’anime lasse.13
79Trovai lo Duca mio, ch’era salito
     Già in su la groppa del fiero animale,
      E disse a me: Or sii forte et ardito.14
82Omai si scende per sì fatte scale:
      Monta dinanzi, ch’io voglio esser mezzo,
      Sì che la coda non possa far male.15
85Quale è colui, che s’appressa al riprezzo16
      Della quartana, che à già l’unghie smorte,
      E trema tutto, pur guardando il rezzo;
88Tal divenn’io alle parole porte:
      Ma vergogna mi fer le sue minaccie,17
      Che innanzi a buon signor fan servo forte.
91Io m’assettai in su quelle spallaccie:
      Sì volli dir; ma la voce non venne
      Com’io credetti: Fa che tu m’abbraccie.
94Ma esso, ch’altra volta mi sovvenne
      Ad alto forse, tosto ch’io montai,18
      Con le braccia m’avvinse e mi sostenne;
97 E disse: Gerion, muoviti omai:
      Le rote larghe e lo scender sia poco:
      Pensa la nuova soma che tu ài.
100Come la navicella esce del loco
      In dietro in dietro, sì quindi si tolse;
      E poi che al tutto si sentì a gioco,19

103Là ove era il petto, la coda rivolse,
      E quella tosto, come anguilla, mosse,20
      E con le branche l’aere a sè raccolse.
106Maggior paura non credo che fosse,
      Quando Fetonte abbandonò li freni,
      Per che il Ciel, come pare ancor, si cosse;
109Nè quando Icaro misero le reni
      Sentì spennar per la scaldata cera,
      Gridando il padre a lui: Mala via tieni;
112Che fu la mia, quando vidi ch’io era
      Nell’aere d’ogni parte, e vidi spenta
      Ogni veduta, fuor che della fiera.
115Ella sen va rotando lenta lenta:
      Rota, e discende; ma non me n’accorgo,21
      Se non che al viso e di sotto mi venta.
118Io sentia già della man destra il gorgo
      Far sotto noi un orribile scroscio;
      Per che con li occhi in giù la testa sporgo.
121Allor fu’ io più timido allo scoscio:
      Però ch’io vidi fuochi e senti’ pianti;
      Per ch’io tremando tutto mi raccoscio.2223
124 E vidi poi, che nol vedea davanti
      Lo scendere e il girar, per li gran mali,24
      Che s’appressavan da diversi canti.
127Come il falcon, che stato assai su l’ali,
      Che sanza veder logoro o l’uccello
      Fa dire al falconieri: O me tu cali;

130Discende lasso, onde si muove snello
      Per cento rote, e da lungi si pone
      Dal suo maestro, disdegnoso e fello;25
133Così ne pose al fondo Gerione
      A piè a piè della scagliata rocca:
      E discarcate le nostre persone,
136Si dileguò, come da corda cocca.


  1. v. 3. Ecco colei,
  2. v. 16. C. M. commesse
  3. v. 26. C. M. la venenosa forca,
  4. v. 46. C. M. fuor scoppiava lo lor duolo:
  5. v. 48. Quando ai vapori,
  6. v. 49. C. M. Non altramente
  7. v. 50. C. M. Or col zaffo (o ciaffo)
  8. v. 51. C. M. Da pulci o da mosconi o da tafani.
  9. v. 63. Mostrare un’oca
  10. v. 64. C. M. azzurra e rossa
  11. v. 71. C. M. E spesse fiate
  12. v. 74. C. M. Qui discorse
  13. v. 78. C. M. da quelle anime
  14. v. 81. sie prode et ardito,
  15. v. 84. C. M. non ti faccia male.
  16. v. 85. che à presso il riprezzo
  17. v. 89. C. M. Ma vergognar mi fen
  18. v. 95. C. M. Ad alto tosto forte ch’io
  19. v. 102. C. M. al gioco,
  20. v. 104. E quella tesa, - Cod. M. testè
  21. v. 116. C. M. ma io non m’accorgo,
  22. v. 123. Ond’io
  23. v. 123. C. M. mi riscoscio.
  24. v. 125. gridar,
  25. v. 132. Fello è nel significato di corrucciato e tristo. E.

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C O M M E N T O


Ecco la fiera ec. In questo xvii canto l’autor nostro intende di spaziarsi 1 del terzo girone et ultimo del settimo cerchio; e però fa due cose principalmente: imperò che prima pone la descrizione della fiera, fatta la demostrazione da Virgilio e come nell’ultimo del terzo girone trovò li caorsini e li usurieri; nella seconda pone lo descenso suo nell’ottavo cerchio, e cominciasi quivi: Et io temendo ec. La prima lezione si divide in sei parti, perchè prima pone la descrizione della fiera; nella seconda pone una similitudine, quivi: Come tal volta ec.; nella terza, come seguitarono la via verso la fiera, quivi: Lo Duca disse ec.; nella quarta, com’elli va mandato da Virgilio, e quel che truova, quivi: Così ancor ec.; nella quinta finge che quelli che truova, riconosce 2 per li segni e per l’arme, quivi: Poi che nel viso ec.; nella sesta, come uno di quelli caorsini li parla, quivi: Et un che d’una scrofa ec. Divisa adunque la lezione, ora è da vedere la sentenzia litterale.
     Dice adunque che, poi che la fiera cominciò a venir suso, Virgilio parlando in verso Dante, disse: Ecco la fiera con la coda aguzza, che passa i monti e rumpe i muri e l’armi: questa è colei che appuzza tutto il mondo; et accennolla che venisse a proda del settimo cerchio, la quale era prossima al fine de’ passeggiati marmi; cioè all’argine il quale aveano passeggiato. E quella sozza imagine, la quale era la fraude, se ne venne e pose la testa e lo busto in su la ripa; ma non vi tirò la coda: et aggiugne Dante descrivendola, ch’ella avea faccia d’uomo giusto, mostrando solamente benignità nella pelle di fuori; e tutto l’altro fusto era di serpente, et avea due branche pilose infino al ditello; lo dosso e il petto e l’una e l’altra parte delle coste avea dipinte di nodi e di rotelle commesse e soprapposte con più colori, che non furon mai drappi da Tartari o da Turchi fatti, e che non furono mai tele imposte da Aragne: e così stava mezza in su la sponda, e l’altro nell’aere come stanno alcuna volta i burchi mezzi in terra e mezzi in acqua; e come nella Magna tra li Tedeschi e Lurchi 3 lo bivero; cioè la lontra, s’acconcia nel Danubio a far sua guerra a’pesci. E dice che la sponda del settimo cerchio era intorno intorno petrigna, e dentro alla pietra era la rena; e quella fiera stando mezza in su la sponda; e l’altra, cioè la parte di rietro, tenendo nell’aere, torcea in su la velenosa punta della coda ch’era bifolcata, come quella dello scorpione. Et aggiugne che Virgilio dicesse: Ci convien che si torca la nostra via un poco infino a quella bestia malvagia, che si corica colà; e però scesono allora verso man ritta, dieci passi in su l’estremo del cerchio, per cessarsi dalla rena o dalla fiamma. E quando furono giunti un poco più oltre, vide gente sedere prossima a quel luogo estremo, et allora Virgilio li disse: Acciò che tutta esperienzia e piena porti di questo girone, va e vedi la mena di coloro, e fa che parli a coloro brieve; e mentre che tu starai, io parlerò con questa fiera che ci conceda le sue forti spalle. E così dice che se n’andò su per l’orlo del vii cerchio a mano ritta, solo a quel luogo ove vedea 4 quella gente trista; e vide che per li occhi scoppiava 5 loro il dolore: imperò che piangeano, et intorno s’arrostavano 6 con le mani, quando dalle fiamme che pioveano, e quando dalla calda rena, come fanno i cani la state che si schermiscono or col ceffo, or co’ piedi, quando sono morsi o da pulci, o da mosconi, o da tafani. E poichè fu giunto Dante a loro e ragguardò nel viso a certi, nelli quali cascavano le fiaccole del fuoco, dice che non ne conobbe alcuno; ma ben s’avvide che da collo a ciascuno pendea una tasca ch’avea certo colore e certo segno; et a mirar quella tasca parea che li occhi di ciascuno si pascessono: e dice che quando venne ragguardando tra loro, vide in una borsa gialla azzurro, che figurava uno leone; e poi ragguardando oltre, vide in un’altra borsa rossa una oca bianca più che burro, et in un altro ch’avea una tasca bianca a collo, e dentro v’era una troia d’azzurro cinghiata di rosso, il quale li disse: Che fai tu in questa fossa? et aggiunse: Poichè se’ ancor vivo, ti voglio dire che il mio vicino messer Vitaliano sederà qui dal mio lato manco; e sappi ch’io sono padovano e questi sono fiorentini, e spesse volte gridano et intuonammi li orecchi, dicendo: Quando verrà lo cavaliere sovrano, che recherà la tasca con tre becchi? E poi distorse 7 la bocca e trassi 8 fuori la lingua, come il bue quando si lecca lo naso; e qui finisce la sentenzia litterale. Ora è da vedere il testo con l’allegorie e moralitadi.

C. XVII — v. 1-18. In questi sei ternari induce prima l’autor nostro Virgilio a favellare, dimostrando la fiera detta di sopra, e descrivendo le sue condizioni; appresso finge Dante chente era, quanto all’imagine corporale, dicendo: Ecco la fiera; dimostra Virgilio a Dante quella fiera, che veniva per l’aere notando in su, con la coda aguzza; cioè appuntata, Che passa i monti; cioè che avanza ogni grandezza e grossezza penetrando, e rompe i muri e l’armi; cioè ogni defension vince: imperò che non è potenzia, nè defensione mondana che contra lei basti; e per queste tre cose possiamo intendere tre stati d’uomini; cioè li principi e li signori, per li monti; li mezzani, per le mura; e li minori, per l’arme; et aggiugne: Questa è colei, che tutto il mondo appuzza; cioè corrompe e brutta di peccati, come apparirà di sotto, quando si tratterà delle sue spezie. Sì cominciò lo mio Duca; cioè Virgilio, a parlarmi; come detto è, Et accennolle; cioè Virgilio a quella fiera fece cenno, che venisse a proda; del cerchio vii, e però dice: Vicina al fin de’ passeggiati marmi; cioè prossimana alla fine dell’argine del fiume ch’era di pietra, sul quale aveano attraversato lo cerchio vii: E quella sozza 9 imagine di froda; quivi l’autor nostro parla e nominala froda, onde è palese quello che intese per questa fiera. Et è qui da notare che froda si può considerare in generale e speciale: qui si piglia in generale; ma per non equivocare è meglio che si dica che l’autore la chiama qui froda, perchè li viene bene alla rima sua; et intende per la froda sia astuzia, et è astuzia simulamento di prudenzia: imperò che la prudenzia è virtù intellettuale, dirizzante l’uomo alle virtù morali, e comandante alle virtù intellettuali; et àe a riprimere e cacciare la stultizia e moderare l’astuzia: imperò che stoltia 10 è precipitamento in mal fine con mali mezzi semplicemente; et astuzia è discorrimento o vero intendimento in mal fine con mali mezzi; ma con simulazione o apparenzia di bene, la quale simulazione o sta ne’ mezzi, o sta ne’ fini, o sta nelli uni e nelli altri. Ma se l’uomo intendesse in buono fine con buon mezzi; ma non convenienti a quel fine, allora non è astuzia; ma simplicità. Et è da notare che sempre lo fine dell’astuzia è rio e nocevole, benchè non appaia e che si mostri in contrario; e se l’uomo moderasse sì la sua intenzione, che elli intendesse nel vero bene con veramente buoni mezzi, allora sarebbe prudente. Sen venne, et arrivò la testa e il busto; cioè pose in su la ripa del vii cerchio, ch’era di pietra intorno intorno, la testa e il corpo tutto, salvo che la coda; e però dice: Ma in su la riva non trasse la coda. Questo finge l’autore, a denotare che non potea montare in su quel cerchio, perchè quivi non si puniscono li fraudulenti, se non tanto quanto tiene l’orlo d’intorno che è petrigno, a denotare che li usurieri e i caorsini, che finge essere puniti presso a quello orlo, usano ancora astuzia nelli loro princìpi e mezzi; ma non nelli fini: imperò che apertamente dicono che fanno il servigio, a fine d’avere merito; e però dice l’autore che 11 vi pose il capo e il busto; ma non la coda, e descrive l’autore come è fatta, dicendo: La faccia sua; di quella fiera, era faccia d’uom giusto; per questo dà a intendere l’autore che la prima apparenzia dell’astuzia par buona, e pare procedere con simplicità; ma sempre va con malizia e callidità. Tanto benigna avea di fuor la pelle; per la pelle intende l’apparenzia di fuori, come detto è, E d’un serpente tutto l’altro fusto; cioè tutto l’altro corpo era fatto di colore serpentino, per mostrare che il processo dell’astuzia sempre è con callidità, come è detto. Due branche avea pilose infin l’ascelle; cioè infino alle ditella delle spalle finge ch’ell’abbia due branche e non più, come à il serpente; e quelle pilose, a significar le due spezie dell’astuzia, che sono fraude e dolo. La fraude è significata per la branca ritta, e sta nelli fatti; lo dolo è significato per la branca manca, e sta nelle parole: e finge che sieno pilose, a denotare che così la fraude, come il dolo 12 s’appiatta e cuopre. Lo dosso e il petto et amendue le coste Dipinte avea di nodi e di rotelle. Questo litteralmente finge, per affermare quel che disse di sopra; cioè che il busto era d’un serpente; ma allegoricamente significa le simulazioni che sono nell’astuzia, che sempre sono implicate e colorate; e i modi con che s’opera la fraude e il dolo sono vari et impliciti insieme sì, che dell’uno s’entra nell’altro, e sono circulari sì, che 13 si torna onde si comincia. Con più color sommesse e soprapposte; cioè rotelle e nodi detti di sopra, et intendesi che Non fer mai drappo Tartari, nè Turchi; li Tartari e li Turchi che ànno abondanzia di seta, sogliono fare li drappi con varie figure e nodi e con rotelle, Nè fur tai tele per Aragne imposte; cioè composte, quali erano li colori vari e li nodi e le rotelle di quella fiera. Onde qui è da notare la fizione che pone Ovidio, Metamorfoseos, il quale dice che Aragne fu una femina popolare di Lidia, figliuola di Idmone da Colofone; la qual città è in Lidia, che è una provincia di Asia; e questo Idmone fu tintore, et Aragna sua figliuola fu molto ammaestrata in fare panni lani; cioè in lavorare la lana e filare e tessere in tanto, che in ciò vantaggiava 14 Pallade, che è la dia della sapienzia et a lei sono appropiate tutte l’arti e specialmente quella del lanificio. Onde Pallade indegnata si mosse e venne a lei in spezie d’una vecchia, con capelli canuti alle tempie e col bastone in mano, et ammonilla ch’ella si vantasse e domandasse fama tra’mortali, e non tra li idii, di fare le tele, e disse: Onora l’idia e domandale perdono. Aragne ch’allora filava, lasciò lo filare e crucciata, a pena s’astenne che non le mettesse mano, e disseli: Va via, vecchia 15 vissuta troppo in questo mondo, e dà questi ammaestramenti e questo consiglio alle tue nuore, se tu n’ài alcuna, o a tua figliuola: ch’io mi so assai consigliare; e non mi credere aver fatto pro con tuo consiglio, ch’io sono in questo medesimo proposito, perchè non ti 16 viene Pallade, perchè schifa di quistionar 17 meco. Allora Pallade si ritornò nell’abito suo, e disse: Pallade è venuta, e non rifiuta il quistionare 18 teco. Allora questa si vergognò; ma pure stette ferma nel suo proposito, e posesi a tessere a diversi telai; e Pallade fece una tela ov’ella tessette la vittoria ch’ebbe contra Nettunno, quando si pose il nome ad Atene, e pose nella tela quattro esempli di coloro, ch’aveano spregiati li dii, ch’erano mal capitati. Et Aragne tessette la sua tela, et in essa pose l’innamoramenti delli idii, e fece sì bella tela, che non vi si sarebbe potuto 19 opponere. Allora Pallade sdegnata, con la sua spuola ch’avea in mano, ruppe la tela d’Aragne e diedeli nella fronte; per la qual cosa Aragne indegnata s’andò ad appiccare, et allora Pallade le mise la mano a li piedi e non la lasciò morire, anzi disse ch’ella vivesse in quel modo appiccata e mutolla in ragnolo; e però lo ragnolo sta appiccato dal suo filo et alle travi, e sempre fa tele; e però disse l’autore: Nè fur tai tele per Aragne imposte.

C. XVII — v. 19-27. In questi tre ternari l’autor nostro descrive come quella fiera stava, inducendo due comparazione 20, dicendo: Come tal volta stanno a riva; del mare o delli fiumi ove s’usano tali navìgi 21, che si tirano mezzi in terra, e l’altra mezza in acqua quando non si navica; e però dice, Che parte stanno in acqua e parte in terra; come è detto, E come là tra li Tedeschi e i Lurchi 22; ora pone l’altra comparazione; cioè nella Magna tra queste due gente corre lo Danubio, che è uno grande fiume ove entrano 60 fiumi navigabili: questo Danubio esce dell’Alpi del monte Apennino, et entra nel mare della Tana con sette bocche, Lo bivero; cioè la lontra maschio, s’assetta a far sua guerra; alli pesci che sono nel fiume: questo animale è molto vago de’ pesci, e però sta nella riva del Danubio, e mette la coda, che l’à molto grossa, nell’acqua; e perchè l’à molto grassa, per li pori esce l’untume e il grasso sì, che l’acqua diventa unta come d’olio, onde i pesci vi traggono et elli si volge a pigliare quelli che vuole. Così la fiera pessima; detta di sopra, si stava Sull’orlo, che di pietra il sabbion serra; cioè cigne d’intorno il terzo girone del vii cerchio, ch’è renoso come detto è. Nel vano; cioè nell’aere, tutta sua coda; cioè di quella fiera, guizzava, Torcendo in su la velenosa forca; e per questo mostra che avesse la coda biforcuta, Che a guisa di scorpion la punta armava. Questo significa lo fine dell’astuzia, che nuoce al prossimo così all’oggetto, come al suggetto, intendendo il suggetto per colui in cui è, e l’oggetto per colui contra il quale s’aopera; e però finge che la coda sia biforcata: et ancora si può intendere, perchè lo fine dell’astuzia nuoce o alla anima, o al corpo, o all’uno et all’altro. Finge che guizzava nel vano: però che sempre in cose vane s’aopera, come sono li beni mondani.

C. XVII — v. 28-42. In questi cinque ternari l’autor nostro finge come Virgilio li predice la via che si dee tenere, e come lo manda a vedere i caorsini, de’quali non avea ancor trattato, dicendo così: Lo Duca; cioè Virgilio, disse; a me Dante: Or convien che si torca La nostra via; questo dice: però che fino a quivi tuttavia avean girato inverso mano manca, benchè alcuna volta avessono attraversato li cerchi come ora, et al presente andavano in verso man ritta, e la cagione della fizione è stata assegnata di sopra, e così l’assegneremo qui, un poco, infino a quella Bestia malvagia che colà si corca; cioè infino all’astuzia ch’era venuta, come detto è di sopra. Però scendemmo alla destra mammella; cioè in ver man ritta, E dieci passi femmo in su l’estremo; cioè dell’orlo del cerchio vii il quale era di pietra, come detto fu di sopra, Per ben cessar la rena; calda che s’accendea per le fiamme che pioveano, e la fiammella; che cadea di sopra. E questa fizione fa l’autore principalmente, per fare verisimile la sua fizione: imperò che non era verisimile che andasse altrimenti, poi ch’era venuto attraversando lo terzo girone del vii cerchio, in su l’argine destro del fiume infino all’orlo, volendo andare alla fiera, che s’era posta in su l’orlo sopra detto dal lato loro: però che verso man manca non sarebbono potuti andare: chè v’era lo fiume in mezzo. Appresso finge questo moralmente per mostrare che la intenzione sua è diritta: imperò che, benchè andasse alla fiera, non andava per contaminarsi da essa, nè per mostrare le sue pene: però che avrebbe fatta la sua fizione d’essere ito verso man manca, come à fatto nelli altri peccati; ma per deliberare dell’ordine di quelle spezie, come d’esse dovesse trattare. Li dieci passi, che finge che facessono innanzi che pervenissono a lei, significano le dieci specie dell’astuzia, delle quali tratterà sussequentemente, o vero successivamente, nell’viii cerchio, come mosterrà nel seguente canto, ove distingue l’ottavo cerchio in x bolge, come sono x 23 gradi. Andò la mente di Dante discorrendo, innanzi che avesse conoscimento pieno dell’astuzia, che si dovea punire nell’viii cerchio. E quando noi; cioè Virgilio et io Dante, a lei venuti semo; cioè alla detta fiera, Poco più oltre veggio in su la rena; da la detta fiera in verso man ritta, come erano iti, Gente seder propinqua al luogo scemo; cioè all’orlo detto di sopra. Questi sono li caorsini; cioè li usurieri li quali finge che sieno puniti nel terzo girone del vii cerchio insieme con li soddomiti, perchè fanno violenzia alla natura; ma finge che sieno puniti sedendo, e li soddomiti andando, perchè è più grave, come fu detto di sopra, perchè fanno forza alla natura et all’arte; e li soddomiti pur alla natura. Et ancora per altra cagione, come si dirà di sotto. Quivi il Maestro; cioè Virgilio mi disse, s’intende: A ciò che tutta piena Esperienzia d’esto giron; cioè iii del vii cerchio, porti; tu Dante, Mi disse; a me Dante Virgilio, or va, e vedi la lor mena; cioè condizione: e questo dice, perchè de’caorsini, dei quali finge che si puniscano in quel cerchio, non avea ancor fatto menzione. Li tuoi ragionamenti sien là corti. Qui l’ammonisce Virgilio che parli brieve; e comanda Virgilio, che significa la ragione, a Dante che significa la sensualità, che vada a’ caorsini per veder la loro condizione: imperò che a considerare sì fatto peccato e la pena rispondente ad esso, basta solo 24 la sensualità: imperò che sensibilmente si conosce che il danaio non può fare il danaio, e che chi è inviluppato 25 in ciò, sta sempre nell’arsura dell’avere a sedere, perchè v’è fermato dentro; con la tasca al collo perchè sempre l’usurieri la tasca de’fiorini porta nella volontà e guardala, e quivi à tutta sua intenzione: e veramente con cotali poco si vuole parlare, perchè sono sanza ragione, e con li uomini fuor di ragione non si deono perdere le parole. Mentre che torni; tu Dante, parlerò con questa; fiera, io Virgilio, Che ne conceda i suoi omeri forti; cioè le sue spalle, a portarci giuso nell’altro girone: cioè nell’ottavo. E questo finge, perchè parlar con la fiera e domandare che li porti, non è altro che considerare che è l’astuzia, e quali sono le spezie sue e le sue compagne e le sue pene, e distinguere li luoghi, secondo le spezie e le pene; e questo è propio atto et uficio della ragione, e però finge che Virgilio rimanga a parlare con essa, e lo discendere a trattar di questa materia sarà prestar le spalle.

C. XVII — v. 43-51. In questi tre ternari l’autor nostro finge come, mandato da Virgilio, andò solo a considerare la condizione dei caorsini et usurieri su per l’estremo del vii cerchio, dicendo 26, datali la licenzia da Virgilio, su per l’estrema testa; cioè su per l’orlo, Di quel settimo cerchio; del quale s’erano per partire, tutto solo: però che Virgilio non andò con lui; e questo finge per mostrare che a niun’altra cosa intendea la ragione inferiore e pratica, che s’accosta con la sensualità: imperò che la ragione superiore era occupata a considerare della fiera 27 e della sua distruzione, Andai; io Dante, dove sedea la gente mesta; cioè trista per la pena che sostenea, e questi sono li caorsini e li usurieri che sono puniti sedendo. Per li occhi fuori scoppiava lor duolo; cioè le lagrime ch’erano stillamento 28 e manifestamento del dolore: Di qua, di là soccorean con le mani; scotendo l’arsura, e però aggiugne: Quando al vapore, e quando al caldo suolo; cioè alcuna volta alla fiamma che cadea, et alcuna volta 29 alla calda rena che s’accendea loro sotto; et aggiugne una comparazione dicendo: Non altrimenti fan di state i cani; che facessono quest’anime, Or col ceffo or col piè: però che con l’uno e con l’altro si difendeano, quando son morsi O da pulci o da mosche o da tafani; da questi tre animali sono molestati i cani, come è manifesto a ognuno, massimamente la state, e così s’arrostavano 30 le dette anime. E perchè à fatto menzione della pena che sostengono li usurieri e caorsini, veggiamo che cosa è usura e quante sono le sue spezie, compagne e figliuole et i rimedi contra essa, e come è sotto la violenzia. E prima, usura è vedimento di tempo e d’uso delle cose che non ànno uso 31, e multiplicazione di quelle che solamente si consumano per uso; et a volere intendere questo è da sapere che certe cose ànno uso, e certe no. Quelle ànno uso che sono utili alla vita umana o necessariamente o a bene essere, come il pane e il vino e il vestimento; e quelle non ànno uso, sanza le quali comodamente può vivere l’uomo, come sono l’oro, l’ariento, le pietre preziose; nè 32 non ànno multiplicazione: chè danaio non fa danaio, nè oro oro, nò ariento ariento, nè gemma gemma, come l’una pecora fa l’altra, e così degli altri animali. Ancora quelle ch’ànno uso alcune si consumano in esso uso solamente, come lo pane e il vino, alcune si consumano in tempo o usandole o non usandole 33, come la casa e il vestimento; e però se si presti lo denaio e del prestare si pigli premio, questa è usura, perchè il danaio non à uso: similmente se si presta grano o vino che si consuma in esso uso, e del prestamento si pigli premio è usura, perchè dè bastare che si renda l’equivalente; ma se si presta la casa che si consuma per tempo e per uso, pigliando premio 34 per uso non è usura: imperò che si peggiora per l’uso et à bisogno di racconciarsi. E qui occorre un dubbio; cioè se il terratico, o vero l’affitto che si riceve della terra, è usura, e par che sì, perchè la terra non si consuma per uso, nè per tempo. A che si risponde che il terratico è licito, perchè dell’uso della terra e della fatica del lavoratore nasce lo frutto, lo quale ragionevole è che si divida, e parte torni al possessore della terra, e parte al lavoratore. E per cessare lo inganno e la sospezion dello inganno è permesso l’affitto; e così pigliando premio dell’uso del bestiame è licito, perchè il bestiame à multiplicazione: e questo basti quanto al primo. Appresso, le spezie dell’usura sono due; cioè simplice usura che il Grammatico la chiama fenus; e l’altra spezie è usura dell’usura, che si chiama usura. Semplice usura è quando si presta a tempo determinato e a pregio determinato, come quando si prestono cento fiorini per mesi sei ad otto per centinaio o a dieci, che se ne rende cento quattro, o cento cinque, in capo di sei mesi; usura d’usura è quando non è tempo determinato o che si metta pro in capitale, come quando si presta fiorino 35 a soldi cinque il mese, e si 36 non si paga dopo il mese soldi cinque, si paga quel che ne viene l’altro mese per quelli soldi cinque. Le compagne dell’usura sono crudeltà d’animo in verso il prossimo, avarizia, cupidità e negligenzia: le sue figliuole sono tristizia d’animo, odio, infamia: li rimedi contra essa son carità, largezza 37, esercizio della industria. Nella usura si fa violenzia alla natura: imperò che la natura à dato all’uomo carità mutua, l’uno inverso l’altro, e l’usuriere la caccia da sè: appresso vuole l’usurieri che danaio faccia danaio, che la natura nol patisce, nè ancora l’arte; e perciò l’usura violenta la natura e l’arte. E però allegoricamente l’autor finse le pene dette di sopra; prima, che sedeano, a denotare la negligenzia delli usurieri, che per non esercitarsi prestano ad usura; appresso che aveano arsura di sotto e di sopra, a denotare l’avarizia e la cupidità delli usurieri; e che stavano tristi, a denotare la tristizia dell’animo; ch’erano nudi, a denotare l’odio e la loro infamia; e come con le mani sono stati operati a rivolgere le carte delli loro libri e ritrovare li tempi, così si dimostri per lo arrostare l’arsura con le mani. E queste cose si verificano in quelli che sono nel mondo; e queste cose finse convenientemente ancora in vendetta del vizio dovere essere nell’altro mondo: imperò che chi è stato freddo verso lo prossimo, degna cosa è che stia nel fuoco; e chi è stato negligente, s’eserciti di là, e però finse l’autore si fatti tormenti che tutti si possono attare per chi fia a ciò industrioso.

C. XVII — v. 52-63. In questi quattro ternari l’autor nostro come ebbe notizia d’alquanti di quelli usurieri, così dicendo: Poi che nel viso a certi li occhi porsi; io Dante, Nel quale; viso, il doloroso fuoco casca; dice doloroso, perchè fa dolore, Non ne conobbi alcun; io Dante di coloro, perchè il viso era abruziato 38 onde si piglia la conoscenzia; e questo finge per mostrare che l’usura fa l’uomo infame et odioso: e così ove trattò di sopra delli avari e delli prodigi non ne nominò alcuno, e così finge qui di non nominarli, se non per fizione poetica; ma io m’accorsi; cioè io Dante, Che dal collo a ciascun; di quelli usurieri, pendea una tasca; questo finge, per mostrare che la loro intenzione sempre fu alla pecunia, Ch’avea certo colore e certo segno; e da questo colore e segno finse essere la loro cognizione, perchè per niun’altra cosa sono conosciuti, se non per li danari co’ quali usureggiano, E quindi par che il loro occhio si pasca; cioè di quella tasca, perchè non ànno mai altro desiderio che di danari. E com’io; Dante, riguardando tra lor vegno; cioè tra quelli usurieri, In una borsa gialla vidi azzurro; io Dante, Che di un leone avea faccia e contegno; cioè vidi uno leone tutto azzurro in uno campo giallo; e 39 questo dimostra l’autore la casa del Gianfigliazzi che fa un leone azzurro in campo d’oro; et intende che colui fosse de’ Gianfigliazzi che quivi finge esser dannato, e chi fosse altrimenti non si nomina. Poi procedendo di mio sguardo il curro; cioè seguitando lo scorrimento de’miei occhi, Vidine un’altra; delle tasche, come sangue, rossa; cioè vermiglia, Mostrando un’oca bianca più che il burro; e per questo intende il casato delli Ebriachi 40, li quali fanno una oca bianca nel campo vermiglio; e questo finge perchè tra 41 loro qual che sia fu usurieri, e questi due casati furono fiorentini.

C. XVII — v. 64-75. In questi quattro ternari l’autor nostro finge delli altri che non erano fiorentini, che erano in quel luogo, e come uno è nominato che non v’era ancora, dicendo così: Et un, che d’una scrofa; cioè troia, azzurra e grossa; cioè la troia era azzurra e piena: altro testo dice, e rossa; cioè ch’era cinta di rosso in campo bianco, e però dice: Segnato avea lo suo sacchetto bianco; che li pendea dal collo; e per quest’arme intende la casa delli Scrovigne 42 da Padova, perchè in quella casa anche fu qualche grande usurieri; ma non lo nomina, Mi disse; a me Dante: Che fai tu in questa fossa; cioè in questo vii cerchio dell’inferno? Or te ne va; tu Dante, disse quell’anima; e perchè se’ vivo anco; ti dirò questo che seguita, ch’altrimenti non tel direi, Sappi che il mio vicino Vitaliano Sederà qui dal mio sinistro fianco. Questo fu messer Vitaliano dal Dente da Padova, il quale fu grande usuriere; e finge che, allora che Dante finse d’avere questa fantasia, non era ancora morto; ma era sì publico usurieri e sì apertamente 43 negava essere peccato, che però finge che quivi debba sedere; e dà questa pronosticazione a quella anima padovana e non a sè, per farla verisimile. Continua lo Padovano suo parlare, dicendo: Con questi Fiorentin; detti di sopra, son Padovano; io che ti parlo: Spesse fiate m’intronan li orecchi; cioè questi tuoi fiorentini a me padovano, Gridando: Vegna il cavalier sovrano; cioè misero e vano 44: imperò che è parlare ironico, Che recherà la tasca con tre becchi. Questi fu messer Giovanni Buialmonte 45 da Firenze, lo quale facea l’arme con tre becchi gialli di nibbio nel campo azzurro; e questo finse per quella medesima cagione che quello di sopra. Qui distorse la bocca; per lo dolore dell’arsura questo padovano che parlato avea, e di fuor trasse; della bocca, La lingua; per leccarsi le labbra per l’arsura ch’avea; e fa la similitudine, come il bue che naso lecchi. E qui finisce la lezione prima, seguita la seconda.
     Et io temendo ec. In questa seconda lezione l’autor nostro dimostra lo suo descenso nel viii cerchio, e dividesi questa lezione in cinque parti: imperò prima dimostra come Virgilio, montato in su la fiera, conforta Dante; nella seconda, com’ebbe paura, quivi: Quale è colui, ec.; nella terza, come Virgilio lo conforta e come prendono cammino, quivi: Ma esso, ch’altra volta ec.; nella quarta dimostra come descendendo, sentirono nuovo accidente, quivi: Ella sen va ec.; nella quinta manifesta lo loro descendimento della fiera, e come si trovarono nell’viii cerchio, quivi: Come il falcon ec. Divisa adunque la lezione, ora si è da vedere la sentenzia litterale, e dice così:
     Poi ch’io Dante ebbi veduti li caorsini et udito lo parlare del Padovano, temendo che Virgilio si crucciasse 46 per lo troppo stare, che del poco m’avea ammonito, tornai in dietro da quelle anime appenate e trovai lo Duca mio, ch’era salito in sulla groppa del fiero animale e disse a me: Or sia 47 forte et ardito, oggimai si scende per sì fatte scale, monta dinanzi ch’io voglio stare in mezzo tra te e la coda, sì che non ti faccia male: et aggiugne come vi montò, poi ch’ebbe udito lo favellare di Virgilio, diventato fatto come colui che s’appressa alli riprezzi 48 della febre quartana ch’à già l’unghia sì morte, e trema tutto pur guardando il rezzo. Ma le minaccie di Virgilio lo feciono vergognare di mostrare d’avere paura, le quali fanno il servo forte innanzi al buon signore; e però s’acconciò in su quelle spallaccie di quella fiera, e volle dire a Virgilio: Sì fa che tu m’abbracci; ma la voce li venne meno per la paura. Ma Virgilio che altra volta lo sovenne, l’abbracciò così tosto come fu montato, e disse alla fiera: Gerion, muoviti oggimai 49, piglia le rote large e scendi poco: imagina la nuova soma che tu ài. E fa una similitudine; che come la navicella esce del luogo ov’ella è stata apportata, si tira indietro tanto, ch’ella si volga, così fece Gerione; e quando si sentì tutto nell’aere, girò il capo ove avea prima la coda e mosse la testa come l’anguilla e con le branche raccolse a sè l’aere. E fa l’autore due similitudini; ch’elli ebbe gran paura sì, che non crede che fosse maggior quella di Fetonte, quando abbandonò li freni de’cavalli del sole, per la qual cosa si cosse il cielo, come 50 ancor appare; nè quando Icaro misero si sentì spennare le reni per la scaldata cera, gridando il padre a lui: Mala via tieni, che fu la sua quando si vide nel aere, ov’era spenta ogni veduta fuor che della fiera. Ma quella se n’andava notando per l’aere lenta lenta, e facea le rote e descendea; ma non se n’avvedea, se non che si sentia venteggiar di sotto. Et aggiugne che tanto erano scesi in ver man manca, ch’aveano passato il fiume, sì ch’elli lo sentia cader da man ritta e fare un grande scroscio. E ragguardando in giuso timido di cadere, vide fuochi e sentì pianti e però tremando si racconciò in sulla fiera: et avvidesi ch’ella scendea e girava per li grandi mali, che non lo vedea prima; e fa una similitudine, come il falcone che stato assai su l’ale, che sanza vedere lo richiamo si cala, onde il falconier se ne duole e scende stanco onde s’è mosso gagliardo e veloce, e rotandosi molto ponsi sdegnoso e fello di lungi dal falconieri; e così dice che Gerion li pose al fondo dell’viii cerchio, e scaricato Virgilio e Dante si dileguò, come la cocca dello strale 51 dalla corda, quando è saettata. E qui finisce il canto: ora è da vedere il testo con le allegorie o vero moralitadi.

C. XVII — v. 76-84. In questi tre ternari l’autor nostro finge come ritornò a Virgilio, partitosi dalli usurieri, dicendo così: Et io; cioè Dante, temendo che il più star crucciasse Lui; cioè Virgilio, che di poco star m’avea ammonito; quand’io andai alli usurieri, Tornaimi indietro dall’anime lasse; cioè stanche delli usurieri. Trovai lo Duca mio; cioè Virgilio, ch’era salito Già in su la groppa del fiero animale; del quale fu detto di sopra, E disse a me; Dante: Or sii forte et ardito. Omai si scende per sì fatte scale; quale è questa di questa fiera, Monta dinanzi; tu Dante, in su questa fiera, ch’io; Virgilio, voglio esser mezzo; tra la coda e te, però dice, Sì che la coda; della fiera, non possa 52 far male; cioè a te Dante. Sopra questo è da notare che litteralmente questa fizione era necessaria a mostrare verisimile lo loro descenso nell’ viii cerchio; ma allegoricamente intende che Virgilio; cioè la ragione superiore ch’era rimasa, cioè occupata a parlare con la bestia; cioè considerare lo vizio dell’astuzia, acciò che intesa la potesse distinguere e dividere; e come il cavalcatore che scorge 53 lo cavallo a suo arbitrio, era montata in sulla fiera; cioè che v’era già fatto potente et intendeva tutte le sue spezie e divisioni. E dice notantemente in su la groppa, per ch’era già venuto all’ultima et inferiore spezie; e dice che disse a lui Dante; cioè alla sensualità: Or sii forte et ardito; a resistere al vizio che non ti rompa 54; ma soggiogalo e cavalcalo, che oggimai il processo di questo disgrada 55, e fecelo montare dinanzi; cioè feceli considerare l’apparenzia dell’astuzia per queste scale; cioè per li gradi dell’astuzia, e cavalcare e metter sotto le sue fraudulenzie; e la ragione fu mezzo che la coda; cioè il fine, non li facesse male: imperò che potrebb’essere che apprendendo la sensualità le condizioni dell’astuzia, la quale di prima faccia 56 mostra apparenzia di bene, poi mostra callidità che pare una bella prudenzia, che l’uomo s’inducerebbe a volerla operare, se la ragione non contradicesse. Et allora lo fine potrebbe fare male al fraudulento, ponendo offensione prima nell’anima come pone lo peccato e il vizio, et ancora nel corpo come spesse volte li fraudolenti sono puniti nel mondo: pone ancora offensione nell’animo 57, quando dà pensieri e tormento all’animo di coprire sì li loro inganni, che non si scuoprano; et al corpo, vegghie et operazione faticose, perchè lo inganno abbi effetto: et a tutto questo rimedia la ragione, se la volontà le vuole credere.

C. XVII — v. 85-93. In questi tre ternari l’autor nostro finge ch’avesse gran paura alle parole di Virgilio, e come montò in sulla fiera, dicendo: Quale è colui; fa qui una similitudine, mostrando la sua paura da sè a colui, a cui entra la quartana, dicendo: Quale; cioè chente, è colui che s’appressa al riprezzo; cioè allo scarizo 58, Della quartana; cioè della febre che viene di quattro in quattro dì, che à già l’unghie smorte; per lo freddo che viene, E trema tutto, pur guardando il rezzo; perchè tali stanno volentieri al sole, e vedendo il rezzo tremano per la paura del freddo; Tal divenn’io; cioè Dante; cioè così tremoroso, vedendo la fiera et udendo le parole di Virgilio; e però dice: alle parole porte; a me Dante da Virgilio; cioè ch’io montassi in su la fiera. Ma vergogna mi fer le sue minaccie; cioè di Virgilio, Che innanzi a buon signor fan servo forte. Sopra questo è da notare che minacce fossono quelle di Virgilio; e convenientemente possiamo pensare che dicesse: Se tu non monti, io me n’andrò e lascerotti qui: imperò che, se la sensualità di Dante non avesse seguita 59 con lo scrivere la considerazione e discrezione della materia, l’opera sarebbe rimasa qui. Appresso è qui uno bello notabile; cioè che come li signori sono differenti, che quali sono ragionevoli e buoni, e quali sono bestiali e rei; così le minacce loro fanno nelli servi diversi effetti: imperò che le minaccie del signor bestiale e rio spauriscono lo servo, onde intremisce 60 e perde lo vigore: imperò che il servo immagina quel che tale signor dopo le minaccie è usato di fare, et impaurisce; ma le minaccie del ragionevole e buon signore fanno vergognare il servo, onde riconosce subito l’errore e diventa forte: imperò che immagina l’usanza del suo buon signore, che corregge pur con le minaccie, e non minaccia se non cose ragionevoli; onde si vergogna di non seguire, e la vergogna non impedisce l’opera, come fa la paura; e però diventa forte a ubbedire, pensando che non li comanderebbe, se non cosa da fare; e però seguita l’obedienzia, dicendo: Io; cioè Dante, dopo le minaccie diventato forte, m’assettai in su quelle spallaccie; della fiera, s’intende detta di sopra che à buone spalle, grandi: imperò che l’astuzia sostiene e sopporta per non scoprirsi; e per le spalle s’intende la tolleranzia del fraudulento: Sì volli dir; io Dante, come seguiterà poi; ma la voce non venne; fuor della bocca, Com’io credetti; cioè io Dante che venisse: Fa che tu m’abbraccie; tu Virgilio. Ecco quel che volle dire; e finge questo per mostrare la natura del pauroso che, benchè l’animo rinvigorisca, li membri non lasciano così tosto la paura, perchè il sangue non ritorna così tosto alle membra, come la volontà vuole lasciar la paura.

C. XVII — v. 94-114. In questi sette ternari l’autor nostro finge come, montato in su la fiera 61, si muove e discende al comandamento di Virgilio, dicendo: Ma esso; cioè Virgilio; ch’altra volta mi sovvenne; cioè quand’io mi smarri’ nella valle, et apparvemi alla ruina del monte, come di sopra fu detto cap. i, Ad alto forse, tosto ch’io montai; cioè io Dante in sulla fiera. Altro testo dice forte, tosto ch’io montai, Con le braccia; sue, m’avvinse; cioè m’abbracciò, e mi sostenne; ch’io non cadessi. Puossi intendere ancora, tosto ch’io; Dante diventato forte per le minaccie di Virgilio, montai; in su la fiera. Intender si dee allegoricamente lo montar di Dante; cioè dare a descrivere alla ragione pratica lo vizio dell’astuzia e le sue spezie e le sue pene, e l’abracciare di Virgilio e il sostenere e lo dirizzamento e sostenimento che fa la ragione superiore alla ragione pratica et inferiore. E disse; Virgilio: Gerion, muoviti omai. Qui nomina Virgilio questa fiera, che significa l’astuzia, Gerione; e però è da notare che tutti li mostri, che pongono li poeti e la Scrittura 62 santa, l’autore à diviso in questa sua opera ne’ luoghi convenienti sotto qualche figura, onde è da sapere che’ poeti pongono che Gerione fosse re di Spagna, et avesse tre corpi a reggimento d’una anima, come Virgilio dice nel sesto dell’Eneida: Et forma tricorporis umbrae. Et altri vogliono dire che avesse tre corpi e tre anime, e combattèe con Ercole, e che Ercole tre volte il vinse et ucciselo, et in segno di vittoria ne menò il suo armento delle vacche e buoi che avea; e per questa fizione vollono intendere li poeti che Gerione avesse tre regni; cioè Maiorica 63 et Ebuso, et in questi tre luoghi fu giunto da Ercole. Et altri dice che furono tre fratelli ch’ebbono tanta concordia, che si potea dire un’anima in tre corpi; e finge Virgilio che questo mostro sia in inferno, e così l’autor nostro finge per seguitare la poesia sua, che come à posto nelli altri cerchi uno demonio soprastare quel cerchio sotto nome di qualche mostro; così finge qui che questo demonio, che soprasta l’ottavo cerchio, si chiami Gerione e significa il vizio dell’astuzia. Et a figurarlo à posto tre varie forme: imperò che prima li à dato il capo con la faccia d’uomo giusto, le branche pilose di fiera, e l’altro fusto di serpente; e doviamo notare che l’autore prese questa figura della santa Scrittura 64, benchè ci aggiunse, come fece di sopra dell’astuzia 65 detta di sopra. Pone lo Genesis, che è lo primo libro della Bibbia, che lo Lucifero andò a tentare li nostri primi padri in questa prima figura; col volto virgineo e con l’altro fusto di serpente: e perchè fu lo primo che usasse la fraude, però finge l’autore che sì fatta figura fosse quella di Gerione, che significa l’astuzia: e che da lui si partisse, quando venne suso: et a lui ritornasse, quando si dileguò da loro. E questo nome finse alla fiera, perchè Gerione di Spagna fu molto astuto, anzi 66 essa astuzia: e dalli questa figura triplicata, che fu detta di sopra, per dimostrare lo principio, e il mezzo, e il fine di questo vizio, lo cui principio è apparenzia e pretensione 67 di virtù e d’amore; lo suo mezzo è l’operazione fiera e crudele; e lo suo fine è lo velenoso nocimento. Lo principio si nota per la faccia dell’uom giusto; lo mezzo per le branche pilose; e lo fine per lo serpente, che punge pur con la coda bifolcata. E questo finge l’autore a dimostrare questo vizio in suo genere, e per sè; e però s’aggiugne le branche dall’autore: quello che pone 68 la santa Scrittura è posto in atto distinto di tentare e ingannare con parole, che è spezie d’astuzia che si chiama dolo, e però lo figura sanza branche. Le rote larghe e lo scender sia poco; e questo si convenia litteralmente allo scender; et allegoricamente significa che ampiamente e pianamente si vuole scendere per li gradi dell’astuzia, a volerli ben conoscere: Pensa la nuova soma che tu ài; che porti Dante che è vivo che suoli portare pur li morti; e per questo vuole dimostrare che l’astuzia suole pur portare li fraudulenti, i quali sempre in quella pensano et aoperansi: ora portava Dante ch’era netto di quel vizio. Come la navicella; qui fa una comparazione, o vero una similitudine, mostrando lo movimento di Gerione alla navicella quando si muove, dicendo: esce del loco; ove è portata, In dietro in dietro; tirandosi; sì quindi si tolse; Gerione dalla proda del settimo cerchio ov’avea 69 posto lo capo e il petto, come detto fu di sopra e sposto allegoricamente; E poi che al tutto si sentì a gioco; quella fiera; cioè del descendere che al tutto s’era partita dalla sponda, sì che tutta con la soma di Virgilio e di Dante era in aere, Là ove era il petto, la coda rivolse; cioè in verso la proda del vii cerchio 70 ove prima avea tenuto lo capo; e questo finse l’autore per fare verisimile la sua fizione, E quella; cioè coda, tosto; cioè tostamente, come anguilla mosse; per l’aere, come anguilla per l’acqua, E con le branche l’aere a sè raccolse; come fa il granchio o altro animale acquatico 71 ch’abbia branche, quando ruota per acqua. Maggior paura non credo che fosse; quella di Fetonte, Quando Fetonte abbandonò li freni; de’ cavalli che tirano lo carro del Sole, Per che il Ciel, come pare ancor, si cosse; cioè arse et incossesi per lo caldo del sole, sicchè ora non si può abitare sotto la torrida zona, e li Etiopi ch’erano bianchi diventarono neri per lo caldo del sole. E però qui è da notare la fizione che pone Ovidio, Metamorfoses, nel secondo libro, ove dice che essendo Fetonte figliuolo del Sole e di Clemene 72, garzone e contendendo con Epafo figliuolo di Giove e di Io, Epafo li disse: Tu se’ molto superbo, e non si sa di cui tu sia figliuolo; tu credi essere figliuolo del Sole e credi a tua madre 73: e domanda chi era suo padre. La madre li afferma con giuramento ch’era il Sole et alla fine li disse; Va nell’oriente a lui e sapra’lo. Allora Fetonte per certificarsi del padre e per vedere delle novità, se n’andò alla casa del Sole, et entrato dentro maravigliatosi della bellezza di quella ch’era bellissima, come la descrive Ovidio nella sopra detta opera nel libro secondo, vide il padre sedere in su una sedia d’oro con una corona di dodici raggi in testa, et era di tanta chiarezza, ch’elli non potea guardare il padre in faccia. Allora lo Sole si rimosse quella corona di testa, e chiamò lo figliuolo a sè e domandollo per che cagione v’era ito. Allora rispose che v’era ito per sapere s’elli era suo figliuolo, et elli lo certificò che sì; et in segno di ciò disse che domandasse da lui ogni dono che volesse, e con giuramento li affermò che gliel darebbe. Et elli allora li domandò di reggere un di’ lo carro suo: pentessi allora il Sole d’avere promesso e giurato, e sconfortò lo figliuolo che non domandasse quello, e che v’erano tante dell’altre cose di piacere 74, che potea domandar sanza pericolo; che non domandasse quello ch’era con pericolo; ma niente di meno lo garzone stette pur nel suo proposito. Allora il Sole fece apparecchiare lo suo carro et, aggiunti al giogo li cavalli ch’erano quattro, vi pose su il figliuolo e miseli la corona de’ raggi in testa et ammonillo di quel ch’avea a fare; tuttavia tentandolo e consigliandolo che si dovesse mutare di proposito; ma non ci fu modo. Quando Fetonte fu acconcio, mosse li cavalli i quali non sentendo l’usato governatore e l’allegrezza di costui, cominciarono a correre e tenere per disviata via. Allora Fetonte cominciò ad aver paura, e sì ancora per le figure de’segni che trovava in cielo, onde abbandonò li freni. Allora li cavalli incominciarono più a correre et andare al loro beneplacito per qualunque via; onde per lo calore lo cielo si cominciò a incuocere e la terra, e perciò la terra si lamentò a Giove, e Giove prese le saette e saettò Fetonte e straboccollo 75 nel Po di Lombardia e disfece lo carro. Poi lo Sole per priego delli idii rifece il carro e restituette 76 la luce al mondo; et allora s’incosse lo cielo, come ancora si pare: imperò che, per la via che tenne, lo cielo à tanto di caldo che di sotto non si può abitare. Ne quando Icaro misero le reni Sentì spennar per la scaldata cera; dell’alie, che s’avea fatte di penne appiccate 77 con la cera, Gridando il padre, cioè Dedalo, a lui: Mala via tieni: però che volava troppo alto sì, che il caldo del cielo struggeva la cera dell’alie. E qui pone l’autore l’altra similitudine, dicendo ch’elli non crede che Icaro avesse maggior paura, quando si sentè 78 spennare, ch’ebb’elli quando Gerione incominciò a notare nell’aere, discendendo; onde è da notare la fizione che pone Ovidio, Metamorfoseos, dicendo che quando Dedalo che fu di Creta, uomo ingegnosissimo, fu rinchiuso in una torre, essente in mare, dal re Minos di Creta, perch’elli era stato cagione che della reina Pasife era nato il Minotauro, come fu detto di sopra. Il quale Teseo re d’Atene uccise per ammaestramento d’Arianna figliuola del re Minos, la quale lo detto Teseo ne menò poi seco insieme con Fedra sua sirocchia, figliuola ancora del detto Minos, la quale l’insegnò, secondo che fu ammaestrata da Dedalo, come dovesse uscire de Laberinto, e come dovesse uccidere il Minotauro; e per questo lo re Minos fece imprigionare Dedalo col suo figliuolo Icaro. Onde Dedalo essendo in prigione col suo figliuolo, procacciò d’avere della pece e della cera, e con argomento prendea delli uccelli e, prese le loro penne, fabricò due paia d’alie, uno a sè et uno al figliuolo; e quando li parve tempo, poste l’alie a sè et al figliuolo et ammonitolo che lo seguitasse, cominciò a volare sopra il mare in verso la Calavria. Quando Icaro si vide volare, insuperbito volle montare in alto per vedere le belle cose del cielo, di che avvedendosene il padre, cominciò a gridare: Mala via tieni, seguita me. Onde non credendo Icaro all’ammonimento, volò tanto in alto che appressandosi al caldo del cielo, la cera e la pece diventarono liquide onde le penne caddono 79 et annegò; e quindi è chiamato quel mare icareo. Ma vedendo questo il padre volle annegare ancora sè; ma temperato lo dolore si rattenne, e volò alla terra ferma, presso a Napoli a una città che si chiamava Cuma, e quivi offerse l’alie sue al tempio d’Appolline; e però dice l’autore non credo, quando Icaro si sentì cadere le penne, avesse maggior paura, Che fu la mia; paura, quando vidi, ch’io era Nell’aere d’ogni parte, e vidi spenta; io Dante, Ogni veduta, fuor che della fiera; cioè ch’io non vedea altro che la fiera. E questo finge, per mostrare verisimile lo suo descenso: imperò che quanto più si scendea al centro della terra, tanto più era oscuro; et allegoricamente vuol dimostrare che tutta sua considerazione era pur sopra l’astuzia, et altro non considerava allora.

C. XVII — v. 115-126. In questi quattro ternari l’autor nostro finge come Gerione notando 80 per l’aere, portando lui e Virgilio, discende nell’viii cerchio, e come sentì vento e vide e sentì pianti, dicendo così: Ella; cioè la fiera, sen va rotando lenta lenta; questo dice, per mostrare la loro discesa agevole, secondo la lettera; ma allegoricamente significa che l’astuzia procede lentamente, perchè altri non se ne avveggia: Rota; cioè piglia giro per discendere più agevolmente, e per questo intende la circulazione delle spezie dell’astuzia la quale elli facea con pensieri, discendendo a trattar di quella, e discende; questa fiera in sulla qual’era Dante e Virgilio; ma elli descendeva col pensieri dell’una spezie men grave nell’altra più grave; ma non me n’accorgo; cioè la sensualità e la ragione pratica non s’accorge della gravità delle spezie, e del discenso; e però ch’elli Dante non se n’accorge, Se non che al viso e di sotto mi venta. Pone qui una cagione, per la quale si puote l’uomo avvedere del discendere, quando sentisse ventarsi al volto, come avverrebbe a chi si calasse giù per una fune; e benchè questo sia naturale a chi discende, niente di meno volle significare che, discendendo con 81 considerazione per li gradi dell’astuzia sentia al volto; cioè alla volontà sua, il vento della ingratitudine che aggelava la sua volontà, lo quale venia dall’alie del Lucifero lo quale è fonte d’ingratitudine, come di sotto si porrà più apertamente. Io; cioè Dante, sentia già della man destra il gorgo; questo dice per mostrare che la fiera era ita verso man sinistra, et avea passato lo fiume detto di sopra, sì che s’elli era ito in verso sinistra, da man ritta si dovea sentir lo fiume; e però aggiugne: Far sotto noi un orribile scroscio; cioè suono di cadimento d’acqua pauroso, Per che; cioè per lo quale suono, con li occhi in giù la testa sporgo; cioè con li occhi chinati in giuso feci la testa in fuori a guardare di sotto. Allor fu’ io; Dante, più timido; che prima, allo scoscio; cioè al cadere, perchè l’uomo si scoscia; cioè che più teme di cadere che prima; perchè vide quanto era lo cadimento 82, e per questo significa ch’elli temette d’abbandonare la materia dell’astuzia per la sua profondità e per li grandi mali che ne seguitano, però aggiugne: Però ch’io; Dante descendendo, secondo la lettera, vidi fuochi; in che si puniscono le spezie della astuzia, e senti’ pianti; di coloro che sono puniti; e secondo l’allegorico intelletto, perch’elli vide 83 li mali; cioè l’arsione, li pianti e li dolori che induce l’astuzia contra chi ella s’usa e in chi l’usa; Per ch’io tremando; per la paura delle dette cose, tutto mi raccoscio; cioè tutto mi ristringo e riserro le cosce alla fiera, temendo d’abbandonare la materia presa a considerare, per trattare d’essa. Altrim: tutto mi riscoscio; cioè mi sferro 84 colle cosce di sulla fiera; cioè sferro la materia presa a considerare, per trattare d’essa. E vidi poi; ragguardai, che nol vedea davanti; ch’io ragguardassi e ch’io sentissi le predette cose, Lo scendere e il girar; della fiera; cioè per li gradi in discenso e per le compagne da lato in circulo, per li gran mali, Che s’appressavan da diversi canti; dove la fiera si girava; cioè ove discorrea il mio pensiere.

C. XVII — v. 127-136. In questi tre ternari et un verso l’autor nostro finge con una similitudine, come Gerione li posò giuso al fondo dell’ottavo cerchio, dicendo: Come il falcon, che stato assai su l’ali; cioè in aere volgendo e rotando 85, Che sanza veder logoro; cioè lo richiamo ch’è fatto di cuoio e di penne a modo di una alia, con che lo falconiere il suole richiamare, girandolo tuttavia e gridando; e questo fa quando non à preso preda, o l’uccello; questo dice, quando à preso preda che il falconieri li mostra lo fagiano o altro uccello che sia, e con esso lo richiama; e perchè discende, come dirà di sotto, sanza essere richiamato, Fa dire al falconieri; quando vede questo: O me tu cali; quasi dica: Io mi dolgo che tu cali; questo non è sanza cagione, o d’infermità o di stanchezza 86, o desdegno; per le quali cose si guasta 87 il falcone, e l’uccellatore niente piglia poi quel di’, Discende lasso; cioè stanco lo falcone, onde si muove snello; cioè a quel luogo, donde s’era prima mosso gagliardo, Per cento rote; discende lo falcone, e da lungi si pone; lo falcone, Dal suo maestro; cioè dal falconieri, disdegnoso e fello; cioè crucciato e disposto a mal fare; Così ne pose al fondo; dell’ottavo cerchio noi; cioè Virgilio e me Dante, Gerione; cioè quel demonio che significa l’astuzia, A piè a piè della scagliata rocca; e questo finge l’autore, per mostrare 88 che avea preso dispetto; cioè Gerione, perchè non avea potuto guadagnare nulla da Dante, perchè s’era mantenuto innocente in quel pensieri. E discarcate le nostre persone; cioè di Virgilio e di me Dante, Si dileguò; cioè Gerione da noi; cioè poichè noi fummo usciti; cioè la ragione superiore e pratica, di quella considerazione, si fuggìe l’astuzia da noi, come da corda; d’arco o di balestro, cocca; di strale o di saetta, o di bolcione, che subitamente si parte; e così si partè 89 Gerione da noi; cioè da Virgilio e da me Dante. E qui finisce lo canto xvii.

  1. C. M. spacciarsi
  2. C. M. che trova ricognoscesse
  3. C. M. Turchi
  4. C. M. dove sedea
  5. C. M. schioppava
  6. C. M. si rostavano - Di qui pare manifesto come arrostarsi o rostarsi che derivano da rosta, valgono schermirsi, difendersi. E.
  7. C. M. discorse
  8. Nel Cod. M. sta - trasse; ma noi abbiamo ritenuto, trassi, perchè talora la terza singolare del perfetto nella seconda coniugazione acconciavasi alla forma latina. Da dixit, traxit venne dissi, trassi. Presso Francesco da Barberino leggesi: dissimi uno cavaliere. E.
  9. Qui il significato di sozza è brutta, deforme. E.
  10. C. M. stoltizia
  11. Altrim - che impose il capo
  12. C. M. il duolo
  13. C. M. che non si trova, unde s’incomincia. Con più color commesse
  14. C. M. in ciò si preponea a Pallade,
  15. C. M. Va, vecchia stolta, che ci se’ troppo vissuta in questo mondo,
  16. C. M. non ci viene
  17. C. M. di certare meco.
  18. C. M. rifiuta lo certame teco.
  19. C. M. potuto apponere.
  20. C. M. due comperazioni
  21. C. M. navili, i burchi; questa è una spezie navìli, che si tirano, et l’altra metà sta in acqua
  22. C. M. e li Urchi; dicendo: E come là; cioè ne la Magna, tra li Tedeschi e li Urchi; cioè tra queste due genti
  23. C. M. dieci gradi, l’uno più grave che l’altro; per li quali gradi andò
  24. C. M. vasta solo la sensitiva:
  25. C. M. è implicato in ciò,
  26. C. M. dicendo: Così ancor, datali
  27. C. M. a considerare l’essere della fiera e della sua distinzione,
  28. C. M. erano scialamento e
  29. C. M. et alcuna volta a l’arsura della rena
  30. C. M. si rostavano le
  31. C. M. uso, nè multiplicazione o di quelle
  32. C. M. e non ànno
  33. C. M. usandole, e più tosto non usandole, come la casa
  34. C. M. premio del suo non è usura:
  35. C. M. fiorino uno a soldi
  36. Non abbiamo osato di sostituirvi il se del Cod. M., perchè talora anche il si, tolto dai Latini, viene adoperato come particella condizionale. E.
  37. Larghezza è nel Cod. M. e può stare eziandio largezza, perchè Dante stesso ci fornisce esempi del fognare l’h in talune parole venute dal latino. Nel Purg. xxv v. 36. à - sanator delle tue piage. E non dicesi indifferentemente borghese e borgese? E.
  38. C. M. abbrugiato
  39. C. M. e per questo mostra l’autore la casa de’ Gianfilliacci
  40. C. M. dei Briachi
  41. C. M. tra loro par che fusse qual che uno usurieri,
  42. C. M. Scrovigni da Padova
  43. C. M. negava l’usura essere
  44. C. M. misero e vile:
  45. C. M. Bulliammonte da Fiorenza,
  46. C. M. si corrucciasse per
  47. C. M. sii forte
  48. C. M. a li schiarizi della febra quartana che à già l’unghie smorte,
  49. C. M. ingiummai, e pillia
  50. come a cota appare - così il nostro Codice, che abbiamo corretto col Magliabechiano. E.
  51. C. M. stralo
  52. C. M. non ti faccia male;
  53. C. M. che distorce lo cavallo, era
  54. C. M. ti corrompa;
  55. C. M. di questo disguardare, e fecelo
  56. C. M. la quale prima fece mostra d’apparenzia
  57. C. M. quando da’ pensieri è tormentato di coprire sì li loro inganni che, non si scuoprano et abbia effetto.
  58. Questa voce denotante il brivido della febbre sembra derivata dal greco σκαίρω, saltare. E.
  59. C. M. seguitato con
  60. C. M. intrementisce
  61. C. M. in su la fiera, Virgilio lo sostiene, e come la fiera si muove
  62. C. M. la Scrittura soprascritta,
  63. C. M. Maiorica, Minorica et Ebuso, .... fu vinto da Ercole.
  64. C. M. dalla suprascritta Scrittura,
  65. C. M. della statua ditta
  66. C. M. astuto, anco essa astuzia:
  67. C. M. e presentazione di virtù
  68. C. M. dall’autore oltra quello che pone la suprascritta Scrittura e posto con atto distinto con tentare
  69. C. M. Altrim - ov’era posto
  70. C. M. cerchio come prima
  71. C. M. acquatile
  72. C. M. Cilmene,
  73. C. M. a tua madre: stolto che se’, ella t’inganna. Allora Fetonte sdegnato torna a la madre, e dimanda
  74. C. M. cose piacenti, che
  75. C. M. e precipitollo nel Po
  76. Restituette, da restituere della seconda coniugazione, come seguette ed altri conformati alla latina. Così più sotto è sentè, come pentè e simili da sentere e pentere. E.
  77. C. M. appiccicate
  78. C. M. sentì
  79. C. M. caddeno, et elli non potendo volare, cadde in mare et annegò;
  80. C. M. Gerione n’andò per l’aire,
  81. C. M. per considerazione
  82. C. M. era lo precipizio,
  83. C. M. vidde col pensieri li mali;
  84. C. M. mi fermo colle cosce
  85. C. M. e roteando,
  86. C. M. di stanchità, o di disdegno;
  87. C. M. cose seguita il falcone
  88. C. M. ch’era disperato, perchè non avea
  89. C. M. si partì

Note


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