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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
Canto ventesimo
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C A N T O XX.
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1Di nuova pena mi convien far versi,
E dar materia al vigesimo canto
Della prima canzon, ch’è dei sommersi.
4Io era già disposto tutto quanto
A riguardar nello scoperto fondo,
Che si bagnava d’angoscioso pianto:
7 E vidi gente per lo vallon tondo
Venir tacendo, e lagrimando, al passo,
Com fanno le letane in questo mondo.1
10Come il viso mi scese in lor più basso,
Mirabilmente apparve esser travolto
Ciascun tra il mento e il principio del casso:
13Che dalle reni era tornato il volto,2
Et indietro venir lor convenia,
Perchè il veder dinanzi era lor tolto.
16Forse per forza già di parlasia
Si travolse così alcun del tutto;
Ma io nol vidi, nè credo che sia.
19Se Dio ti lasci, Lettor, prender frutto
Di tua lezione, or pensa per te stesso,
Com’io potea tener lo viso asciutto,3
22Quando la nostra imagine da presso
Vidi sì torta, che il pianto delli occhi
Le natiche bagnava per lo fesso.
25Certo io piangea poggiato ad un de’ rocchi
Del duro scoglio, sì che la mia Scorta
Mi disse: Ancor se’ tu delli altri sciocchi?
28Qui vive la pietà, quand’ è ben morta:
Chi è più scellerato che colui,
Che al giudicio di Dio compassion porta?4
31Drizza la testa, drizza, e vedi a cui5
S’aperse alli occhi dei Teban, la terra,
Perch’ei gridavan tutti: Dove rui,
34Anfiarao? perchè lasci la guerra?
E non restò di ruinare a valle
Fino a Minos, che ciascheduno afferra.
37Mira, che à fatto petto delle spalle:
Perchè volle veder troppo davante,
Diretro guarda, e fa ritroso calle.6
40 Vedi Tiresia, che mutò sembiante,
Quando di maschio femina divenne,
Cambiandosi le membra tutte quante:
43E prima e poi ribatter li convenne
Li due serpenti avvolti con la verga,
Che riavesse le maschili penne.7
46Aronta è quel che al ventre gli s’atterga,8
Che ne’ monti di Luni, dove ronca
Lo Carrarese che di sotto alberga,
49Ebbe tra bianchi marmi la spilonca
Per sua dimora; onde a guardar le stelle
E il mar non gli era la veduta tronca.
52E quella che ricuopre le mammelle
Che tu non vedi, con le treccie sciolte,
Et à di là ogni pilosa pelle,
55Manto fu, che cercò per terre molte,
Poscia si puose là, dove nacqu’io;
Onde un poco mi piace che m’ascolte.
58Poscia che il padre suo di vita uscìo,
E venne serva la città di Baco,9
Questa gran tempo per lo mondo gìo.
61Suso in Italia bella giace un laco
A piè dell’Alpe, che serra la Magna,10
Sopra Tiralli, che à nome Benaco.
64Per mille fonti e più, credo, si bagna,
Tra Garda e Val Camonica, e Apennino
Dell’acqua che nel detto laco stagna.
67Luogo è nel mezzo là, dove il trentino
Pastore, e quel di Brescia, e il veronese
Segnar poria, se fesse quel cammino.11
70Siede Peschiera, bello e forte arnese
Da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi,
Ove la riva intorno più discese.12
73Ivi convien che tutto quanto caschi
Ciò che in grembo a Benaco star non pò,
E fassi fiume giù per verdi paschi.
76 Tosto che l’acqua a correr mette co,
Non più Benaco; ma Mencio si chiama
Fino a Governo, dove el cade in Po.
79Non molto à corso, che i trova una lama,
Nella qual si distende, e la impaluda,13
E suol di state talora esser grama.
82Quindi passando la vergine cruda
Vide terra nel mezzo del pantano,
Sanza cultura, e d’abitanti nuda.
85Lì, per fuggir ogni consorzio umano,
Ristette con suoi servi a far sue arti,14
E vissevi, e lasciò suo corpo vano.15
88Li uomini poi, che intorno erano sparti,
S’accolsono a quel luogo, che era forte
Per lo pantan che avea da tutte parti.
91Fer la città sopra quell’ossa morte,
E per colei, che il loco prima elesse,16
Mantova l’appellar sanz’altra sorte.
94Già fur le genti sue dentro più spesse,
Prima che la mattia da Casalodi,17
Da Pinamonte inganno ricevesse.
97 Però t’assenno, che se tu mai odi
Originar la mia terra altrimenti,
La verità nulla menzogna frodi.
100Et io: Maestro, i tuoi ragionamenti18
Mi son sì certi, e prendon sì mia fede,
Che gli altri mi sarien carboni spenti.
103Ma dimmi della gente, che procede,
Se tu ne vedi alcun degno di nota:
Che solo a ciò la mia mente rifiede.
106Allor mi disse: Quel, che de la gota
Porge la barba in su le spalle brune,
Fu (quando Grecia fu de’ maschi vota,
109 Sì ch’a pena rimaser per le cune)
Augure, e diede il punto con Calcanta
In Aulide a tagliar la prima fune.
112Euripil ebbe nome, e così il canta
L’alta mia Tragedia in alcun loco:
Ben lo sai tu, che la sai tutta quanta.
115Quell’altro, che ne’ fianchi è così poco,19
Michele Scotto fu, che veramente
Delle magiche frode seppe il gioco.
118Vedi Guido Bonatti, vedi Asdente,
Che avere inteso al cuoio et allo spago
Ora vorrebbe; ma tardi si pente.
121Vedi le triste, che lasciaron l’ago,
La spuola, e il fuso, e fecionsi indovine;20
Fecer malie con erbe e con imago.
124 Ma vienne omai, che già tien il confine21
D’amendu’ li emisperi, e tocca l’onda
Sotto Sibilia, Cain e le spine.22
127E pur iernotte fu la Luna tonda:23
Ben ten dee ricordar, che non ti nocque
Alcuna volta per la selva fonda.
130Noi andavamo e parlavamo introcque.24
- ↑ v. 9. C. M. le letanie - Il nostro Codice dà - letane - per l’uso, che dura tuttavia nel nostro idioma, di fognare l’i innanzi ad alcune vocali. Altrove l’Allighieri dice matera, lumera, pana e simili, per materia, lumiera, pania. Così pure non ci à divario da impero, martiro ec. a imperio, martirio. E.
- ↑ v. 13. Tornato; girato, voltato. E.
- ↑ v. 21. C. M. tener il viso
- ↑ v. 30. C. M. di Dio passion porta?
- ↑ v. 31. C. M. e vede a
- ↑ v. 39. C. M. Guarda in dirietro, e fa
- ↑ [I vv. 40-45 mancano nel Cod. Magliabechiano, come il relativo commento]
- ↑ v. 46. C. M. al ventre si li atterga,
- ↑ v. 59. Baco; Bacco. Quanto a’ nomi propri i nostri antichi non guardavano tanto pel sottile, e toglievano o aggiugnevano una qualche lettera, dettasero pure o in verso o in prosa. Così truovasi febre e febbre; Nettuno e Nettunno ec. E.
- ↑ v. 62. C. M. dell’ Alpi che serran
- ↑ v. 69. Segnar poria. Segnare vale fare il segno di croce, benedicendo. La voce poria è derivata dall’infinito pore per potere. E. - C. M. porria,
- ↑ v. 72. C. M. Dove la lama intorno
- ↑ v. 80. C. M. si distende in la paluda,
- ↑ v. 86. C. M. a far suo’ arti,
- ↑ v. 87. C. M. E vissevi, e lassiò
- ↑ v. 92. C. M. che prima il loco elesse,
- ↑ v. 95. C. M. di Casalodi,
- ↑ v. 100. C. M. altramenti
- ↑ v. 115. Poco vale Sottile. E.
- ↑ v. 122. C. M. feciersi indivine;
- ↑ v. 124. C. M. tien le confine
- ↑ v. 126. Sibilia; Sivilia. scambio che si opera facilmente per l’affinità di codeste due vocali b e v. E.
- ↑ v. 127. C. M. E già iernotte
- ↑ v. 130. Sì mi parlava et andavamo introcque. — Introcque; intanto, dal
latino inter hoc, fu adoperato eziandio dal maestro di Dante, e fuori di rima. E.
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C O M M E N T O
Di nuova pena ec. In questo xx canto l’autor nostro tratta
della quarta bolgia, nella quale si punisce il peccato dell’affatturazione o vero maleficio; e dividesi principalmente in due parti,
perchè prima pone la pena che sostengono i dannati in quella bolgia, e nominane alquanti, nominati secondo li poeti; nella seconda
nomina una femina che fu edificatrice della patria di Virgilio; cioè
di Mantova, quivi: E quella che ricuopre ec. La prima si divide in
sei parti, perchè prima l’autor pone l’entramento alla materia; nella
seconda, che gente trovasse, quivi: E vidi gente ec.; nella terza
induce lo lettore a scusa della sua compassione, e come Virgilio lo
riprende, quivi: Se Dio ti lasci ec.; nella quarta, come Virgilio li
dimostra e nomina alquanti di quelli dannati, e prima Anfiarao,
quivi: Drizza la testa ec.; nella quinta, come li dimostra Tiresia,
quivi: Vedi Tiresia ec.; nella sesta, come li dimostra Aronte, quivi:
Aronta è quel ec. Divisa la lezione, è da vedere la sentenzia litterale. Dice adunque così:
A me Dante conviene fare versi di nuova pena, per dare materia
al canto xx della prima canzone, ch’io Dante sommersi al fondo
dell’inferno; et aggiungne che gli 1 era tutto disposto a riguardare
nello scoperto fondo della quarta bolgia, il quale si bagnava d’angoscioso pianto: et allora dice che vide venir gente per lo vallon tondo,
tacendo e lagrimando al passo, pianamente, come vanno le letane in
questo nostro mondo. E dice che come il viso scese più basso in
verso loro, maravigliosamente gli parve ciascuno essere travolto di
quelli dannati, ch’erano quivi, tra il mento e il principio dello imbusto 2: imperò che il volto era tornato alle reni e convenia loro andare in dietro, perchè il vedere d’inanzi era tolto loro. E fa una similitudine che forse già per forza di parlasia si travolse così alcuno
al tutto; ma aggiugne che nol vide mai, nè crede che sia. E parla
poi al lettore, dicendo: Se Dio ti lasci prendere frutto di tua lezione,
pensa per te stesso, com’io potea tenere il volto 3 asciutto, quand’io
vidi la nostra immagine d’appresso sì torta, che il pianto delli occhi
bagnava le natiche per lo fesso. E dice ch’elli certamente appoggiato
a uno de’rocchi dello scoglio piangea sì, che la sua scorta; cioè Virgilio, li disse: Ancor se’ tu delli altri sciocchi? Qui; cioè nell’inferno,
allora vive la pietà quando è ben morta; e chi è più scelerato che
colui che porta compassione 4 al giudizio di Dio? Dirizza la testa tua,
e vedi colui il quale fu inghiottito dalla terra, nel cospetto de’ Tebani; per la qual cosa tutti li Tebani gridavano Dove: rovini, Anfiarao?
perchè lasci la guerra? E non restò di rovinar giuso infin che venne
a Minos, giudice dell’inferno, lo quale afferra ciascuno dannato.
Mira, dice Virgilio a Dante, ch’elli à fatto petto delle spalle, perchè
volle vedere troppo innanzi, or guarda indietro e va addietro. Vedi
ancor Tiresia che mutò sembiante, quando divenne di maschio
femina, cambiandosi tutte le membra virili in feminee; e prima e
poi li convenne ribattere li due serpenti avvolti con la verga ch’avea
in mano, ch’elli riavesse le maschili penne; cioè membra. E quell’altro, che viene col dosso al suo ventre, è Aronte, ch’ebbe la spilonca 5 per sua abitazione nelli monti di Luni, dove lavora quel da
Carrara tra bianchi marmi: imperò che Carrara è di sotto a questa
montagna, e quindi potea vedere molto bene le stelle et ancora il
mare; e qui finisce la sentenzia litterale. Ora è da vedere lo testo
con l’allegorie, o vero moralità. Dice adunque così:
C. XX — v. 1-6. In questi due ternari l’autor nostro propone la materia, della quale elli à a parlare in questo vigesimo canto, dicendo: Di nuova pena; della quale dirò di sotto, mi convien far versi; cioè reducere in rima in questi versi 6 per ternario, come appare di sopra, E dar materia; cioè nuova, della quale novamente si dee trattare, al vigesimo canto; cioè all’ultimo de’ venti capitoli chiamati canti, come detto fu di sopra, Della prima canzon; cioè della prima cantica, ch’io; cioè Dante, sommersi; cioè misi a fondo; o forse dice lo testo, ch’è dei sommersi; cioè la quale cantica è delli infernali che sono sommersi, cioè sottomersi nella terra et affondati. Questo dice, perchè la prima cantica tratta dell’inferno il quale è il più basso luogo che sia; e però è da notare litteralmente che questa Comedia si divide tutta in tre cantiche, e questa prima si divide in 34, et altre due in 33 ciascuna, e così li canti di tutta l’opera sono cento; e però dice l’autore che questo è lo vigesimo canto della prima cantica della sua Comedia. Io era già disposto tutto quanto; cioè io Dante, A riguardar nello scoperto fondo; cioè della quarta bolgia, Che; cioè la quale 7, si bagnava d’angoscioso pianto; de’ peccatori che vi si punivano. Et è qui da notare che in questa bolgia l’autore finge che si punisca il peccato dell’affatturazione, che comunemente si suole chiamare ammaliazione; ma secondo lo Grammatico si chiama sacrilegio; et è sacrilegio sacramento 8 del culto, che si dè dare a Dio, a darlo a’demoni et all’idoli. E questo peccato à principalmente sotto sè quattro spezie; cioè divinazione, malificio, suprestizione 9 e stregoneccio; e benchè molte sieno le spezie delle divinazione, basti a cercarne 10 14; cioè piromanzia, aeremanzia 11, idromanzia, geomanzia, fitonizia, nigromanzia, augurio, sortilegio, orispizio 12, ariolazio, magicazio, sonnilegio, stenuilegio 13, psalterilegio. E di questo peccato e delle sue spezie si tratterà in questo canto, ove si pone che indovini, maliosi, superstiziosi e stregoni sieno puniti con nuova pena, come dirà incontanente; et è questo peccato contenuto sotto la fraude per tanto, che questi sì fatti peccatori intendono a vanagloria, e per farsi onorare e tenere saputi; et ancora per avarizia, per estirpare d’altrui usano questi modi che sono detti di sopra, e li quali conoscono veramente non essere veri, e così ingannano li semplici e li stolti. E benchè alcuna volta si truovino avere effetto, questo è per inganno del dimonio; et però questo peccato è sotto l’astuzia, o vero fraude, e commettesi quando con fatti e quando con parole; e però l’autore v’adatta la pena che dirà di sotto.
C. XX — v. 7-18. In questi quattro ternari l’autor nostro dimostra la pena, che sostengono quelli peccatori che sono dannati nella quarta bolgia, dicendo: E vidi; io Dante, poi ch’io fu’ disposto a riguardare nel fondo della bolgia, gente per lo vallon tondo: però che ogni bolgia gira in tondo, secondo la sua fizione, Venir tacendo, e lagrimando, al passo; cioè piano, Com; cioè come, fanno le letane; cioè le processioni de’ cherici col popolo dietro, quando circundano l’estremità della città e li luoghi publichi, cantando le letanie, in questo mondo; cioè nel nostro mondo ove Dante compose questo poema, lo quale finge aver composto, poi che fu tornato dalla sua visione e fantasia. Come il viso mi scese in lor più basso; cioè come riguardai più giuso in verso quelli peccatori, Mirabilmente apparve esser travolto; a me Dante, Ciascun; di quelli miseri peccatori, tra il mento e il principio del casso; cioè del corpo voto: tutte le membra umane sono piene, salvo che dalle spalle infino alle coste, ove lo imbusto à del vano, benchè vi sieno le interiora; e però vuol dire tra il mento e le spalle, che sono principio dello imbusto, ciascuno era rivolto, e dichiara questa revoluzione, dicendo: Che dalle reni era tornato il volto; sicchè nella gola era fatta questa revoluzione; cioè tornato il volto di rietro, e però dice: Et indietro venir lor convenia; dov’era volto il volto; et assegna la Cagione, Perchè il veder dinanzi era lor tolto; cioè che non aveano li occhi d’inanzi; ma di dietro. E per mostrare ben maravigliosa questa mutazione, aggiugne: Forse per forza già di parlasia; è una infermità, che à a distorcere alcuna parte del corpo umano et offendere; e se offende tutto lo corpo si chiama apoplessia, Si travolse così alcun; cioè uomo, del tutto; cioè rivolgendo al tutto il membro, Ma io; cioè Dante, nol vidi, nè credo che sia; uno corpo umano al tutto così travolto. Et è qui da notare, perchè lo nostro autore litteralmente finge questa pena a sì fatti peccatori, e poi quel che ne intende allegoricamente di quelli del mondo. E prima si dè considerare che questa è congruente pena a tal peccato: imperò che degna cosa è che chi à voluto vedere le cose future, che non n’è possibile all’umana natura, se non quanto Idio gliele volesse revelare, non veggia nulla innanzi, anzi sia costretto a guardare addietro; e chi s’è rallegrato del vedere inanzi, pianga dell’essere rivolto addietro; e chi è voluto correre inanzi più che sia possibili, vada pianissimamente addietro; e chi s’è torto 14 dal culto del vero Idio, sia torto per punizione di ciò di sè medesimo: et ancora chi s’è torto 14 dalla carità del prossimo per fraude et inganno, sia torto da sè medesimo. Et allegoricamente si può vedere queste passioni essere ne’ detti peccatori, che vivono nel mondo: imperò che questi cotali che vogliono vedere 15 inanzi che gli altri, veggono addietro in quanto si partono da Dio, al quale deono indirizzare il suo suardo 16, et ellino ragguardano in verso lo demonio a dietro; e come costoro credeano e credono andare inanzi per questi viziosi modi, vanno addietro: imperò ch’ei si credono essere più onorati, et essi sono più dispetti; e vanno piano a dietro, perchè l’uno di’ si truovano più despetti e più ingannati che l’altro, e più poveri e più conosciuti li loro inganni e mendaci. E portano il volto rivolto dall’altro corpo, perchè sono separati dall’amore e dalla carità delli altri uomini; et in quanto mostrano col corpo dovere andare inanzi, e vanno addietro, significa lo inganno che fanno agli altri uomini: imperò che mostrano loro di vedere le cose future, e non le veggono; ma alcuna volta viene loro detto il vero per l’ordine delle cose passate; e così ingannono, mostrando che per loro facimoli 17 le dimostrino; et alcuna volta tacciono, alcuna volta piangono acciò che con questo meglio ingannino, o vogliamo dire che sempre tacciono e sempre piangono; tacciono quanto al vero: imperò che sempre mentiscono, e bene che venga lor detto lo vero, quanto a loro mentiscono perchè mostrano di vedere quello che non veggono; e sempre piangono, perchè sempre la coscienzia li rimorde; vanno in circulo, perchè sempre ritornano in quelli medesimi faccimoli 18 et incantamenti o suprestizioni che è movimento circulare; e brevemente sono sette condizioni che sono da notare in questa pena che sono segnate di sopra; cioè tacere, lagrimare, andare al passo, lo rivolgimento del volto, andare a dietro, vedere di dietro, andare in circulazione, che tutte si convengono verisimilmente per pena di sì fatto peccato alli dannati; et allegoricamente sono dimostrate essere dette per quelli del mondo, che vivono in sì fatto peccato.
C. XX — v. 19-30. In questi quattro ternari dimostra l’autor nostro la compassion ch’elli ebbe a sì fatta pena, et induce lo lettore a scusarla, e soggiugne la riprensione di Virgilio, dicendo così: Se Dio ti lasci, Lettor, prender frutto Di tua lezione; cioè che tu la intenda bene e che tu ne diventi migliore, e correggati di sì fatto peccato, se tu se’ impacciato in esso; o che tu te ne guardi se non vi se’, e questo è lo vero frutto della lezione, or pensa per te stesso; quasi dica: Pensa se tu fossi stato a veder questo, avrestiti tu potuto tenere che non piagnessi? Certo no; e così io, Com’io; cioè Dante, potea tener lo viso asciutto; ch’io non piagnessi, Quando la nostra imagine; cioè umana: da presso Vidi sì torta; come fu detto di sopra, che il volto era volto di rietro, e di questo s’avvide quando più s’approssimoe, che il pianto delli occhi; cioè le lagrime che cadeano dalli occhi, Le natiche bagnava per lo fesso; finge l’autore che le lagrime, che cadeano dal volto in sulla concavità delle spalle, entrassono nel canale delle reni, e così andassono giù tra il fesso delle natiche. Certo io; cioè Dante, piangea; per compassione, poggiato ad un de’ rocchi; dice rocchi per mostrare che non erano tagliati per ingegno umano; ma come fa la natura nelli monti, che quivi è uno sasso più eminente e colà un altro, sicchè rocchio tanto è a dire, quanto pezzo informe di legno o di sasso, Del duro scoglio; cioè del ponte, in sul quale era sopra la bolgia, sì; cioè per sì fatto modo piangea, che la mia Scorta; cioè Virgilio, Mi disse; cioè disse a me Dante: Ancor se’ tu delli altri sciocchi; cioè delli altri stolti, che portano compassione alli dannati? Onde aggiugne uno bello notabile, dicendo: Qui; cioè nell’inferno, vive la pietà, quand’è ben morta; cioè non aver pietà delli infernali è esser pietoso: Chi è più scellerato che colui, Che al giudicio di Dio; che è sempre giusto, compassion porta; cioè porta pena e dolore di colui, che giustamente è condannato da Dio? E però qui è da notare che cosa è pietà e compassione, et alcuno dubbio. E prima, pietà, secondo che Ughiccione dice, è virtù per la quale alla patria et a’ benivolenti et a’ congiunti con sangue si dà officio e diligente culto, o vero per la quale noi diventiamo benivoli ai congiunti con sangue. E compassione è dolore dell’altrui pena; e nasce la pietà dalla carità, e dalla pietà nasce compassione e congratulazione, le quali sono contrarie: imperò che, come è detto, compassione è dolore del male del prossimo; e congratulazione è allegrezza del bene del prossimo. E puossi muovere uno dubbio; se alli giustamente condannati si dee avere compassione. E pare che l’autore voglia che no, secondo che dice nel testo, et in contrario pare che sì: imperò che l’uomo dè avere carità in verso lo suo prossimo; e s’elli à carità, li conviene essere lieto del bene, e dolente del male. Dunque si dee avere compassione alli giustamente condannati che ànno male; cioè la pena? A questo dubbio si dee rispondere che non si dee aver compassione a’ giustamente condannati, quanto alla pena: imperò che la pena è buona per ragione di giustizia; ma sì alla miseria: imperò che l’uomo si dee dolere che lo prossimo sia caduto in quella miseria del fallo commesso. Occorre ancora un altro dubbio; cioè come sia pietà non avere pietà, come dice l’autore nel testo quando dice: Qui vive la pietà; quand’è ben morta: imperò che pare essere contradizione. A questo si risponde che la pietà, che è cagione di congratulazione e di compassione, si pone per li suoi effetti secondo che è usanza di retorici di porre alcuna volta l’effetto per la sua cagione, et alcuna volta la cagione per lo suo effetto, per quello colore che si chiama metonimia 19; e così fa qui l’autore, e deesi intendere così. Qui; cioè nelli dannati e per rispetto delli dannati, vive la pietà; cioè la congratulazione della giustizia di Dio, che giustamente dà pena ai dannati, quand’è ben morta; la pietà, cioè la compassione della pena de’dannati: imperò che due cose contrarie non possono essere in uno suggetto, e però non può uno avere congratulazione insieme e compassione; ma, tolta via l’una, ben può avere l’altra, e però tolta la compassione, può avere congratulazione: e così tolta la congratulazione, può avere compassione; ma l’una e l’altra insieme, no. Et avere dolore della pena, che è bene, è cosa ingiusta, e però ben dice: Chi è più scellerato che colui, Che al giudicio di Dio compassion porta?
C. XX — v. 31-39. In questi tre ternari l’autor nostro finge che Virgilio li dimostri e manifesti alcuni di quelli dannati, e prima Anfiarao, dicendo: Drizza la testa, drizza; questo finge che dica Virgilio a lui Dante, perchè prima à finto ch’elli stesse appoggiato a uno scoglio e piangesse; e per questo s’intende che stesse a 20 capo chino: imperò che il piangere significa mollezza d’animo; e perchè all’uomo si disdice la mollezza dell’animo, ogni savio uomo del pianger si vergogna et abbassa la testa, e però finge ch’elli avesse per lo pianto abbassata la testa; e che Virgilio, che significa la ragione, di ciò lo riprenda e dica che drizzi la testa; e per questo s’intende che finisca il pianto, e vedi a cui; cioè vedi colui, al quale, S’aperse alli occhi dei Teban la terra; cioè quando combattea intorno a Tebe, vidono li Tebani; cioè i cittadini di Tebe che erano assediati, aprirsi la terra et inghiottirlo, Perch’ei gridavan tutti; cioè li Tebani: Dove rui; cioè dove vai rovinando 21, Anfiarao? Questo è il nome propio di colui, perchè lasci la guerra; cioè nostra? E questa è nimichevole derisione, e chiamasi appo il Grammatico sarcasmos questo modo del parlare, E non restò di ruinare a valle; cioè giù al fundo della terra, Fino a Minos; cioè a quel giudice dell’inferno, del quale fu detto di sopra cap. v: Stavvi Minos, e orribilmente ringhia ec. - che ciascheduno afferra; cioè ciascun peccatore; e benchè li poeti abbino finto tre giudici infernali; cioè Minos, Eaco, e Radamante 22 che furono figliuoli di Giove, l’autor nostro non ne pone se non uno. Mira, che à fatto petto delle spalle; questo dice, perch’à finto che tutti sieno rivolti nella gola; et assegna la cagione della sua fizione, Perchè volle veder troppo davante; cioè troppo dinanzi, che volle vedere quello che dovea venire, Diretro guarda; per ch’elli à volto il volto indietro, e fa ritroso calle; cioè che va addietro; e questo fu dichiarato di sopra 23, alla allegoria. Ora è da notare la storia di Stazio, Tebaidos, dicente che quando Adrasto 24 re d’Argo prese a rimettere lo suo genero Polinice in Tebe, che non ve lo lasciava tornare il suo fratello Etiocle, lo re Anfiarao ch’era vates di Febo; cioè sacerdote e manifestatore delle sue risposte, sconfortava per li suoi indovinamenti e per le sue arti che non si dovesse andare a Tebe. E presosi pur d’andarvi, Anfiarao s’appiattò per non andarvi, e li altri cinque re richiesti dal re Adrasto non vi volevano andare, se non andava con loro Anfiarao; onde Argia la moglie di Polinice e figliuola del re Adrasto, andò alla moglie d’Anfiarao che si chiamava Erifile, e tanto la lusingò promettendole di darle lo suo adornamento che portava a collo, ch’ella l’insegnò Anfiarao che s’era appiattato per non andarvi, perch’elli, come indovino delle cose future, sapea e vedea ch’elli vi dovea morire andandovi. E trovato Anfiarao fu costretto di andarvi; e quando fu a Tebe un di’ combattendo in sul suo carro, la terra s’aperse et inghiottilo, e col carro e con tutte l’armi se n’andò nell’inferno. Et allora fu giudicato da Minos ch’elli, ch’era stato indovino, fosse di quelli della quarta bolgia; e questo aggiugne l’autor nostro alla fizione di Stazio, e similmente quel che dissono li Tebani.
C. XX — v. 40-45.25 In questi due ternari l’autor nostro finge che Virgilio li mostri Tiresia, onde dice: Vedi; tu Dante, Tiresia; cioè quello indovino così chiamato, che mutò sembiante; cioè costume, Quando di maschio femina divenne; cioè di maschio fu fatto femina, Cambiandosi le membra tutte quante; cioè quelle che ànno a fare differenzia del sesso: E prima; per questa orazione defettuosa si conviene supplire così: E prima li convenne battere li due serpenti avvolti con la verga ch’avea in mano, che divenisse femina, s’intende, per quello ch’è ito inanzi, e poi ribatter li convenne; cioè un’altra volta battere, Li due serpenti avvolti con la verga; cioè avvolti insieme, come stanno quando sono in amore, Che riavesse le maschili penne; cioè che ritornasse maschio, com’era prima. E per questo è da notare la fizione d’Ovidio, Metamorfosi, che Tiresia il quale fu Tebano, andando un di’ per una selva fuori di Tebe trovò due serpenti insieme, come fanno quando sono in amore, et esso li battè con una verga la quale avea in mano, et allora subitamente si trovò mutato di maschio femina e stette così sette anni, e nell’ottavo anno andando per quella medesima selva, trovò ancora quelli medesimi serpenti avvolti insieme in quello medesimo luogo, onde si pensò che quello che l’avea fatto diventar femina lo farebbe ritornar maschio, e battee questi serpenti ancora con la verga che avea in mano, e fu ritornato maschio. Per la qual cosa essendo poi quistione tra Giove e Giunone qual era maggior diletto nella congiunzione carnale, o del maschio, o della femina, elessono per arbitro Tiresia ch’avea provato l’un e l’altro sesso, et elli diede la sentenzia per Giove, dicendo che ove l’uomo avea tre oncie di diletto, la femina ne avea nove sì, che tre tanti n’avea; onde Giunone crucciato per questo, li tolse il vedere corporale per vendetta di ciò, e Giove per ristoro della vista corporale li diede lo vedere mentale, dandoli l’arte dello indovinare, e così fu fatto indovino Tiresia; e però l’autore finge che sia dannato in questo luogo.
C. XX— v. 46-51. In questi due ternari l’autor nostro finge che
Virgilio li mostri presso a Tiresia Aronte, dicendo: Aronta è quel che al ventre; cioè di Tiresia, gli s’atterga; cioè oppone il dosso al ventre di Tiresia; e così era necessario seguitando la fizione detta di
sopra, che il capo fosse volto; cioè lo volto alle spalle, e con la cottola
al petto, Che; cioè lo quale Aronte, ne’monti di Luni; Luni fu una
città in Lunigiana in sul mare, incontra a Serezana, la quale fu
disfatta, già è gran tempo, et ancora appaiono le sue vestigie, dove;
cioè nel qual luogo; cioè ne’ quali monti, ronca; cioè diveglie 26 li
boschi e dimestica: imperò che roncare è divegliere le piante, Lo Carrarese; cioè l’abitatore di Carrara, che di sotto; a quelli monti,
cioè nella valle: imperò che Carrara è giù nella valle, alberga 27,
Ebbe tra bianchi marmi; questo dice l’autore, perchè 28 qui si cava
in quelli monti lo marmo bianco, la spilonca; cioè la sua abitazione
la quale era in una concavità di monte, Per sua dimora; cioè per
sua abitazione, e molto era in alto; e però dice: onde; cioè della
quale spelonca, a guardar le stelle; questo dice, perchè elli fu auguriatore 29 et indovinava nelle cose di sopra, E il mar; che quivi è
vicino, non gli era la veduta tronca; cioè rotta per alcuno tramezzo.
Di costui parla Lucano nel primo libro che, movendosi discordia tra
Cesare e Pompeio, li Romani mandarono per lui e fecionli fare l’arte;
et elli predisse loro ciò che n’avvenne, pigliando lo sangue 30 nelle
intestine d’uno vitello; e quindi lo prese l’autor nostro. E qui finisce la prima lezione del xx canto.
E quella ec. Qui si comincia l’altra lezione e dovidesi 31 tutta
in sette parti, perchè prima l’autore continuando, finge che Virgilio
li mostri quelli dannati che furono infami del peccato del sacrilegio,
e prima li dimostra Manto, dicendo chi ella fu; nella seconda descrive lo luogo ove fu Mantova edificata, quivi: Suso in Italia ec.; nella
terza, quale luogo in Italia eleggesse Manto per sua abitazione, e discrive e dimostra come li abitatori vicini feciono la città in que
luogo, quivi: Quindi passando ec.; nella quarta finge come rispose a
Virgilio, e domanda delli altri, quivi: Et io: Maestro, ec.; nella quinta
finge che Virgilio li mostri Euripilo, quivi: Allor mi disse ec.; nella
sesta, come li dimostra ancora alquanti altri di sì fatto peccato
infetti, quivi: Quell’altro ec.; nella settima finge che Virgilio lo solliciti al cammino et al processo dell’opera, quivi: Ma vienne omai ec.; Divisa la lezione, ora è d’attendere alla sentenzia litterale la quale è questa.
Continuando Virgilio la sua narrazione e nominazione incominciata di quelli dannati, dice così: E quella femina che ricuopre con le trezze 32 sciolte le mammelle le quali tu non vedi, perchè sono di là, et insieme le parti pilose del corpo: però che di là è la parte anteriore del corpo, fu Manto che cercò ove potesse avere sua abitazione per molte terre; e poi si pose ove è ora Mantova dove nacqui io Virgilio, che non v’era ancora abitazione veruna; onde un poco mi piace che m’ascolti. Poi che il padre di Manto morìe, e venne serva la città di Bacco; cioè Tebe, questa Manto andò gran tempo per lo mondo; onde al fine pervenne al luogo, che ora ti dirò. Suso nel mondo, nella bella Italia, giace uno lago a piè dell’Alpe che serrano la Magna, sopra una contrada che si chiama Tiralli; lo quale lago si chiama Benàco, nel quale lago discendono mille fonti e più tra del monte chiamato Garda, e del monte chiamato Valcamonica e del monte chiamato Apennino; et è posto questo lago in mezzo tra Trento e Brescia e Verona sì, che lo Vescovo di ciascuna di queste tre città se vi passasse, potrebbe segnare in quel luogo, perchè è comune a tutte e tre queste città, et è di loro giurisdizione. E quivi ove lo lago inchina, è uno castello bello e forte che si chiama Peschiera, atto ad essere alle frontiere ai Bergamaschi et ai Bresciani, e da quella lama l’acqua, che non può stare nel detto lago, piglia corso giù per li verdi paschi e fassi fiume, che non si chiama più Benàco; ma Mencio 33 in fino a uno castello che si chiama Governo: e quivi il Mencio perde il suo nome, per ch’entra in Po; e questo Mencio non corre molto, che truova una lama nella quale si distende, e fa una palude la quale suol essere talvolta di state inferma. E per questo luogo passando la vergine Manto, vide nel mezzo della palude a modo di una isola, sanza coltura et abitazione; et in quello luogo si ristette co’ suoi servi a fare sue arti magiche di che ell’era maestra; e quivi, per fuggire ogni consorzio umano, si ristette e visse e morì: e poi li uomini ch’erano sparti qui e d’intorno, si raccolsono in quel luogo, perch’era forte per lo pantano ch’era d’intorno, e feciono la città sopra l’ossa di Manto, e per lei che prima elesse quel luogo la chiamarono Mantova, sanza altra elezione di nome. Et aggiugne che già fu più appopolata che non era allora; cioè innanzi che la mattia di Casa Lodi ricevesse inganno da Pinamonte, però ti fo cauto et avvisato, che se mai tu odi altrimenti originare la mia terra, nulla menzogna frodi la verità. E Dante allora rispose: Maestro, li tuoi ragionamenti mi sono sì certi e prendono sì mia fede, che gli altri mi sarebbono carboni spenti; ma dimmi della gente che procede, se tu ne vedi alcuno degno di nota, che la mia mente s’intende solamente a ciò. Allora Virgilio disse: Quello che della gota porge la barba in su le spalle brune, fu auguriatore quando Grecia fu vota de’ maschi per andare a Troia sì, che appena rimasono i fanciulli per le culle 34, et insieme con Calcante diede il punto a tagliare la prima fune, et ebbe nome Euripilo, e così il canta l’alta mia Tragedia in alcuno luogo: ben lo sai tu, Dante, che la sai tutta quanta. E quell’altro che ne’fianchi è così poco, fu Michele Scotto che veramente seppe il giuoco delle magiche frode. Vedi Guido Bonatti, dice Virgilio a Dante, vedi Asdente lo qual vorrebbe ora avere inteso al cuoio et allo spago; ma tarde si pente. Vedi ancora le triste femine che lasciarono l’ago, la spuola, e il fuso, e fecionsi indovine e feciono malìe con erbe e con imagini. Ma vienne oggimai 35: imperò che già tiene li confini di amendue li emispèri, e tocca l’onda sotto Sibilia Cain e le spine, e già iernotte fu la luna tonda: ben te ne dee ricordare che non ti nocque 36 alcuna volta per la selva fonda. Et a questo modo mi parlava Virgilio, dice Dante, et andavamo intanto; e qui finisce la sentenzia litterale. Ora è da vedere lo testo con le moralità et allegorie.
C. XX — v. 52-60. In questi tre ternari l’autor nostro finge che Virgilio, continuando la dimostrazione incominciata di sopra, li dimostra una femina ch’ebbe nome Manto, dicendo così: E quella; cioè femina, che ricuopre le mammelle Che tu; cioè Dante, non vedi; perchè sono di là, con le treccie sciolte; e per questi segni dimostra che fosse femina, Et à di là; cioè dal ventre, ogni pilosa pelle; cioè lo pettignone, Manto fu, che cercò; cioè andò errando, per terre molte, Poscia si puose; Manto, là, dove nacqu’io; cioè Virgilio; Onde un poco mi piace; cioè a me Virgilio, che m’ascolte; tu, Dante. Qui fa l’autore una digressione, per dire l’edificazione di Mantova, fingendo che Virgilio ne parli, dicendo: Poscia che il padre suo; cioè di Manto che fu Tiresia, del quale fu detto di sopra, di vita uscìo; cioè morì, E venne serva; cioè fu suddita a Teseo, la città di Baco; cioè Tebe, Questa; cioè Manto, gran tempo per lo mondo gìo. Et è qui da sapere che Manto fu figliuola di Tiresia, del quale fu detto di sopra che fu re di Tebe e fu auguriatore, e venuta la città in suggezione di Teseo re d’Atene, partissi quindi et andò errando con sua gente; e finalmente pervenne in Italia; cioè in Lombardia, e posesi quivi ove è ora Mantova, e fu chiamata Mantova del nome Manto; e perch’ella fu augure, però finge l’autore ch’ella sia tra questi dannati. Et ancora è da vedere, perchè Tebe fu chiamata la città di Bacco, e com’ ella divenne serva. E quanto al primo dice Ovidio che Semele fu una delle reine di Tebe, la quale ingravidò di Giove, e di lei nacque uno figliuolo lo quale fu deificato e chiamato Liber pater, e per altro nome Bacco, e fece grandissimi fatti, et accrebbe e tenne in buono stato la città di Tebe. E poi che fu deificato 37, secondo Stazio, fu autore e difenditore della detta città, e però fu chiamato Tebe la città di Bacco. E quanto al secondo, dice Stazio che poi che Polinice et Eteocle figliuoli del re Edipo si uccisono con avvicendevoli ferite nella singulare battaglia, li Tebani ebbono per loro re Creonte lo quale vietò a’ Greci che v’erano stati ad assedio, che non potessono seppellire li loro morti: imperò che dopo la morte di quelli due fratelli, lo esercito si partì a rotta. Et avvenne caso 38 in quel tempo; Teseo re d’Atene tornò con vittoria del regno delle Amazonide e menonne seco la reina Ippolita; onde essendo ancora in sul carro, tornando nella città si lamentarono i suoi di Creonte. Onde egli indignato mosse l’esercito et andò a Tebe, e vinse Creonte e soggiogò la città e fecela tributaria alli Ateniensi, et allora diventò serva; et allora Manto, ch’era della progenie di Creonte, se ne partì et andonne per lo mondo.
C. XX — v. 61-81. In questi sette ternari l’autor nostro finge che Virgilio facesse una digressione dalla materia, per narrare l’origine di Mantova della quale città nacque esso Virgilio. Dice adunque così, descrivendo lo lago di Garda: Suso; cioè nel mondo, in Italia bella; così Virgilio la determina nella sua Eneida, e da tutte le gente 39 ch’ànno intendimento, si reputa l’Italia il più bello paese del mondo, giace un laco; questo si chiama ora lo lago di Garda, denominato del monte a piè del quale è, A piè dell’Alpe, che serra la Magna; cioè divide la Magna della 40 Lombardia, e dentro da quell’Alpe è la Magna, Sopra Tiralli; cioè più in su che Tiralli, ch’è una città del Piemonte 41, che à nome Benaco; questo lago così si solea chiamare; ma ora si chiama, come detto è, lo lago di Garda. E descrive l’autore ora quello luogo, usando quel colore che in greco si chiama topografia, dicendo: Per mille fonti e più, credo, si bagna; dimostra la generazione del detto lago, mostrando che si generi dell’acque e de’ rii e fiumane che caggiono di tre montagne le quali nomina, Tra Garda; che è una di quelle, e Val Camonica; che è un’altra, e Apennino; che è quello che divide la Magna dalla Lombardia con l’uno suo ramo, e con l’altro divide la Lombardia dalla Toscana, Dell’acqua che nel detto laco stagna; cioè discende, e quivi poi si sta e fa stagno. Luogo è nel mezzo; del detto lago, là, dove il trentino Pastore; cioè lo Vescovo di Trento, e quel di Brescia; cioè il pastore, e il veronese; cioè pastore, Segnar poria; siccome in sua diocesi, se fesse 42 quel cammino; cioè se andasse per quella via; e per questo si dimostra che quel lago sia nel mezzo del cammino, o vero terreno, di Trento, e di Brescia, e di Verona, e così della diocesi di questi tre vescovadi. Siede Peschiera; questo è uno castello sul detto lago, bello e forte arnese; questo dice, perchè è forte e bello: arnese tanto è a dire, quanto adornamento, quello castello è adornamento di quella contrada, Da fronteggiar Bresciani e Bergamaschi; cioè da stare a fronte con Brescia e Bergamo, con le quali cittadi Peschiera è vicina et atta a difendersi da loro, et a comparire così bene come quelle due cittadi, Ove la riva intorno più discese; descrive lo luogo ove è posto Peschiera; cioè in su lo lago, da quella parte dove lo lago à più chino. Ivi; cioè a quello luogo ove è Peschiera, convien che tutto quanto caschi Ciò che in grembo a Benaco star non pò; cioè quello che non può ritenere lo detto lago, E fassi fiume giù per verdi paschi; cioè correndo per verdi pasture. Tosto che l’acqua a correr mette co; cioè capo; cioè come l’acqua comincia a correre, Non più Benaco; si chiama, s’intende; ma Mencio si chiama; quell’acqua che esce di Benaco, Fino a Governo; cioè fino a quel castello, che si chiama Governo che è in sul Po, e però dice: dove el; cioè dov’elli, cade in Po; cioè nel fiume maggiore della Lombardia, che è chiamato da’ poeti Eridano. Ritorna ancora a Mencio, dicendo: Non molto à corso; questo Mencio poi ch’è uscito di Benaco, che i trova una lama; cioè una concavità, Nella qual si distende; cioè si rallarga e comprende assai terreno a modo di uno lago, e la impaluda; cioè fa diventare quel luogo pantanoso e corrotto, E suol di state talora esser grama; cioè inferma alcuna volta la state, e puzzolente 43 e contraria alla sanitade: credo quando sono li grandi asciutti 44 e secchi.
C. XX — v. 82-99. In questi sei ternari finge l’autor nostro che Virgilio, descritto lo luogo, dimostra e manifesta l’edificazione della sua città Mantova, dicendo: Quindi; cioè per quello luogo che descritto è di sopra, passando la vergine cruda; cioè Manto la quale appella cruda, perchè fuggiva consorzio umano; dice vergine, perchè allora era vergine; ma poi prese marito, et ebbe uno figliuolo ch’ebbe nome Oeno e poi fu chiamato Prianors 45, Vide terra nel mezzo del pantano; e questo terreno non era piccolo spazio; ma ben grande, secondo che oggi si vede, Sanza cultura; cioè lavorio, e d’abitanti nuda: però che nullo v’abitava, Lì; cioè in quel luogo ov’era la terra, in mezzo della palude, per fuggir ogni consorzio umano; cioè d’ogni compagnia d’uomo, Ristette con suoi servi; ch’erano venuti con lei da Tebe, a far sue arti; magiche che essa sapea fare, E vissevi; in quel luogo, e lasciò suo corpo vano; cioè voto dell’anima, perchè quivi morì: allora è lo corpo vano, quando è voto dell’anima. Li uomini poi; cioè dopo la morte di Manto, che intorno erano sparti; abitando per le ville, S’accolsono a quel luogo, che era forte; ad abitare insieme, Per lo pantan che avea da tutte parti; assegna la cagione della sua fortezza. Fer la città; quelli uomini, sopra quell’ossa morte; di Manto, E per colei, che il loco prima elesse, Mantova l’appellar sanz’altra sorte; questo dice, perchè li antichi in nominare la città pigliavano li augùri e gittavauo le sorti; la qual cosa non feciono coloro, se non che la nominarono Mantova da Manto. Già fur le genti sue dentro; nella città di Mantova, più spesse; che non sono ora 46: però ch’al tempo di Dante era molto nota 47 la detta città, Prima che la mattia da Casalodi; questo fu uno casato di gentili uomini e conti di Mantova, Da Pinamonte; questi fu uno cavalieri e conte di Mantova, inganno ricevesse: però che questo messer Pinamonte ingannò quelli di Casalodi. Onde è da sapere che anticamente Mantova ebbe molti gentili uomini, tra’ quali erano li Arinci 48, Marcarii, Casalodi, e Bonacosi 49, e molti altri casati et antichi cittadini i quali erano sì pari in grandezza, che non si potea discernere qual fosse il maggiore. Avvenne che uno de’ Bonacosi, ch’ebbe nome messer Pinamonte, si propose d’essere signore di Mantova, e però s’accordò con le dette tre case e cacciò della città ogni uomo ch’avea potenzia che non fosse con loro, e poi s’accordò coi Casalodi e coi Marcarii e cacciò li Arinci, e poi accordatosi col popolo cacciò li Casalodi e tutti li loro seguaci, e così rimase la città molto vota e rimase signore messer Pinamonte co’suoi Bonacosi; e però dice l’autore: La mattia da Casalodi: imperò che ben furono matti, vedendo che messer Pinamonte non tenea fede alli altri, non si doveano fidare di lui. Et ora finge l’autore che Virgilio conchiuda: Però t’assenno; cioè t’insegno e faccioti savio e cauto, che se tu; cioè Dante, mai odi Originar; cioè dare origine e principio, la mia terra; cioè Mantova, altrimenti; ch’io t’abbia detto, La verità nulla menzogna frodi; cioè nulla bugia inganni la verità, la quale sta come ti dico.
C. XX — v. 100-105. In questi due ternari l’autor nostro risponde alla conclusione che finge che facesse Virgilio, e ritorna alla materia, dicendo: Et io; cioè Dante dissi, s’intende: Maestro; cioè Virgilio, i tuoi ragionamenti Mi son sì certi; cioè a me Dante, e prendon sì mia fede; cioè vi do tanta fede, Che gli altri; ragionamenti, mi sarien carboni spenti; cioè non mi moverebbono a credere loro, come li carboni spenti non mi moverebbono a credere che quivi fosse il fuoco; e ritornando alla materia dice: Ma dimmi; tu, Virgilio, della gente, che procede; cioè va oltra, Se tu ne vedi alcun degno di nota; cioè che sia degno d’essere notato e nominato in questa mia opera, Che solo a ciò la mia mente rifiede; cioè ferisce e intende solo a quello; altro testo dice risiede; cioè si riposa et intende solo a quello. E ben che detto sia di sopra che Dante finga, che Virgilio li dica le cose che si truovano per la scrittura, non si toglie però che non li dica ancora dell’altre: imperò che ciò che sa la sensualità, sa la ragione; ma non e converso: imperò che molte cose apprende et intende la ragione superiore, che la inferiore, o vero la sensualità, non apprende.
C. XX — v. 106-114. In questi tre ternari l’autor nostro finge che Virgilio li mostrasse Euripilo auguriatore delli Greci, dicendo: Allor mi disse; cioè Virgilio a me Dante, rispondendo a quel ch’io lo avea domandato: Quel, che de la gola Porge la barba in su le spalle brune; e questo appruova la fizione fatta di sopra, che il volto fosse rivolto a dietro, Fu (quando Grecia fu de’ maschi vota; per andare ad assediar Troia, Sì ch’a pena rimaser per le cune; cioè li fanciulli piccolini) Augure: li antichi faceano ogni cosa con augùri, e diede il punto con Calcanta; ecco che dichiara in che modo diede l’augurio; cioè facendo loro sacrifici e facimoli 50, diceano: Ora è buono far vela, et in questo cotale punto è buono muovere lo stuolo: imperò che tornerete con vittoria. Calcanta fu ancora auguriatore 51 e sacerdote di Greci, et insieme con Euripilo fu ad augurare et a dare il punto, In Aulide; cioè in quella isola, ove si ragunò lo stuolo de’ Greci per andare a Troia, a tagliar la prima fune; cioè della nave dello imperador dello esercito. Euripil ebbe nome; costui, dice Virgilio a Dante, e così il canta; cioè nomina, L’alta mia Tragedia; parla Virgilio della sua Eneide. Dice Virgilio che la sua Eneide è alta Tragedia; questo finge Dante per dimostrare che in alto stile 52 è fatta e che si dee chiamare tragedia: con ciò sia cosa che tratti53 de’ fatti de’ principi, e comincia dalle cose liete e finisce nelle triste et avverse. Tragedia è poema più nobile che tutti li altri: però che in alto stilo, e tratta della più alta materia che si possa trattare; cioè delli idii e de’ re e delli principi, et incomincia da felicità e termina in miseria; et interpetrasi Tragedia, canto di becco: chè come il becco à dinanzi aspetto di principe per le corna e per la barba, e dietro è sozzo mostrando le natiche nude, e non avendo con che coprirle; così la tragedia incomincia dal principio con felicità e poi termina in miseria; e però tra li altri doni, che si davano a’ recitatori 54 della tragedia, si dava il becco. in alcun loco; cioè nel secondo libro, ove induce a parlare Sinone greco, dicente così: Suspensi Euripilum scitatum oracula Phœbi Mittimus, hisque aditis haec tristia dicta reportat. Sanguine ec. - Ben lo sai tu; Dante, che l’alta Tragedia lo nomina così, che la sai tutta quanta; ecco che l’autore si dà lodo di sapere tutto 55 l’Eneida di Virgilio che, benchè finga che parli Virgilio, le parole sono pur di Dante; onde molti vorrebbon riprender l’autore che non fece bene ad inducere Virgilio che lodasse la sua opera e lodasse Dante. Et a questo si può rispondere che, quando l’uomo parla per la verità e non per fine di loda, è licito a ciascuno manifestare e dire le sue buone opere: imperò Boezio nel primo libro della Filosofica Consolazione dice: Scis me haec et vera perferre, et in nulla unquam mei laude jactasse. Minuit enim quodammodo se probantis conscientiae secretum, quoties ostentando quis factum recipit famae precium. Nella quale autorità appare che l’uomo non si dee lodare, per avere pregio di fama; ma per la verità; cioè per manifestare et approvare la verità ad altrui, e così fa qui l’autor nostro. E per aver notizia di quello che detto fu di sopra, è da sapere che, quando Agamenon e Menelao andarono a vendicarsi della rapina d’Elena, donna di Menelao ch’era stata rapita da Paris figliuolo del re Priamo di Troia, per vendetta di Ensionia 56 sirocchia del detto re Priamo, rapita alla prima distruzione di Troia da Telamone 57, menarono seco tutta la Grecia e ragunaronsi in Aulide e menarono seco Calcanta et Euripilo auguratori, a ciò che predicessono loro ogni cosa che dovesse avvenire. E quando lo stuolo si venne a muovere ch’erano bene mille navi, aspettarono prima il punto e l’ora che fosse felice, secondo il detto d’essi auguratori, et allora si tagliò la prima fune con che era legata la nave dell’imperadore.
C. XX — v. 115-123. In questi tre ternari l’autor nostro pone che Virgilio, seguitando la sua dimostrazione, li dimostra alquanti nominandoli, e poi molte femmine in generale sanza nominarle, onde dice: Quell’altro, che ne’ fianchi è così poco; era costui spagnolo, e perchè i spagnuoli soleano vestire stretti ne’ fianchi, però dice così, Michele Scotto fu, che veramente Delle magiche frode seppe il gioco; questo Michele fu con lo imperadore Federigo secondo, e fu ancora in Bologna per alcun tempo, e facea spesse volte conviti con li gentili 58 uomini e non apparecchiava niente: se non che comandava a certi spiriti che avea costretti, ch’andassino per la roba, e così recavano di diverse parti le imbandigioni, e quando era a mensa con li valenti uomini, dicea: Questo lesso fu del re di Francia, l’arrosto 59 del re d’Inghilterra, e così dell’altre cose; e però dice che seppe il gioco delle magiche frode; che questo non era se non inganno: imperò che parea forse loro mangiare e non mangiavano, o pareano quelle vivande quel che non erano. Vedi Guido Bonatti; dice Virgilio a Dante. Costui fu da Forlì e stette col conte da Monte Feltro, e stava nel campanile della chiesa maggiore e dicea: Quand’io toccherò la campana, fate montare la gente a cavallo; e quando darò l’altro 60, cavalcate e tornerete con vittoria, e così veniva poi fatto. vedi Asdente; dice Virgilio a Dante, Che avere inteso al cuoio et allo spago Ora vorrebbe; perchè era calzolaio, però dice così; ma tardi si pente, perchè non vale il pentersi nell’altra vita. Questo Asdente fu calzolaio e fu fiorentino, e lassò l’arte delle scarpette e diedesi all’arte dell’augurio; ma ora vorrebbe essere stato calzolaio pur, e non vorrebbe essersi dato a quell’arte; ma quel non volere tardi viene: però che nulla ora vale; e pentesi pone qui per non vuole: imperò che ne’ dannati non può esser pentimento: però che quivi è ostinazione. E però si dee intendere, tardi si pente; cioè tardi vuole non avere voluto, e vorrebbe non volere; ma non può, et imperò è tardi: Quia in inferno nulla est redemptio. - Vedi le triste; cioè femine, ora innominatamente li dimostra le femmine maliose, che lasciaron l’ago; cioè il cucire, La spuo’a; cioè il tessere, e il fuso; cioè il filare che sono loro arti, e fecionsi indovine; che è inlicito e disonesto; Fecer malie; queste femine, con erbe e con imago; cioè con imagini di cera e di terra.
C. XX — v. 124-130. In questi due ternari et uno verso l’autor nostro finge che Virgilio lo solliciti al processo, dicendo: Ma vienne omai; oggi mai 61, tu Dante, dice Virgilio, che già tien il confine D’amendu’ li emisperi; emisperio è il mezzo di uno tondo, e però lo cielo à due emisperi; l’uno sopra il capo nostro, e l’altro di sotto opposito a questo; e tra l’uno e l’altro è una linea che si chiama orizzonte la quale termina la nostra vista, che da indi in giù non possiamo vedere. E però secondo li vari luoghi della terra si fanno alli abitanti vari orizonti, e però vuole significare l’autore che già all’orizonte nostro, per andar giù e per tramontare era la luna; e però dice: e tocca l’onda; del mare oceano, Sotto Sibilia; questa è una città denominata da uno fiume che passa per lei, et entra in mare nella Spagna presso all’ultimo della terra, ove lo mare oceano entra nella terra e fa lo mare mediterraneo, entrando in tra due monti che l’uno è in Affrica e chiamasi Abila; l’altro è in Europa e chiamasi Calpe. E però dice: sotto Sibilia; cioè più là che Sibilia: imperò che lo stretto di Sibilia è più in qua che l’ultimo della terra, e parla qui l’autore a modo de’ volgari che dicono, quando la luna tramonta, ch’ella va nel mare oceano: però che pare così, quando si ragguarda lo discendere della luna e del sole, e non è così: però che tanto va scostata dal mare la luna e il sole, quanto vanno scostati dalla terra quando sono sopra di noi; ma ingannasi la vista perchè viene 62 l’occhio nostro in mezzo tra il mare e la luna, come viene quando è sopra di noi, tra la terra e la luna. Cain e le spine; per questo intende la luna, parlando a modo de’ volgari che dicono che Caino sta nella luna, in su uno fascio di spine pungenti, e dicono che quell’ombra, che si vede nella luna, è l’ombra di Caino. Questi s’ingannano molto: imperò che Caino è nell’inferno: troppo averebbe 63 buono partito se fosse nella luna. Questo modo di parlare usano li poeti alcuna volta, onde Boezio dice, nel primo: Vel cur hesperias sydus in undas Casurum rutilo surgat ab ortu. - E pur iernotte fu la Luna tonda; quando tu ti trovasti nella selva, della quale fu detto di sopra nel principio del libro: Ben ten dee ricordar, che non ti nocque; anzi ti fece pro, dandoti alcuno lume, Alcuna volta per la selva fonda, perchè alcuna volta li dava lume, et alcuna volta no, secondo i luoghi della selva spessi e radi. E per questo vuole dimostrare ch’era presso al di’: imperò che quando la luna è tonda, pena a tramontare infino al di’, e Dante non avea spazio di stare se non due notti et uno di’, in mezzo tra quelle due notti e parte d’un altro di’ nello inferno, siccome Cristo stette nel limbo. Et elli era già stato una notte et avea ancora molto a vedere; e però lo sollicita Virgilio, et usa qui cronografia, che è descrizione di tempo; e dice iernotte, perchè la notte passata finse che si trovasse nella selva, e che in sul di’ volesse montare al monte; ma le bestie lo impedirono e Virgilio li apparve in quella, e stettono a 64 favellare insieme tutto il di’: e poi la sera cominciarono 65 il discendimento nell’inferno, et erano già iti tutta la notte. E puossi intendere che dicesse questo allegoricamente: imperò che la luna significa mutabilità delle cose terrene, e lo consideramento di questa mutabilità non nuoce; ma giova a chi vuole uscire de’ vizi. Et aggiugne, finiendo il canto: Noi; cioè Virgilio et io Dante, andavamo; al nostro cammino, e parlavamo introcque; cioè in quel mezzo. E qui finisce il ventesimo canto.
- ↑ Gli per egli, aferesi comune al popolo fiorentino. E.
- ↑ Imbusto; parte del corpo dal collo alla cintola. Fu anche adoperato da frate Guidotto da Bologna « col capo divelto dallo imbusto » Fior. Ret. - E.
- ↑ C. M. il viso
- ↑ C. M. che comporta compassione al
- ↑ Spilonca; spelonca, al modo che Dino Compagni disse «li sipolcri gemieno»; e prima di lui fra Guittone «di latrocinio spilonca». Il medesimo intendasi di piggiore, diffinire disio ec. E.
- ↑ C. M. cioè questi versetti divisi per
- ↑ C. M. lo quale
- ↑ C. M. furamento
- ↑ C. M. superstizione
- ↑ C. M. a contare xiiii;
- ↑ C. M. aermanzia, idiomanzia,
- ↑ C. M. orspizio,
- ↑ C. M. stenulegio,
- ↑ 14,0 14,1 C. M. tolto
- ↑ C. M. vedere più innanzi
- ↑ Suardo; sguardo, forse potrebb’essere fognato il g, come in sciaurato. E.
- ↑ C. M. fattimoli lo dimostrino;
- ↑ C. M. faccitimoli
- ↑ C. M. si chiama metafora e denominatio in latino, e così. - Il nostro Codice ne dava - metenomia - che abbiamo corretto, secondo la sua greca derivazione. E.
- ↑ C. M. che scese a capo
- ↑ C. M. ruinando,
- ↑ C. M. et Adamanto. — Ad imitazione de’ Latini, i nostri antichi dissero Radamante e Radamanto. E.
- ↑ C. M. di sopra, quanto a l’allegoria.
- ↑ C. M. Adasto
- ↑ C. XX — v. 40-45. Nel Cod. Magl. mancano i due ternari e la relativa lettura del nostro Butese. E.
- ↑ C. M. cioè disvelge li ......... disvelgere le piante,
- ↑ C. M. alberga; cioè abita; dove l’omo abita, quine alberga, Ebbe
- ↑ C. M. perchè quine si chiama in quelli
- ↑ Auguriatore dove è frammesso l’i come in triegua, forzia, contradia ec. E.
- ↑ C. M. l’augurio nelle intestine
- ↑ Dovidere diceasi dagli antichi, siccome truovasi pure in Brunetto Latini «dovide la materia» Ret. E.
- ↑ C. M. treccie
- ↑ C. M. Menzio
- ↑ C. M. per li ghieculi, et insieme
- ↑ C. M. in giù mai:
- ↑ C. M. nuoce
- ↑ C. M. deificato,
- ↑ C. M. caso che in quel
- ↑ Gente, ed altrettali nomi sono configurati alla declinazione latina, che dà gentes al plurale. E.
- ↑ C. M. dalla
- ↑ C. M. Piamonte,
- ↑ Fesse, voce originata da fere, come fei, festi ec. E.
- ↑ C. M. puzzolente et inferma: credo
- ↑ C. M. asciuttori e secchure
- ↑ C. M. Brianoro
- ↑ C. M. sono avale:
- ↑ C. M. vota
- ↑ C. M. Aranci
- ↑ C. M. Benacosi
- ↑ C. M. faccitimuli,
- ↑ C. M. augure
- ↑ C. M. stilo
- ↑ C. M. tragedia perchè tratta de’
- ↑ C. M. a’ retorici della
- ↑ Tutto è qui adoperato a mo’ di ripieno, e però indeclinato. E.
- ↑ C. M. Esiona suore del ditto re
- ↑ C. M. Talamone,
- ↑ C. M. ai gentili
- ↑ C. M. lo rosto
- ↑ Costruzione mentale che i nostri padri ereditarono dai Greci; darò l’altro tocco. E.
- ↑ C. M. in giù mai,
- ↑ C. M. viene la cosa veduta di pari, e non viene lo nostro occhio mezzo tra il mare
- ↑ Averebbe, naturale piegatura del verbo avere, alla quale oggi da molti è preposta l’altra sincopata avrebbe. Il popolo toscano in generale preferisce le primitive, averò, averete, averemmo e simili. E.
- ↑ C. M. stetteno a parlamentare tutto
- ↑ C. M. incomincionno lo descenso
Note
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