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(Commento di Francesco Da Buti) (XIV secolo)
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Non fù necessario un lungo volgere di anni, acciocchè il poema sacro di Dante salisse in grande onoranza per tutta la nostra Italia. La novità e la eccellenza di questa mirabile creazione bastavano a meritarle il favore e l’ammirazione universale; ma più altre cause conferivano a darle celebrità. Imperciocchè l’Autore con le dottrine, con la storia, col biasismo, con la lode parlava ai sapienti, ai reggitori della Chiesa e degli Stati, ai popoli, alle famiglie illustri, ad ogni qualità di persone; e a tutta quanta l’umanità egli mostrava la bassezza e la miseria del vizio, e l’altezza e la beatitudine delle virtù. Potevano bene alcuni non accettare tutte le opinioni professate da lui, ed altri discordarsi da’ suoi intendimenti politici, o repugnare, come chi vivamente è punto, alla libertà della sua parola gastigatrice; ma tutti leggevano il libro, dicevano quello che ne sentissero, e facevano sì che ne crescesse la fama. Onde quella luce, che, uscita dall’anima di Dante, era stata per alquanto tempo nascosa, come scrisse Giovanni Boccaccio, sotto la caligine del volgar materno, dovè risplendere agli occhi anco dei grandissimi letterati 1. Già questa nostra lingua aveva attuato le sue potenze così nel verso, come nella prosa, e variamente manifestato la bellezza delle sue forme; e Dante traendola a discorrere l’universo, e determinando con essa l’officio religioso, e civile, che in Italia fosse destinata ad esercitare negli ordini del vivere umano, aveva posto le alte fondamenta e preparato il corso della nostra letteratura nazionale. Adunque la Divina Commedia nel secolo stesso, che la vide nascere, diventò materia comune di studio e di esposizioni, quasi punto cardinale, verso cui, portati dall’amore, si volgessero i moti di molte e nobili intelligenze. In Firenze l’eloquentissimo Certaldese, in Bologna Benvenuto da Imola, in Pisa Francesco da Buti, in Venezia Gabriello o Gaspero Veronese, in Piacenza Filippo da Reggio lessero pubblicamente ed interpretarono il volume del Sovrano Poeta; e sei uomini dotti furono chiamati ad illustrarlo con largo commento da Giovanni Visconti Arcivescovo di Milano. Un Andrea Partenopeo ci rende testimonianza pure col nome che anche Napoli diede opera a questa letteratura Dantesca, alla quale fino da principio convenevolmente avevano applicato l’ingegno Pietro e Jacopo figliuoli di Dante. In ogni parte della nostra Penisola gli occhi dei veggenti riguardavano a questo sole nuovamente apparso nel cielo.
Tutti i Commenti, che furono scritti nel secolo decimoquarto, meritano una particolare considerazione, perchè i loro Autori, prossimi di età all’Allighieri, erano agevolati da tutte le condizioni di quella vita a intenderne bene il linguaggio, e a penetrare nel suo pensiero. Ma alle ragioni estetiche, nè alle più alte questioni letterarie, le quali ora potessero essere discorse e risolute da chi sapientemente consideri le parti e l’ordine ed il valore del gran poema, non alzavano quegli espositori o alzavano poco la loro mente; e la stessa novità dell’opera era più presto appresa dal sentimento, che non estimata dall’intelletto. Dante, come aveva posto i principii organici della civiltà cristiana, la quale consacra con la presenza della Divinità il perfezionamento morale dell’uomo, sottopone la politica alla morale, è contraria a tutte le esclusioni irrazionali, e tende per sua natura dall’unità all’universalità, così creò una poesia, la quale, innalzandosi alle fonti della creazione infinita, congiunge il tempo con l’eterno e rende immagine della bellezza dell’universo, sovrasta a quella delle genti pagane, e ne fa servire i miti a testimonianza e ad illustrazione del vero, vuol piacere a tutte le nazioni, vuol giovare a tutti gli uomini, e perciò appunto è grandemente italiana. I Classici greci e latini non erano modello agl’imitatori, come poi furono nei secoli susseguenti; nè la sazietà, che dovesse derivare da tutte quelle imitazioni, avea potuto dare origine ad altre tendenze; nè due scuole, l’una inimica dell’altra, si facevano guerra per angustia di dottrine, o con superbia d’intendimenti. Ma le diverse ragioni di tutte queste cose erano già conciliate a bella armonia nel poema di Dante, quantunque non si appartenesse a’ suoi primi espositori, nè al decimoquarto secolo di soddisfare ai bisogni del nostro.
Francesco da Buti fece lettura pubblica della Divina Commedia nell’Ateneo pisano, e poi, mosso dai conforti de’ suoi uditori ed amici, scrisse quel Commento, che, avuto in pregio dai letterati, ma rimastosi inedito in alcune biblioteche, aspettava le cure di chi lo facesse conoscere a tutti gli studiosi di Dante. Leggendo questo e gli altri primi Commenti dobbiamo ricordarci bene qual si fosse allora la costituzione del mondo intellettuale, quando l’autorità della Chiesa universalmente signoreggiava, e Aristotele era il duca della umana ragione2, comecchè, a detta del nostro Francesco, per le nuove opere che erano state fatte già si cominciasse nelle scuole a lasciare quelle di lui3. L’evidenza della verità parea che non bastasse alle menti se anco non fosse corroborata da esempi autorevoli; e con un buono apparecchiamento di norme logiche eri meglio certificato di potere acquistare quello che avresti naturalmente avuto dal senso comune e dalla natura stessa delle cose, alle quali avessi applicato le tue potenze conoscitrici. Lo che non vuol dire che i generosi ingegni non trovassero modo di manifestare splendidamente il loro valore, o che quella coltura intellettuale sia poco degna della nostra attenzione. Ma l’autorità, la scuola, una logica anteriormente stabilita a regola comune del lavoro da farsi voi le trovate nei libri di questi Commentatori, e di qui prende forma scientifica la letteratura Dantesca del primo secolo. Aprite il volume di Pietro di Dante e nel suo principio vi leggerete queste parole: «Accedamus ad intelligentiam hujus Comoediae, ceu ad quamdam seram clausam aperiendam, quam scire aperire volendo opus et ut ejus vectes, id est causas, tentando primitus inquiramus,..... Porro in praesenti nostro opere, ut in quolibet alio actuali, quadruplex erit causa intimanda; scilicet, causa efficiens, materialis, formalis, et finalis. Magistraliter solet addi quis sit libri titulus, et cui parti philosophiae supponitur4. Aprite quello di Giovanni Boccaccio, e troverete, che, a parer suo, sono da vedere tre cose, le quali generalmente si sogliono cercare ne’ principii di ciascuna cosa, che appartenga a dottrina. La primiera è di mostrare quante e quali sieno le cause di questo libro; la seconda, qual sia il titolo del libro; la terza, a qual parte di filosofia sia il presente libro supposto5. E le cause, ch’egli dovrà cercare, sono quelle stesse che furono notate da Pietro di Dante: e nella causa materiale egli dovrà distinguere il soggetto secondo il senso letterale da quello secondo il senso allegorico; e nella formale, la forma del trattare da quella del trattato. Diremo noi che Francesco da Buti si ripetesse servilmente questi precetti quando egli scriveva che nelli principii delli Autori si richiede di manifestare tre cose principalmente, cioè le cagioni, et appresso la nominazione e poi la supposizione dell’opera?6. O ci farà sentir meno la ripetizione di questi precetti Benvenuto da Imola perchè egli li pone spaziandosi in più largo ragionamento? 7. Ma queste erano le norme, queste le leggi, alle quali, secondo l’avvertenza fatta dal Boccaccio e dal Buti, gli espositori dei libri avessero a conformarsi; e Dante stesso ne aveva già dato l’esempio a’ suoi futuri commentatori, s’egli, rendendosi conto del fatto suo, e volendo che altri avesse lume a veder bene addentro nella terza Cantica del suo poema, diceva a Can Grande della Scala che nel principio di ogni opera dottrinale sono da cercare queste sei cose: il soggetto, l’agente, la forma, il fine, il titolo del libro, e il genere di filosofia8. Ed ecco le quattro cause, e le altre due cose, alle quali risguardano gli Espositori. Seguitate leggendo più innanzi, e vedrete in questa Epistola quanti debbano o possano essere i varii sensi delle scritture; e dalla causa materiale o dal soggetto del libro, uscire il senso letterale e quello allegorico; e la causa formale darvi la forma del trattare e quella del trattato. Vedrete ancora che il modo del trattare è molteplice, cioè poetico, fittivo, descrittivo, digressivo, transuntivo, et ancora diffinitivo, divisivo, probativo, improbativo et esemplipositivo, come appunto scrive Francesco da Buti, e prima di lui aveva detto Giovanni Boccaccio e in parte ancora Benvenuto Rambaldi9. Sicchè la servile conformità di un Commentatore ad un altro si cangerebbe nella loro fedeltà comune a seguitare le norme stabilite dall’Autore dell’opera, se queste non fossero veramente le leggi, che più o meno dovessero essere osservate da tutti in quel mondo intellettuale. Aristotele nel primo della Metafisica, dimostrando la natura e la supremità della filosofia10, dichiara i principii della scienza, la quale si deriva dalle quattro cause soprannotate. E questa era la via, che avesse a condurre gl’investigatori della verità a conoscere le generazione e l’essere delle cose, il luogo che ciascuna occupi, i legami che abbiano esse tra loro, le loro azioni e passioni nel sistema del mondo, e questo sistema cosmico, quanto allora fosse conceduto a creata intelligenza. Nè per altra via procedevano le menti a dovere intendere le opere letterarie. Onde gli espositori della Divina Commedia, guidati dall’autorità del magistero scolastico, davano una sufficiente notizia istorica dell’autore, parlavano della natura e costituzione del libro, ne interpretavano gl’intendimenti, mettevano in luce l’altissimo fine, al quale il poeta avesse voluto indirizzare lo spirito dei lettori, e considerando tutte le scienze quasi membra congiunte in un gran corpo e soggette alla sovranità della filosofia, determinavano a qual parte di essa fosse da recarsi il componimento tolto ad esaminare11. Una adunque era la via maestra, la quale nel secolo di Dante fosse aperta agli studiosi a doverlo pienamente comprendere e sapientemente interpretare, quantunque non mancassero i sentieri più corti, o i luoghi opportuni a dilettevole riposo; e come generalmente seguivano uno stesso metodo, così tutti erano concordi nella opinione, che un senso recondito fosse da cercarsi sotto il velo dell’allegoria.
Francesco da Buti non ha la ricchissima copia del dire, che è tutta propria del Certaldese, veramente Tullio toscano; nè, come questi o l’Imolese, esercita la vivacità dell’ingegno intorno al testo di Dante, narrando storie, e cogliendo ogni occasione di soddisfare abbondevolmente a se stesso, Egli sa che valentissimi uomini, i quali sarebbe impossibile, non che avanzare, ma solamente agguagliare, ebbero scritto prima di lui come richiedesse l’altezza e il modo del parlare12 del fiorentino poeta; e movesi anch’esso a scrivere il suo Commento con la modestia di un uomo, che intenda a soddisfare, secondo le sue forze, a coloro, i quali si dilettano di brevità, e stanno contenti ad una chiara e netta e intiera spiegazione del libro. Non allegazioni di autorità, nè prove, se non quando le renda necessarie il detto medesimo dell’Autore: esposte le favole, narrate le storie secondochè abbiano convenienza col testo; e di moderne storie nè di novelle non troppo credula vaghezza, ma giudiziosa parsimonia, o silenzio13: la dottrina, non dichiarata a comodo, ovvero per salti, ma cercata con diligenza costante, e seguitata anco nelle parti più minute e per tutto l’ordine del poema: e tutte queste cose discorse con uno stile che possa esser bello ed efficace per nativa schiettezza e semplicità, e che poi fù reputato degno di far testo di lingua alle nostre lettere. Così adoperando egli si confidava che la sua opera avesse a piacere, se non a tutti, certamente a coloro, i quali erano stati ascoltatori delle sue lezioni con assidua frequenza, e che gli avevano dato eccitamento a doverla scrivere. E gli uomini dotti non tardarono a conoscerne i molti pregi, pei quali abbia ad esser cara agli studiosi della Divina Commedia; ed io credo che per la pubblicazione di essa sarà universalmente aperta e confermata la verità di questo giudizio.
Il Boccaccio, che hà veduta ideale e tanto lume di scienza, quanto valga ad essere grandissimo dicitore, prima spiega la lettera di ciascun canto, indi passa alle allegorie, distinguendo l’una parte dall’altra nel suo trattato per esser più libero a poter fare un libro suo proprio sopra quello dell’Allighieri. Benvenuto da Imola suol dividere quasi sempre ogni canto in quattro parti principali, interpretando in ciascuna così la lettera, come l’allegoria; e talvolta argomentandosi a trarre in luce un ascoso intendimento là ove meno importava che lo cercasse14. E se l’ottimo commentatore procede di canto in canto premettendo sempre un proemio alla esposizione, nel quale sia anticipatamente manifestata l’allegoria, e non sempre quanto basti al bisogno; Pietro di Dante procede per sommi capi non continuandosi sempre al testo che dovrebbe illustrare, e reca in mezzo molte autorità dottrinali, ma è difettivo e alcuna volta sbaglia nella parte istoriale15. — Or qual è il metodo, o in altri termini qual è il luogo che fra questi commentatori sia occupato da Francesco da Buti? Il metodo suo è quello di un interprete fedelissimo, il quale stimi di avere ad eseguire tanto più degnamente il suo officio, quanto meglio avrà saputo dimenticare se stesso per non dover pensare se non al testo da interpretarsi. Di ogni canto egli fa materia a due distinte lezioni, e innanzi di venire alle parti, nelle quali abbia diviso la sua lezione, espone con discorso continuo la sentenza letterale, sicchè abbiasi fino da principio una general conoscenza delle cose che dovranno essere dichiarate, e il nostro spirito sia convenientemente apparecchiato a meglio intenderle ad una ad una. Ma queste esposizioni preparatorie, che riunite insieme sarebbero state la narrazione in prosa di tutto il poema dell’Allighieri, qual che ne fosse la causa, non furono condotte più oltre che tutta la prima Cantica. Scrive il Buti, (e ciò fanno tutti gli espositori) massimamente per coloro, i quali debbano essere ajutati alla perfetta intelligenza di questo libro; e però discende anco a determinare il valore delle parole, e non trascura le minute particelle del testo16: onde il suo e gli altri commenti prendono di quando in quando la forma di annotazioni, le quali abbiano alcun legame nell’ordine del discorso. Alla qual forma erano quei commentatori naturalmente portati dalla disposizione intellettuale, in che si reca l’uomo che dovendo interpretare ad altri un’opera letteraria, tiene il libro davanti a se, e leggendolo, e via via dichiarandolo, congiunge le parole di esso con le parole sue proprie, e le brevi spiegazioni con le diffuse, quasi diverse fila nel ragionamento che intesse.
Ma a dimostrare tutto il valore intimo di questo lavoro del Buti, bisognerebbe che al paragone del poema di Dante, ed anco valendomi dei criterii già da me stabiliti a doverlo dirittamente interpretare, io facessi la prova di tutte le sue dichiarazioni del senso allegorico, s’elle son vere, o perchè e quanto non sono. Lo che ora non debbo fare. Miti, storia, grammatica, e tutta la esposizione letterale non facevano la difficoltà grande che avessero a superare gl’interpreti. Trarre in luce i riposti intendimenti, e manifestare al mondo il sistema scientifico contenuto nella Divina Commedia: questo era il lavoro più forte che si dovesse eseguire; e intorno a questo faremo alcune brevi considerazioni, le quali ci condizionino a giudicare fondatamente nella sua parte più sostanziale l’opera di Francesco da Buti.
Quel nesso, che indivisibilmente congiunge i due stati morali dell’uomo, cioè il temporale e l’eterno, e quella necessità razionale, che è nella lettera, di contenere anco il senso allegorico, ci rivelano un pensiero profondo, nel quale si raccolga tutto l’ordin morale coi principii che intimamente lo informano. L’uomo hà l’arbitrio di prendere la via del vizio o quella della virtù, ma non può sciogliersi dalle leggi regolatrici della sua vita, però che non può trasmutare la sua propria essenza in un’altra. Uno adunque è il fine, al quale invariabilmente egli debba aspirare con tutta l’anima, e indirizzare il corso delle sue operazioni; uno il cammino, che abbia a condurlo a questa pienezza del suo possibile perfezionamento: fine, che la mano del Creatore gli prescrisse nel sistema medesimo delle sue facoltà, e cammino che gli sia fatto vedere dalla luce che risplende a tutti i creati intelletti. S’egli, sconvolgendo quest’ordinamento di cose, sottomette alla sensualità la ragione, e l’uomo all’animale, viola una legge eterna, una legge organica nella costituzione del mondo, come quello che si argomenta di rinunziare la sua propria natura; e nella stessa violazione di questa legge trova inevitabilmente un gastigo, il quale non possa non avere con quella una certa proporzione e conformità. Se poi non vada errando per torti sentieri, o se da questi si riconduca nella diritta strada, e seguitando s’innalzi alla cima della virtù e della scienza, in questo suo progresso egli dovrà godersi una felicità, che sempre cresca di grado in grado finchè abbia il suo adempimento in quel termine sommo. Or dovendo il senso secondare alla ragione, che il guidi, e questo non quietando se non là ov’è il principio e il fine di tutte le cose, non potrà l’uomo moralmente aggiungere a questo fine se prima egli non lo abbia attinto e non vi si posi con lo intelletto. Per le quali ragioni tutte Dante, rappresentando i tre stati delle anime separate dal corpo, rappresentava insieme, secondo quella legge eterna, al senso ed alla ragione degli uomini le tre condizioni morali che possano avverarsi per tutta la vita umana nel mondo; e nel fine supremo, a che la vita debba essere indirizzata, trovava il principio organico che congiunge la speculazione e la pratica, sicchè le varie parti del sapere avessero ciascuna il suo luogo e tutte un ordine opportuno fra loro, e su queste fondamenta scientifiche sorgesse mirabilmente costituito il suo poetico universo. Virgilio e Beatrice sono la sapienza umana e divina secondochè l’una è sottoposta all’altra, e necessariamente la presuppone; e l’una con l’altra sono la teoria che debba regolare la pratica: Dante è l’uomo disposto a conformarsi ai loro insegnamenti che da Virgilio è ricondotto a Beatrice per grazia e comandamento di questa, e che, presa esperienza piena e cognizione del vizio e della virtù, si fa scala dell’ordin morale e di quello fisico alla contemplazione delle cose soprammondane e dell’Assoluto, e con la descrizione di questo supremo atto compie il suo itinerario dell’anima a Dio17.
Or nel Commento di Francesco da Buti, come in quello di altri espositori antichi, noi troviamo che il soggetto, o la causa materiale del poema, secondo la lettera è, lo stato delle anime dopo la separazione dal corpo, e secondo l’allegoria è il premio o la pena, a che l’uomo s’obbliga vivendo in questa vita per lo libero arbitrio18: il fine si è quello di arrecare li uomini viventi nel mondo dalla miseria del vizio alla felicità della virtù19: e il genere o la parte della filosofia, alla quale debba recarsi questo poema, è l’etica; imperò che, benchè in alcuno passo si tratti per modo speculativo, non è per cagione dell’opera, che abbi richiesto questo modo di trattare, ma incidentemente per alcuna materia occurrente20. Noi troviamo non la dichiarazione sistematica dei quattro sensi che potessero essere nella Divina Commedia, ma il senso morale non disgiunto da quello allegorico, e considerata nella interpretazione di questo quella legge eterna, che fa essere il peccato pena a se stesso, e ci fà gustare nelle virtù una dolcezza di paradiso. Chi pecca, egli scrive, è obbligato alla pena, e secondo questa obbligazione si può dire che sia già nell’inferno21: la virtù leva in alto l’anima umana22: e l’intelletto tanto è beato, quanto Lui pensa e Lui intende, cioè Iddio, ultimo termine del pensiero23. Nè si creda per questo ch’egli, cercando il senso allegorico, solamente risguardi agli uomini che sono nel mondo. Risguarda ancora alle anime separate dal corpo24; e spiega il testo con quell’acume che è proprio di lui, e che alcuna volta potrebbe parere sottilità, e con quella minuta esattezza, della quale già gli facemmo merito nella estimativa dei nostri lettori. Così Caronte quando fa cenno a quelli che debba raccogliere sulla nave, e quando col remo batte qualunque si adagia, da una parte significa l’ incitamento al peccato per coloro che sono nel mondo, e la compiacenza che questi abbiano delle cose mondane; dall’altra, significa il rappresentamento all’anima condannata del peccato che abbia commesso, e la coscienza viva che la tormenta25. Imperocchè Caronte è il simbolo dell'amore disordinato, che porta gli uomini ad ogni male; e per la sua nave si vuole intendere la collegazione dei sette peccati mortali e delle loro specie, non dovendosi reputare che l’Acheronte sia fiume separato dalle altre acque infernali, che provengono tutte da una sorgente comune, e appartengono ad un comune ordine di giustizia irrevocabile26. La lettera poi quantunque serva all’allegoria, non potrebbe in ogni sua parte essere interpretata a manifestazione del senso riposto; la quale hà in se medesima la necessità del suo processo continuo, e non deve alcuna volta renderci accorti di altro che della sua attuale e costante presenza. Ciò aveva già notato Sant’Agostino, e dietro a lui l’Allighieri; dopo il quale nè Pietro figliuolo suo, nè gli altri commentatori non potevano chiuder gli occhi alla evidenza di questa regola di ragione27.
Con la duplicità del senso letterale e allegorico diresti che abbiano alcuna convenienza Dante che viaggia pei tre mondi degli spiriti, e chi lo conduce: Dante, che secondo il Buti, è la sensibilità; e Virgilio e Beatrice, che sono la ragione inferiore o pratica, e la ragione superiore, le quali guidano l’uomo sicchè raggiunga il degno suo fine28. Distinguendo sensualità da ragione per modo che dell’una e dell’altra non sia figura uno stesso soggetto o persona, non intese di fare il nostro espositore un’assoluta separazione di cose; imperocchè il senso non ci da la essenza della creatura razionale, cioè l’uomo intiero: e la sensibilità significata da Dante e pensa, e ragiona con Virgilio, e si capacita dei fatti ragionamenti29. Ma il Buti fece stima di alcune proprietà e condizioni fondamentali, e accomodò a queste la sua spiegazione dei simboli; il quale in più luoghi apertamente apertamente ci dice che Virgilio è la ragione di Dante30. Onde non per altra considerazione potè fare quella sua distinzione, se non perchè nell'uomo, dilungatosi dalla diritta via, il senso e la ragione non sono convenevolmente composti a obbedienza e ad impero, ma chi dovrebbe obbedire disordinatamente predomina. E Virgilio, che può essere ed è in effetto la ragione stessa di Dante qual volta questo si conforma ai comandi del suo signore, segue il suo duca, intende e riceve in se le dottrine del suo maestro31, non potrebb'essere questa ragione individuale se insieme non fosse la ragione umana, o la ragion pratica in universale32. Quando poi questa ragione inferiore hà compiuto il suo officio, e l'uomo è andato tanto innanzi con la vita sensitiva ed attiva, che la virtù morale gli abbia aperto l'ingresso alla vita spirituale e contemplativa, Virgilio cede il luogo a Beatrice, la quale discende dal cielo, e guida Dante così disposto a vederla dal terrestre al celeste paradiso infino a Dio che è l'ultimo nostro fine senza mezzo33. Ma Virgilio, come dee terminare l'officio suo in Beatrice, così non lo incomincia, cioè non si move a soccorrer Dante, se non con l'autorità di lei; perchè la ragione umana presuppone sempre quella divina, dalla quale fontalmente deriva, e la ragione pratica non è indipendente da quella teorica, dalla quale ha i principii e l'ordine necessario del suo processo. E Beatrice si rimarrebbe semplicemente quella che è in se medesima, ma non darebbe forma di perfezione all'anima del suo fedele, nè lo condurrebbe alla beatitudine ed alla gloria con l'esercizio delle virtù intellettuali, s'ella non fosse preceduta e mossa dalla grazia che previene, e da quella che illumina, e non venisse accompagnata dalla grazia cooperante e consumante che fa la vita perfetta34. Molti furono grandi teologi (dice il Buti) che sono stati dannati, e non beatificati35; e senza la cooperazione diretta o indiretta della Causa prima e creatrice, che in ogni luogo e tempo è presente, le cause seconde non produrrebbero effetto.
Da questi pochi cenni ben si comprende quanto il nostro Commentatore vedesse innanzi nella costituzione scientifica della Divina Commedia, e come seguitasse i legami organici che congiungono la speculazione e la pratica in questo sistema ideale. Benvenuto da Imola, più pronto a largamente risguardare, ma meno stretto e meno acuto del nostro commentatore a fedelmente interpretare, notò fino da principio, che il libro di Dante abbraccia tutte le parti della filosofia: e primamente l'etica, in quanto tratta degli atti umani, come de' vizi e delle virtù; secondamente la metafisica, cioè la teologia, in quanto tratta di Dio, e delle sostanze separate dai corpi, ossia degli angeli; e talora la fisica, allorchè intromette cose naturali. Ma prima e più principalmente comprende l'etica, come si vede apertamente36. Le quali distinzioni ed avvertenze non bastano a farci intimamente conoscere la tessitura ideale del gran poema.
Gli scrittori del secolo decimoquinto, che diedero opera alla interpretazione di Dante, ebbero lume dai loro predecessori seguendone anco servilmente le orme; e Guiniforto Bargigi molto si giovò del lavoro di Francesco da Buti, del quale non pure ripete le spiegazioni, ma non di rado le stesse parole37. Nel cinquecento prevalse l’amore della letteratura classica, e la imitazione del Petrarca: la Italia perdè libertà ed energia politica; e le opere di Dante furono studiate da anime non sempre degne di giudicarle. Poi nel seicento mancavano sempre più le vere e grandi cause al poetico entusiasmo, e le false corruppero il gusto letterario. Che se il libero filosofare, e la cognizione della natura ebbero arti migliori e largo incremento, la Divina Commedia fuori della Toscana fu per le mani di pochi, e le altre opere dell’Allighieri quasi dimenticate. Restituitasi al senso del bello la sincerità nativa per la nuova scienza del vero, operossi una opportuna riforma nella provincia delle gentili discipline sulla fine del diciassettesimo secolo, e nel principio di quello decimottavo; ed anco le Arcadie, che a’ nostri tempi sono state pestilenza passeggera o ludibrio, intesero a meritar bene di quella salute pubblica. Ma l’uso libero del pensiero e il sensismo signoreggiante non disponevano bene gli spiriti a intendere perfettamente il linguaggio e la dottrina contenuta nel poema di Dante, e fecero essere quel secolo un giudice fastidioso e superbo o non pienamente giusto verso tali interpreti che usavano le forme imposte dall’autorità nelle scuole, e che trovavano una perpetua allegoria in quel poema38. Noi, i quali dal progresso della civiltà e del sapere siamo oggimai condizionati condizionati a congiungere il senso storico con l’intelletto filosofico delle cose, e a perfezionare l’uno con l’altro, possiamo e dobbiamo far giustizia intera dei più antichi espositori della Divina Commedia, e collocare Francesco da Buti in quel luogo di onore, che a lui meritamente è dovuto39. Quì ne piace di dover dire che nella città, che gli fù patria, siasi fatta la prima edizione di questa sua opera, e che i manoscritti, su i quali è stata condotta la stampa, siano venuti nelle mani dei pisani tipografi Carlo e Giuseppe Nistri da quelle dell’illustre Personaggio, di cui la Italia gratamente ricorda la liberalità ad incremento della letteratura Dantesca leggendo il Commento di Pietro Allighieri pubblicato nel 1845. Il signor Crescentino Giannini, che pose le sue cure letterarie a questa edizione, ha notato con grand’esattezza le varie lezioni dei codici; e come alcuna volta hà dato luogo nel testo a quella che si dovesse prescegliere, così avrebbe potuto darlo sempre, se per troppa modestia non avesse voluto lasciare questa scelta al giudizio libero dei lettori.
S. Centofanti.
- ↑ Comento di M. Giovanni sopra la Commedia di Dante Alighieri. Firenze 1831, vol. 3, p. 226. V. anco a p. 208.
- ↑ Dante nel suo Convito, trattato iv, cap. 6. Qui egli chiama Aristotele maestro e duca della ragione umana, e nel cap. 2 il maestro della umana ragione, come nella Divina Commedia: il maestro di color che sanno.
- ↑ Pag. 138.
- ↑ Pag. 2, seq.
- ↑ Pag. 3.
- ↑ Pag. 5, seg.
- ↑ Pag. 13, e seguenti della traduzione del sig. Tamburini. Imola 1833.
- ↑ V. questa Epistola interpretata dal Padre Giuliani, pag. xxiii, seg. — Savona 1836.
- ↑ Francesco da Buti a pag. 6. Boccaccio a pag. 4. Rambaldi pag. 19. Il Boccaccio, secondo la stampa, avrebbe detto transitivo, e non transuntivo. E poi seguita dicendo: e con questo, difinitivo, divisivo ec. appunto come l’Autore della lettera allo Scaligero: transumptivus, et cum hoc definitivus ec. Onde si pare che questa lettera veramente fosse da lui conosciuta.
- ↑ Molti oggi scrivono francescamente supremazia non curando gli esempi antichi, nè le leggi dell’analogia proprie della nostra lingua; le quali richiedono che da supremo deducasi supremità, come da estremo deducasi estremità. Così da Parlamento non vorremmo che si derivi l’addiettivo parlamentare, ma parlamentale, come da fondamento viene fondamentale. Parlamento, ed anco elementare, sono verbi, e non propriamente nomi, chi voglia parlare italicamente. Imperciocchè quando una lingua è costituita l’uso deve conformarsi alle leggi che gl’imponga la costituzione organica di questa lingua, se non vuol essere autore di corruzione.
- ↑ Quanto ponessero mente alla dipendenza di tutte le altre discipline della filosofia può vedesi anco a p. 128, ove il Buti spiega il verso: In tanto voce fu per me udita. E il Bargigi dice lo stesso.
- ↑ Pag. 5
- ↑ Pag. 5, e 753.
- ↑ Veggasi, per esempio, ciò ch’egli scrive interpretando i primi ternari del Canto xxiv dell’Inferno.
- ↑ Veggasi quel ch’egli scrive a dichiarare storicamente il verso: Li cittadin della città partita: pag. 93.
- ↑ Determinando il senso del vocabolo greggia, una volta dice esser mandra, e brigata di pecore (p. 374 e 376): un’altra dice essere il luogo dove sta la mandria delle pecore (p. 466). A p. 796 spiega dotta per indugio, ec.
- ↑ Parole notissime di , il quale pose questo titolo ad un suo libro.
- ↑ Pag. 6.
- ↑ Ivi.
- ↑ Pag. 44.
- ↑ Pag. 89.
- ↑ Ivi.
- ↑ Pag. 85.
- ↑ Pag. 747 e per tutta l’opera.
- ↑ Pag. 103.
- ↑ Pag. 99, seg.
- ↑ Dante, De Monarchia III, 4. Pietro di Dante, p. 4 seg. Francesco da Buti in più luoghi.
- ↑ Pag. 65, seg.
- ↑ Pag. 85, e 127.
- ↑ Pag. 75, 117 e altrove.
- ↑ Tu duca, tu signore e tu maestro. Dante, Inf. C. II, v. 140.
- ↑ Pag. 50.
- ↑ Pag. 65 e seguenti.
- ↑ Pag. 70, 72.
- ↑ Pag. 65.
- ↑ Vol. I. p. 49, traduzione del Tamburini.
- ↑ Ho conosciuto ciò confrontando con diligenza il Commento del Bargigi sopra la prima Cantica con quello di Francesco da Buti. E noi sappiamo che Milano ebbe presto una copia di questo Commento. Quanto ai Commentatori che scrissero nel quattrocento, veggasi quello che ne dice il Mehus nella Vita di Ambrogio Traversari p. 180.
- ↑ A sentenza del Tiraboschi que’ primi interpreti della Divina Commedia gittavano il tempo nel ricercarne le allegorie. Stor. della lett. ital. là ove parla di Dante.
- ↑ S’egli cade alcuna volta in errore, non vorremo chiamarlo in colpa con troppa severità. Così egli mostra di confondere Zenone, principe della setta Stoica, con quello di Elea; dice che i Frisoni sono i popoli della Frigia; che i Tedeschi Lurchi sono due popoli, cioè Tedeschi e Lurchi; e che sinderesis, che per lui è la ragione somma, significa faccia del cuore: se questo errore non è del copista. Ma nelle etimologie greche que'nostri antichi facilmente sbagliavano.