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II.
4 novembre 18....
Tu lo vedi: nella storia contemporanea c’è uno strazio tragico di due parti che si ribellano l’una contro dell’altra, e ciascheduno di noi ne porta i segni dolenti. Io m’interrogo spesso e mi pare che nella mia coscienza siasi già piantato un cono adamantino che la divise in due mondi avversi. Donde ciò?
V’ha in noi un mondo fuori della ragione che ci entrò per le vene in un’ora ebbra d’assurdi. Ci siam posti il giogo sul collo da tanti secoli, e l’abbiamo sostenuto coll’entusiasmo feroce dell’adorante; qual maraviglia se la libertà dell’intelletto redento non si conquista se non disfacendo una parte di noi stessi? qual maraviglia se lo spirito umano sa troppo di schiavo? Il medio evo ci ha tutti, più o meno, consunti; l’eredità sana dello spirito antico deviò le sue correnti fecondatrici degli organi, la ragione si oscurò davanti alla tetraggine della fede, il sentimento irruppe con le sue febbri ascetiche a devastare l’educazione scientifica omai cominciata, e l’uomo si credè redento nella grazia mentre s’era disfatto nella natura.
Oh! la nostra parte migliore è veramente disfatta dentro di noi! Ci siamo composti colle proprie mani un gineceo per isdraiarvisi come in un letto inerte; e pur oggi rechiamo gli occhi abbacinati e maceri da quel letargo dal quale ci hanno scossi tre secoli di scoperte. Noi ci moviamo brancolanti fra la nuova luce perchè ci resta ancora impressa intorno le ciglia contristate la caligine antica. Da ciò l’irrequietezza dolorosa d’un rinascimento incerto; da ciò le velleità che non si maturano mai nell’adulta virtù dell’intelletto conscio di sè; da ciò l’ecclissi superstite che si distende per tutte le vie della coscienza, e l’occulta fraude che ci avviluppa consumandoci nell’ impotenza eterna d’Amleto.
Fa d’uopo di risanarci da quella peste ascetica che ci corrose il nerbo della ragione comunicandoci quel delirio dell’oltretomba che ci stimola ancora il desiderio; fa d’uopo di aprire le stalle d’Augia putrefatte nel mondo moderno e lasciare che vi ricircoli la luce possente del vero; fa d’uopo di richiamare lo spirito dall’esiglio della materia rimaritandolo con la vita che sgorga perennemente dalle sacre mamelle della natura; non per inebriarsene in un’estasi inerte, come Faust, ma per riprodurne in noi stessi le parti più alte. Fa d’uopo di concordarci alle cose, rifecondarsene, ricrearle in quell’ideale ch’è la cosa più vera dell’universo, e che sornuoterà sola al naufragio dei mondi, infuturando nell’eternità coloro che lo riflettono in un’ora del tempo. La nostra salute è qui tutta.
Ma quanti credi tu che la conoscano? quanti che la riproducano? quanti che la trasmettano dopo di loro? Ah! il regno di Dio non è che di pochi, perchè soltanto i pochi se lo conquistano col miglior sangue dell’anima! I più s’abbandonano al torrente della demenza e spariscono dalla vita senza comprenderne il senso divino. Addio.