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IV.
7 Novembre 18....
I figliuoli della grazia si ribellarono alla ed ora portano il danno d’una ristolta ed infausta. La Grazia di Dio è traforata nella coscienza dell’uomo e ha convertito in un limosinante del regno cieli; ella seminò le ruine per tutte le della vita, anzi della vita non fece che in un mondo non; ella ci ha resi impotenti e, quel ch’è trasformò l’impotenza in un abito umana segnandola come schiava e destinata ai supplizi ineffabili della geenna eterna. Un tal servaggio di spirito chiamò redenzione; e quando ci vide attraversare le forche caudine d’un dogma fabbricato da lei, s’applaudì come d’una grande salute partecipata dal cielo e dalla terra.
Ahimè! quanto diversa da quella Charite olimpica che uscì fresca di pudor virginale dalla schiuma del mare, ondeggiata mollemente dai zefiri sulla sua conca odorosa, che lampeggiava d’un riso sereno sugli esseri inebbriati alla voluttà de’ suoi sguardi, e mentre guidava le feste di Orcomeno dai veli decenti trasparivano le membra ambrosie atteggiate alla danza! La santa Venere con forma e con nome di Grazia era in quel tempo la Dea della vita, i cuori si esaltavano nell’ebbrezza del suo culto, ed anche la religione era gioia di spiriti sani.
Il medio evo capovolse quel mondo sì bello, e contristò di pianto ascetico la natura che avea generato le forme olimpiche della beltà. D’allora la grazia divenne ministra di predestinazioni tragiche, e nascondendosi per entro alle pieghe d’un volere impervio ai dubitanti della terra, si pianta come un giogo in mezzo della vita, ne spezza le potenze che contrastano a lei, e crea un cimitero di schiavi là dove potrebb’essere un paradiso di liberi. Che redenzione infausta fu quella! che libertà sciagurata ci recò l’apocalissi del regno di Dio la quale annunziava cieli nuovi e terra nuova! che frutto ne venne dall’avere abbandonato le vie della natura per traviarsi miseramente nelle vie della grazia! quanti secoli perduti per sempre alla ragione umana! quante battaglie stolte in cui si versò il miglior sangue dell’anima per conquistarsi un regno de’ cieli impossibile!
Ah! se penso al danno immenso del quale rechiamo le cicatrici ancora vive dentro di noi, alla salute del mondo moderno contristata dalla morbosità medievale, a quel gruppo di demenze accampate nel cervello a guisa di specie stabili della fede, all’arduità dell’educazione scientifica che ci spoppi dai miti filosofici e ci disuggelli l’epoptea redentrice del vero; se penso a quella, direi quasi, ostinazione superba di fatuità impenitente che ci aggioga, più o men, tutti ad un dogma condannato per sempre, allora m’assale un tedio ribelle dell’intelletto che dubita di sè stesso e si crede trastullo di qualche nemesi sconosciuta che lo defraudi, e mi domando con l’amarezza che vien dalla morte se il sogno non è meglio del vero, e se la natura creando i suoi folli non abbia loro concesso le scorribande fantastiche nella breve settimana dei sensi.
Ahime! da quanti secoli ci passa innanzi il torrente della demenza, e con che tumultuare osceno si devolve per le vie della vita! quanta parte del genere umano vi si ruina per entro e vi naufraga! che fanno i pochi magnanimi i quali siedono sulle cime del tempio epicureo? contemplano da lungi il torrente sorridendo sui naufraghi. Addio.
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