< Confessioni d'un scettico
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IV VI


V.


8 novembre 18....


Eppure, non so tacertelo, la demenza della fede mi fu ben dolce sul mattino della mia vita, allorquando la fantasia si dischiude commossa ai primi tepori del sentimento ancor vergine. Forse tu non sai come si apprende e si profonda nello spirito giovinetto il desiderio delle cose divine, e per che modo la natura gli si porga circonfusa in un mistero che si perde nell’infinito; ei vi si compiace, vi si esalta, vi si spaura, vi s’intenerisce, vi s’abbandona senza saperne il perchè. Le parole della fede gli sembrano arrivare da un cielo arcano, le riceve senza ostacolo, gli destano ebbrezze ineffabilmente nuove, gli rimangono impresse con tanta vivacità che gli pare di non potersene distaccare senza distaccarsi dal più intimo di sè stesso. Che vuoi? le imparò dal labbro di sua madre; la preghiera semplice e casta di Dio s’innalzò dal suo letticciuolo domestico benedetta dalle lagrime, santificata dal dolore, custodita dall’ affetto. La fede così distillata nel cuore coi baci materni v’echeggia anche dopo che la ragione s’è ribellata a quel sentimento; e gli parebbe di contristare sua madre se cacciasse da sè il divino ospite introdotto nel suo cuor di fanciullo da una mano si pia. Le leggende dell’evangelo gli si cangiano in un mondo vivente, ed ei vi si getta con l’avidità di un timore dilettoso. Non è il dogma bizantino, sillogizzato dalle scuole medievali, che soggioga l’intelletto acerbo, e l’idillio popolare di quelle leggende, la terribilità fantastica di quell’apocalissi, il dramma psicologico di quel Getsemani che ci colpisce, ci affascina, ci vince.

Quel non so che di solenne e di sacro che esce da una cattedrale, tiene avvinte alla fede le anime devote che la frequentano più che non valgano i sillogismi di cento dottori. Il suono profondo d’un organo che s’aggira per gli archi e che sembra la voce dei supplicanti atterrati in faccia agli altari, io l’odo ancora attraverso vent’anni di ribellione scientifica. Sai tu che se nella solitudine delle mie notti vigilate nello studio mi viene all’orecchio una squilletta che dalla torricciuola d’un chiostro solingo risvegli gli anacoreti che dormono, io mi sento gli occhi umidi di pianto, l’anima mi balza nel petto, e mi sto lì fiso ad ascoltare quel suono come di persona accorata che chiami, e mi risovvengono i dì giovinetti della mia fede, le canzoni modulate nel coro, le festicciuole devote dei semplici, e la gioia serena e fresca che io provava ritrovandomi fra le teste ascetiche di salmeggianti, solcate dagli anni e dal dolore?

Quel mio mondo sparì per sempre nè io certo domanderei che mi fosse ridonato per riavere la pace che mi fu tolta, ma non so dimenticarlo. É una visione dolce e tenera che mi torna sovente alla memoria e mi fa sospirare come verso il paradiso perduto. Sognai di Dio e con Dio esaltandomi di lui ed in lui; l’amai, l’adorai col cuor ebbro di vita vergine e nuova; gli domandai il suo segreto ed il mio, il mio destino ed il suo; ragionava con lui come se l’avessi vicino; mi pareva qualche volta di udire la sua voce dietro la quale io correva con l’ardor trepidante del desiderio; ma quel sogno non era che una fraude degli organi allucinati, quella voce non altro che l’eco ripercosso dai labirinti del mio cervello. Ben so questo: eppure non mi pento di avere sognato Dio a tal modo. Da quel volo per l’infinito io me ne tornai coll’anima spennata e non potrò giammai rifare in me stesso quello stato del sentimento, non potrò riprodurre le note misteriose che udii in quell’estasi piena; ma la poesia di quelle settimane inconscie della fede non è perduta. Dio fuggendo dalla mia ragione vi lasciò segnata un’imagine di sè stesso nell’ ideale che porto con me come conquista superstite d’un mondo sepolto. Addio.




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