< Confessioni d'un scettico
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VI VIII

VII.


21 marzo 18....


Mi ritornano a mente le audaci settimane del quarant’otto. Fu d’ allora che nel mio petto acerbo si risvegliò un’ansia febbricitante di pensieri, di desideri, di dubbi; fu d’allora che attraversai le grandi tempeste che doveano purificarmi più tardi come in un nuovo lavacro di spirito. Il mondo moderno sepolto fino d’allora a’ miei occhi mi venne su come da una profondità lontana, e dispogliandomi lo scoglio ascetico che io portava da tanti anni, sentii quel tumultuare acuto delle potenze che si commovono quasi stimolate da una virtù nuova. Oh! quel primo dischiudersi vivace, impetuoso, improvvido forse, d’una vita lungamente compressa, quel primo ribellarsi ad una servitù detestata, quel primo lampo che passa traverso la notte della coscienza illuminandone gli abissi, discoprendoti la parte inconscia di te stesso, è una delle rivelazioni più feconde della vita. Chi non l’ha provato non intenderà mai l’ebbrezza vergine e sacra del maturarsi nel vero. Il quarant’otto colle sue demenze politiche, colle sue rivoluzioni acerbe, co’ suoi disastri colpevoli, comunicò non di meno una scossa titanica all’ intelletto moderno. Fu come il voltarsi impaziente dell’Encelado europeo di sotto al giogo enorme che lo aggravava da tanti secoli. Il giogo gli rimase ancora sul collo ma ti annunciava le ribellioni venture che l’avrebbero abbattuto per sempre.

I grandi problemi scientifici della società contemporanea soffocati sotto la cappa di piombo d’un’educazione infausta mi s’ aprirono innanzi; m’accorsi la prima volta di quella guerra intellettuale e sociale che si dibatteva nelle coscienze, e la mia che s’era adagiata serenamente nella sua fede d’ infanzia, provò come un arcano turbamento di tutta sè stessa. Erano le prime esperienze dello spirito dubitante, e l’avidità d’ interrogare a mio modo le cose, di ricompormi in una fede tetragona alle scoperte scientifiche se si potesse, o d’abbandonare il vecchio cenacolo d’un Dio moribondo, cominciò da quell’anno.

Una febbre impetuosa di studi m’accese le vene, mi si dislargarono le attività risvegliate, e facendomi via degli ostacoli credei che la conquista del mio vello d’oro alfin m’ arridesse. Quante notti vigilate con ansia procellosa! che abbattimenti dopo l’estasi piena! che rabbia d’interrogazioni audaci! quanto spasimare di dubbi che pullulavano a piè della verità discoverta! Ah! la via della ragione è come la via della croce, tu v’insanguini i passi se vuoi salirla. Eppure io non mi pento della mia fede nel vero, rinnoverei gli assalti colla stessa pertinacia d’allora per conquistarmelo, e s’ei mi rivelasse la fraude di sè non mi lamenterei del mio fato. Chi sa che il vero non sia forse l’eco riflesso dai laberinti arcani del nostro cervello? che se la natura avesse collocato la fraude nel cuor di sè stessa, attirandovi, eterna sirena, le anime pellegrinanti sul mare dell’infinito, sarebbe poco pel saggio rivelarla qual’è? se la vita è una fraude perchè non si dovrebbe comprenderla? se le leggi dell’universo non odono le querele stolte del sentimento dovremo per ciò bestemmiarne gli effetti? L’ideale che ci splende nel nostro cervello e si spegnerà domani cogli organi è men divino per questo? non è bella l’oasi che ti rinfresca le vie del deserto? chi conosce la vita qual’è dominandola con la virtù dell’intelletto, è ben più saggio di tutti coloro che se ne fanno un Calvario di ascetici. Addio.


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