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XII.
4 aprile 18....
«La mia coscienza si risolverà dunque in gruppi meccanici della materia? il frutto dello spirito si perderà nel mare eterno degli atomi senza che qualcheduno lo salvi dalla ruina? dove se n’andrà quel mondo arcano che porto in me stessa? Tu sdegni l’oltretomba, sdegni un mito fantastico del sentimento, tu mi disveli un avvenire nuovo nell’ideale che sopravvive al naufragio degli organi. Ma io non avrò coscienza di quell’avvenire, io non mi sentirò fecondata nella vita di tutti; io non siederò alla mensa degli spiriti pieni di Dio! che immortalità strana tu mi prometti, o filosofo dell’ ideale? immortalità senza un Dio dal quale mi venga, senza una coscienza che vi partecipi; immortalità dell’inconscio, muta, insipida, inerte, come il nirvana di Buddha! È questo il porto che ci attende dopo le tempeste ed i pericoli? Ah! te lo confesso, vorrei qualchecosa di più che questo sonno eterno nel grembo dell’inconscio; vorrei una vita in cui si compiesse ma non si disfacesse quella che porto negli organi; vorrei l’estasi piena inebbriante di tutte le mie potenze educate e maturate nell’epoptea d’un Eleusi celeste.»
Ahimè! quante cose vorresti! ma i desideri nostri si spezzano tutti davanti alla necessità scettica della legge. Ti componi un’ immortalità fantastica come se le cose ti girassero intorno, e la tua coscienza divenisse il fine ultimo dell’universo. Ma credi tu che le origini della tua coscienza sieno di là dagli organi? dov’è una coscienza fuor dal cervello in cui s’ingenera? essa non è che il simbolo di quelle energie che vi si dischiudono dal loro stato latente, e maturandosi nei centri nervosi in una più vasta relazione di moti si rivelano nel cervello stesso come effetto istantaneo di qualche virtù trascendente, mentre non sono che l’effetto d’una lunga e pericolosa esperienza degli organi stessi.
Tu credi che nella coscienza sia tutto il tuo spirito; eppure le parti più alte e più feconde dello spirito non appartengono alla coscienza, fenomeno breve e caduco, ma all’inconscio che rechi nell’intimo tuo e che ti fu trasmesso cogli organi come esperienza accumulata dai mille secoli che vi lavorarono insieme, moltiplicandone la virtù creatrice. La coscienza costituisce un minimo della tua vita, cioè quello che ti si mostra, per così dire, al sommo, ma nelle arcane profondità dell’inconscio ferve e s’agita una più alta vita per cui sola tu pensi e senti. Le virtù creatrici s’annidano tutte al di là della coscienza; ciò che ti spira nelle ore feconde, e ti comunica pensieri nuovi, inaspettati, che ti scuotono ti esaltano in una vita più piena, donde credi che venga? da un qualche Dio sconosciuto che te li scrive nella coscienza come sopra un libro vergine? Oh! la coscienza è un libro che non è fatto ma si fa sempre; il tempo vi registra la propria storia.
Ciò dunque che dici coscienza non è rivelazione trascendente ma evoluzione organica del tuo cervello, il tuo mondo non è un mondo a parte, ma parte, e ben picciola, d’un mondo più vasto dal quale dipendi; tu non puoi dunque opporre la coscienza come avesse in sè la propria legge, e come da lei dipendesse la ragione dell’universo. Ciò che hai ti fu dato per un istante e devi renderlo, ben presto, a chi te l’ha dato. La tua coscienza svanirà, come coscienza, ma l’effetto prodotto dagli organi nel lavoro del tempo, resterà pur dopo di te nella storia eterna dell’essere che si rivela, senz’altro fine che di rivelarsi, nelle vie multiformi dell’infinito vivente.
Sai tu perchè ti sbigottisce tanto l’ immortalità dell’inconscio? perchè l’egoismo ti affascina, perchè vedi le cose col prisma del sentimento che te le colora di sè, non colla ragione che le disnuda d’ogni veste fantastica; perchè credi che la vita dell’universo sia somigliante a quella che porti in te stessa, e che tu dici coscienza. Oh! distenditi più in là collo sguardo scettico, affacciati alla vita verace che disgorga dal grembo eterno dell’essere; vedrai che paradiso nuovo ed immenso ti si apre d’ innanzi; vedrai l’Eleusi celeste ch’esulta nel cuor dell’ universo, e dimenticherai le velleità stolte dell’egoismo che si fa centro alle cose e le misura da sè. La nostra coscienza si dissolverà cogli organi che la rivelano, e noi ritorneremo nel grembo di quell’inconscio dal quale uscimmo in un punto del tempo. Però, tu ben lo vedi, non è il nirvana buddico che inghiotte l’esistenze e le consuma in un letargo di morte, ma è l’energia infinita dell’essere che si moltiplica e si feconda nell’eredità della vita partecipandosi a tutti senza concentrarsi in nessuno.
La cosciensa è un aspetto fuggitivo dell’essere eterno, che si manifesta in un gruppo di moti e si ecclissa col loro dissolversi; ma ciò ch’ella crea coll’esperienza degli organi si trasmette nell’inconscio che lo riceve rifecondandosi nella vita di tutti. L’immortalità nostra è quì. Il sentimento ne vagheggia da tanti secoli un’altra nell’oltretomba, ma il sentimento si spezza davanti alle leggi impenitenti e scettiche della natura.
Rassegnati dunque alla vita qual’è, non quale te la fabbrica il sentimento; adora con dignità magnanima i santi decreti della natura non disfacendone le leggi eterne ma riproducendole serenamente nel tuo cervello. È quì la beatitudine più alta dell’uomo liberato dalle demenze ascetiche; la via per cui vi si giunge è dolorosa; ma l’epoptea dell’intelletto redento nel vero non s’acquista per altra guisa. Addio.
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