Questo testo è completo, ma ancora da rileggere. |
CONGETTURE
SULL’ATTRIBUZIONE DI ALCUNI TREMISSI LONGOBARDI
Questi tremissi, dallo stampo ristretto relativamente al diametro loro, donde risulta in contorno un largo margine liscio, caratteristica dei longobardi, se ne distinguono per la singolarità delle impronte.
Quantunque non perfettamente uguali, si prestano per la grandissima rassomiglianza fra di loro, indizio di una origine sola per tutti, ad uno studio di confronto. I due primi sono tolti all’opera grandiosa di E. Gariel sulle monete dei Carolingi1, il terzo mi appartiene.
In tutti non havvi che un monogramma in diritto, ed uno in rovescio, dissimili fuorché nel nesso REX, o RX comune all’uno e all’altro lato. Essi devono dunque appartenere ad una società reale. Seppure non v’abbia un solo regnante il cui nome contenga tutte le lettere costituenti i due monogrammi.
Gariel legge nel primo dei’ suoi tremissi: in diritto CARLEMAN RX; in rovescio CARLE RX o CARLF RX; nel secondo: in diritto CARLEMAN REX; in rovescio CARLE RX. Con mio rammarico lascia desiderare il titolo ed il peso dell’uno e dell’altro. Il N. 3, ossia il mio, pesa 110 centigrammi; ed in seguito ad un assaggio alla pietra sembra composto di sette parti d’oro e di tre d’argento.
Ha in diritto il monogramma che scompongo in CAROSMTREX.
In rovescio e cioè CEROSMREX nel corpo del monogramma ed MD fuori, le quali due ultime lettere crederei perciò essere piuttosto marchi di zecca, come Gariel giudicò le sigle sparse intorno ai monogrammi dei suoi tremissi.
Si può, col monogramma del diritto del mio, costrurre il nome di Grimoaldo, e, non senza sforzo, farne altrettanto nei diritti dei tremissi di Gariel. Si ponno eziandio nel rovescio (del mio solo però) leggere i nomi di Gondeberto e di Cuniberto.
Ma il nome del primo, che non ebbe soci di regno, non toma nel rovescio di nessuno dei tre tremissi, come non torna nel diritto del mio quello di Pertarito associato col secondo e col terzo.
Ma vi ha una ragione assai più calzante per negare a quei tre principi l’attribuzione del mio tremisse, e conseguentemente anche dei due di Gariel, supposto che questi nel titolo e nel peso siano conformi, come pare, al mio, visto che lo sono nello stile, nel diametro e nelle impronte.
Autorevoli scrittori osservarono che il peso dei tremissi longobardi si mantiene da Rotari a Liutprando incluso fra grammi 1.38 e 1.262; scade con Astolfo e più ancora con Desiderio. Fatto constatato anche da me colla pesatura di alcuni tremissi longobardi dei quali dispongo, e coi dati gentilmente favoritimi dagli ottimi amici miei Prof. S. Ambrosoli Conservatore del Gabinetto di Brera e Cav. Ercole Gnecchi per quelli dei rispettivi medaglieri.
Trovammo costante buon peso nei tremissi di Cuniberto, Liutberto, Ariberto e Liutprando: per Astolfo grammi 1.10 e per Desiderio perfino 1.02, cioè ancor meno dei pesi indicati dal Cav. Brambilla nelle monete di Pavia, di 1.180 rispettivamente al primo, e 1.066 al secondo dei due regni.
Il mio tremisse non offre traccie di tosatura ed è nelle stesse buone condizioni, di conservazione di quelli pesati da quei signori e da me. Il suo peso è quindi un buon argomento per ritenerlo non anteriore alla metà dell’ottavo secolo. E per analogia dirò altrettanto di quelli di Gariel.
Il Conte di San Quintino ed il Cav. Brambilla3 osservano altresì che nei primi tempi della dominazione longobarda, quei re, non osando battere moneta in nome proprio, copiarono la bizantina come quella che godeva del massimo credito.
E in pari tempo volendo dare una certa originalità alla loro propria ne alterarono scientemente le scritte in modo da renderle soventi illegibili. Con questa astuzia poterono far correre fra il volgo ignorante di allora tremissi di peso e lega inferiori agli imperiali.
Il più antico tremisse conosciuto, che porti nome di re longobardo, è quello di Rotari del Museo Bresciano.
Rotari conserva il tipo bizantino: in dritto busto diademato di profilo; Vittoria alata in rovescio.
Cuniberto sostituì alla Vittoria l’Arcangelo San Michele, tipo costantemente seguito poi da Liutberto, Ariberto II4 e Liutprando.
Astolfo mise in diritto un monogramma in luogo del busto, conservando in rovescio l’Arcangelo: poi adottò il tipo di Lucca, stella in diritto, croce in rovescio, che tenne anche Desiderio.
Ora le impronte del mio e dei tremissi di Gariel non hanno nulla di comune con quelli da Rotari a Liutprando. Dato pure che un regnante fra quei due avesse creduto di attenuare il peso normale del tremisse longobardo, questi l’avrebbe fatto, o in modo palese coll'intendimento di stabilire la monetazione su basi diverse, o segretamente a scopo di lucro. La prima ipotesi è contraddetta dal buon peso costante e dallo stampo invariato dei tremissi longobardi fino a Liutprando. La seconda poi non regge affatto se appena si consideri che l’autore della frode, lungi dallo scioccamente palesarla con un tipo nuovo di pianta, avrebbe fatto di tutto per nasconderla sotto le forme consuete.
Ignoro le ragioni che indussero Astolfo a modificare il peso e variare lo stampo dei suoi tremissi. Fatto è però che dopo di lui non si ritornò più al tipo ed al peso di prima.
Mi chiesi se l’ardita lettura di Gariel non potesse avere probabilità di vero, e non a me soltanto, ma lo chiesi anche ad altri assai di me più valenti. E questi cortesemente mi risposero non vederne di migliori, neppure nel mio tremisse, e con generosa modestia aggiunsero che non mi avessi a preoccupare dei loro giudizi e farmene uno da me.
Per quanto infatti strana a prima vista, la lettura di Gariel sembrami tecnicamente la più naturale. Nel mio tremisse i nomi di Carlo in diritto, di Carlomanno in rovescio si presentano con un’evidenza sorprendente.
Ma come ammetterli in moneta longobarda? Dove quei tremissi poterono aver veduto la luce? Non in Francia, ove recentemente Pipino il Breve aveva abolito la coniazione dell’oro e riconosciuto sola moneta legale l’argento. Dato anche che Pipino o i suoi figli avessero eccezionalmente battuto oro, li avrebbero data la forma massiccia merovingia modellata sulla romana. Tali sono infatti i rarissimi soldi d’oro battuti in Francia da Carlomagno e da Lodovico Pio.
Resta a vedere se e come quei tremissi possano essere di fabbrica longobarda.
Le paci, le quali chiusero le spedizioni franche del 754 e del 756 in Italia, presentano differenze notevoli, e nei contraenti e nella forma, che non isfuggirono al nostro grande Muratori.
Dalla vita di Stefano II in Anastasio bibliotecario, evidentemente scritta da testimonio contemporaneo e bene informato, e dal Codice carolino, veniamo a conoscere:
Che i Franchi vennero richiesti dai romani in virtù dell’obbligo fatto loro dal patto letico di militare in difesa dell’impero e di Roma. I Franchi erano considerati militi romani ed i re loro cittadini romani per la dignità patriziale conferita a Pipino ed ai suoi figli Carlo e Carlomanno con lui regnanti.
Che la pace seguita alla spedizione del 754 fu contratta da romani, franchi e longobardi, questi obbligandosi a restituire ai primi le città e terre usurpate.
Che avendo Astolfo mancato ai patti, Pipino sceso nuovamente nel 756 conchiudeva con esso un secondo trattato, e questa volta senza intervento dei romani, nel quale i longobardi cedevano, non più ai romani, ma ai franchi i territori di giurisdizione romana.
Pipino poi si obbligava verso la Chiesa Romana a rimetterli ad essa, come fece. Ciò risulta dai seguenti passi della vita succitata:
Gregorio legato del greco Augusto, raggiunto Pipino sotto Pavia, rammentandogli senza dubbio il patto letico, gli richiese Ravenna e le altre città e terre imperiali contro pagamento delle spese. Cui Pipino rispose che per nulla al mondo avrebbe ritolto a S. Pietro ciò che gli aveva dato (Obtulit dice il succitato biografo), né si dà che ciò che si possiede.
Nel trattato di pace con Pipino, Astolfo conferma i patti di prima, ma la restituzione non ha luogo direttamente da longobardi a romani, bensì ad recipiendas ipsas civitates il re dei franchi delega l’abate Fulrado suo consigliere, il quale accompagnatosi con messi di Astolfo, entrando di città in città ne riceve ostaggi e le chiavi delle porte, finché giunto a Roma depone le chiavi una cum donatione a suo rege emissa nella confessione di S. Pietro.
Fuvvi dunque un tempo breve o lungo, non monta, nel quale i re franchi patrizi dei romani ebbero l’effettivo possesso di Ravenna e delle altre città dell’Italia centrale loro cedute dai longobardi col trattato del 756.
Mi par quindi niente affatto improbabile che durante questa, sia pure effimera signoria, eglino vi avessero ad esercitare atti di vera sovranità e fra altri quello di coniar moneta. Tanto più che l’attestare con documenti pubblici e solenni il possesso reale, benché temporaneo di quei territori, dimostrando il proposito di difenderli, sarebbe stato argomento opportuno a contenere i longobardi e rassicurare pienamente i romani5.
Lo stile di quei tremissi non lascia dubbio che artefici longobardi vi abbiano lavorato. La coniazione può essere avvenuta nel tempo del breve soggiorno di Pipino in Lombardia fra la conclusione della pace ed il suo ritorno in Francia. In questo caso essa ebbe luogo assai probabilmente nel campo franco non lungi da Pavia. Oppure potrebbe più tardi avervi provveduto Fulrado stesso per conto dei suoi re. Parmi più credibile la prima ipotesi, perchè Fulrado nell’esarcato, ove si recò tosto avrebbe probabilmente coniato sul taglio romano, come prima di lui vi coniò lo stesso re Astolfo6.
Veniamo ora all’analisi dei monogrammi del mio tremisse. Il nesso REX, come vedemmo, è comune ai due lati. Il diritto si può facilmente scomporre nei seguenti nessi:
CAROLVS PATRicius ROMANORVM
Quanto alla lettera T nel nesso da me letto Patricius, non saprei vederne altra in quell’incrocio della barra orizzontale di A prolungata oltre l’asta minore di R. Tanto più che ho un esempio analogo in una iscrizione dell’ottavo secolo riportata da L. Alph. Chassant nel Dictionnaire des abréviations latines et françaises du moyen âge ove la lettera T è formata da un incrocio analogo colla C quadrata della terza parola abbreviativa di SANCTO7.
Nel rovescio:
CARLEMANNVS PAtricius ROMANORVM
Non posso ammettere la mancanza del nome di Pipino, re principale e padre. Lo vedrei nelle P contenute nelle due R che figurano tanto nel mio che nei tremissi di Gariel. Nel mio poi è facilissimo costrurre in ambo i lati l’intero nome.
PIPINVS col nesso
Cosi nel mio tremisse i titoli di REX e di PATRICIVS ROMANORVM verranno a riferirsi al singolare ai nomi di Pipino, di Carlo e di Carlomanno. E andrebbero d’accordo, salvo varianti insignificanti, coi seguenti indirizzi delle lettere a quei re inserte nel codice carolino: Dominis Excellentissimis Pippino, Carolo et Carolomanno tribus regibus et nostris romanorum patriciis.
Quanto poi alle sigle M • D • un amatore di monete milanesi potrebbe desiderare di leggervi MeDiolanum, ma quelle due lettere possono significare troppe cose perchè io mi attenti di darne la spiegazione.
Anche nei tremissi di Gariel crederei vedere, almeno nei diritti, le lettere rudimentali di PATRICIVS ROMANORVM.
Ecco in qual modo io spiegherei queste curiose monete che ritengo possono far parte della serie longobarda, e per lo stile indubbiamente longobardo e perchè tali a mio avviso si possono considerare anche dal punto di vista politico e storico. Poiché si riferirebbero ad una parte d’Italia che cessa di essere longobarda, né è ancora romana, e segnano un momento importantissimo della storia dei longobardi.
Attribuendole poi a Pipino, Carlo e Carlomanno quali patrizi dei romani, ed a zecca incerta le porrei sotto l’anno 756 per le ragioni già dette.
Con ciò io non pretendo di aver colto nel segno ma vorrei sperarlo. Perciò intitolai questo mio lavoro Congetture né più che tali le credo. Altri più valenti di me troveranno forse spiegazione migliore e diversa. Che se alcuno vorrà combattere queste mie conclusioni, io non me ne dorrò certo, anzi l’avrò ad onore e se sarò convinto di errore, mi arrenderò lietamente alla verità. In queste controversie, vincitori e vinti ne sortono sempre con guadagno.
Non mi resta se non attestare la mia riconoscenza al Nob. Cav. C. Brambilla e alla onoranda memoria del desideratissimo Comm. Vincenzo Promis, i quali con bontà pari alla loro dottrina, mi furono larghi dei loro lumi, mi posero sulla via, e mi fecero cortese violenza a proseguirla.
Ebbi così modo di procurarmi soddisfazioni grandissime nello studio di un periodo tanto interessante della storia del nostro bello e caro paese.
- ↑ E. Gariel, Les monnaies royales de France sous la race Carlovingienne. Parte II, Tav. IV, N. 84 e 85.
- ↑ G. dei conti di San Quintino, Sulla Moneta dei Longobardi in Italia, — C. Brambilla, Tremisse di Rotori. — Monete di Pavia.
- ↑ Di San Quintino e Brambilla. Opere citate.
- ↑ Veramente abbiamo un tremisse di taglio romano col nome e l’effigie di Ariberto II descritto da D. Promis nelle Monete di zecche italiane inedite e corrette, 1867, che dall’iscrizione iffo glorivso dvx appare coniata da un principe fendale. Quell’autore rimarca aver esso nulla di comune coi tremissi di Pavia e molto ragionevolmente crede che l’ignoto duca Iffo avesse residenza in qualche città confinante colle Provincie soggette all’impero greco o in grande relazione con esse. Cosi i duchi e principi di Benevento seguirono costantemente il tipo romano a differenza dei re longobardi che ebbero il loro specialo.
- ↑ Che i romani fossero stati fino allora mediocremente persuasi, non della fedeltà, ma della premura dei re franchi per loro, traspare dalle lettere di papa Stefano II a Pipino ed ai figli, di giugno e luglio 765 e febbraio 756 tolte dal Codice Carolino e riprodotte da C. Troya nei Documenti diplomatici longobardi ai N. 692, 694 e 696.
- ↑ D. Promis, Monete di zecche italiane inedite o corrette, 1867. — C. Brambilla, Annotazioni numismatiche, 1867
- ↑ Credo far cosa grata al lettore riportando quella bella iscrizione:
cioè hic pausante sancto Germano die traslationis dedit ei rex Pipinus fiscum palatioli cum appenditiis suis omnibus.