< Coriolano
Questo testo è stato riletto e controllato.
William Shakespeare - Coriolano (1608)
Traduzione dall'inglese di Carlo Rusconi (1858)
Atto quinto
Atto quarto

ATTO QUINTO




SCENA I.

Roma. — Una piazza.

Entrano Menenio, Cominio, Sicinio, Bruto, ed altri.

Men. No, non v’andrò; sapete quel che disse a Cominio, che fu un tempo suo generale, e che tanto lo amò. Ei mi chiamava, è vero, suo padre; ma che gl’importa ora? Andate voi (ai Trib.) che l’avete bandito, e a mille piedi dalla sua tenda mettetevi ginocchioni dinanzi a lui, e cercate supplichevoli il cammino della sua clemenza. Sì, se ha rifiutato d’udir Cominio, io non andrò.

Com. Mostrava di non conoscermi.

Men. L’udite?                                   (ai Trib.)

Com. Pure profferì una volta il mio nome; e allora gli ho ricordata la nostra antica amicizia, e tutto il sangue che abbiam versato nei combattimenti l’uno al fianco dell’altro. Coriolano non voleva rispondermi; rifiutava tutti i titoli che gli dava, nè più era, diceva, che una specie di nulla, un uomo senza nome, finchè ottenuto non ne avesse un altro coll’incendio di Roma.

Men. Ora vedete quel che avete fatto. (ai Trib.) Degni Tribuni, gran cura aveste di Roma; ed avete ottenuto modo perchè i carboni e le ceneri vi divenissero in breve a buon prezzo. Gloriosa sarà la memoria che vi conseguirà.

Com. Io gli ho detto quanto fosse onorando il perdonare a chi non poteva più sperar grazia; ma mi rispose, che vergognoso era per uno Stato l’implorar mercè da un uomo che avea bandito.

Men. Diceva con senno, nè poteva dir meno.

Com. Tentai di risvegliare la sua tenerezza pe’ suoi amici; e la sua risposta fu, che non poteva sperdere il tempo nello sceverarli da una moltitudine infetta, e che follia sarebbe stata il non ardere tutto un campo, di cui le erbe malefiche meritavano le fiamme, per pietà di una o due buone piante che vi si alimentavano.

Men. Per una o due buone piante! Sì, io, sua madre, sua moglie, il figlio suo, e quel generoso romano (indicando Cominio). Queste sono le piante che vorrebbe salvar dall’incendio; e voi, Tribuni, siete le erbe malefiche del campo infetto, e per cagion vostra sarem tutti arsi.

Sic. In grazia, siate pazienti. Se ne rifiutate il vostro aiuto in così dolorosa estremità, non ci rimproverate almeno la nostra cruda disavventura. No, non ne dubito, se voleste difender la causa della vostra patria, la vostra eloquenza, meglio dell’esercito che potremmo sì frettolosamente ragunare, arresterebbe il nostro concittadino.

Men. In ciò io non entrerò.

Sic. Vi prego, andate da lui.

Men. Che vi farei?

Br. Prova soltanto di quel che possa il vostro amore per Roma con Marzio.

Men. Bene; e tornerei per dirvi che Marzio m’ha rimandato, come rimandò Cominio, senza volermi ascoltare. E che avrei conseguito con ciò, se non di rieder confuso come un amico reietto dall’amico, e compreso di dolore per la sua cruda indifferenza? perocchè è certo che ciò accadrà.

Sic. Il vostro buon volere meriterà almeno gli omaggi di Roma; e la vostra patria misurerà la sua riconoscenza da tutto il bene che avrete voluto farle.

Men. Ebbene, andrò: credo ch’ei mi ascolterà. Nullameno il sapere come si mordeva le labbra, e mormorava fra i denti senza rispondere al buon Cominio, non m’è di stimolo. — Pure giurerei che era sfavorevole quel momento... che digiuno egli era... Il mattino, quando il sangue raffreddato non inturgidisce più le nostre vene, noi siam rigidi e duri, ed incapaci d’opere generose; ma allorquando un novello sangue circola con più forza e calore, allora, animata dallo spirito divino, l’anima divien più pieghevole e più tenera. Aspetterò, per indirizzargli la mia preghiera, il momento che seguirà il suo banchetto; e allora investirò il suo cuore.

Br. Troppo conoscete il cammino di quello, per ismarrire nella via.

Men. Ve lo prometto, lo tenterò; avvenga che vuole. Fra poco saprò il mio successo.     (esce)

Com. Coriolano non vorrà intenderlo.

Sic. No?

Com. Dicovi ch’egli è fra la pompa della grandezza; che il suo occhio è infiammato come se volesse incenerir Roma. La memoria dell’offesa gli chiude il cuore alla pietà. Mi sono inginocchiato innanzi a lui, e appena con debil voce mi ha detto: Alzatevi. Così m’accommiatò, presentandomi la mano con austero cipiglio. Poscia mi fe’ dare uno scritto contenente ciò che voleva accordare e ciò che rifiutava, giurando che vincolato s’era di non mai piegarsi ad altre condizioni: talchè ogni speranza è vana, a meno che sua moglie e sua madre, che, per quanto odo, pensano d’andarlo a supplicare, non riescano a carpirgli il perdono della patria. Lasciam questa piazza, e andiamo colle nostre preghiere e coi nostri argomenti ad incoraggirle nei loro propositi, e ad affrettarne i passi.     (escono)

SCENA II.

L’accampamento dei Volsci dinanzi a Roma. — Le scolte ai loro posti.

Entra Menenio.

1a Sc. Fermati. Di dove sei?                                   (a Men.)

2a Sc. Fermati, e retrocedi.

Men. Da valorosi soldati vi comportate; ma permettetemi; sono un ufficiale dello Stato, e intendo parlare a Coriolano.

1a Sc. Di dove venite?

Men. Da Roma.

1a Sc. Non potete passare; tornatevene. Il nostro generale non vuol udire nessuno che venga da Roma.

2a Sc. Vedrete Roma circondata di fiamme prima che possiate parlar a Coriolano.

Men. Miei buoni soldati, se avete udito il vostro generale parlar di Roma, e degli amici ch’ei vi serba, v’è mille a scommettere contro uno, che in quei racconti il mio nome vi avrà ferito l’orecchio. Sono Menenio.

1a Sc. Sia; riedete: il vostro nome non avrà potenza di farvi passar di qui.

Men. Ti dico, scolta, che il tuo generale è mio stretto amico; ch’io sono stato, a così dire, il libro che ha divulgate tutte le sue belle opere, e che ha mostrata agli occhi degli uomini la grandezza della sua gloria. Presso i miei amici, di cui egli è il primo, io faceva sempre racconti pomposi di lui, spinti fino a quell’ultimo grado in cui ha limite la verità; e talvolta mi è accaduto, come alla palla che rotola sopra un piano scorrevole, di vedermi trasportato dalla mia amicizia al di là del mio intento, rendendo menzogna quel ch’era vero. Or vedi, amico, che nulla tu arrischii dandomi accesso nel suo campo.

1a Sc. In verità, vecchiardo, quand’anche aveste spacciate in lode di lui tante menzogne, quante parole avete ora dette, neppure allora passereste; no, quand’anche fosse così virtuoso il mentire, come lo è l’esser veritiero. Indietro.

Men. Ricordati, amico, che il mio nome è Menenio, fido compagno del tuo generale.

2a Sc. Per quanto mendace vi siate stato lodandolo, come diceste, io son tale che vi dirò il vero per suo ordine, e di qui non passerete. Ricalcate le vostre orme.

Men. Ha egli desinato? me lo potete dire? perocchè non vo’ parlargli che dopo il pranzo.

1a Sc. Voi siete un Romano, diceste?

Men. Lo sono, come il tuo generale.

1a Sc. Dovete dunque odiar Roma, com’ei l’odia. Ora potete voi, dopo aver cacciato dalle vostre porte l’uomo che le aveva tante volte difese, e mandato ai vostri nemici la vostra egida tutelare; potete, dico, sperare di arrestar la sua vendetta con vani gemiti di femminuccia, con mani supplichevoli, o coll’impotente intercessione di cianciatori decrepiti, quali voi siete? Credete forse che il vostro debole soffio varrà ad estinguer le fiamme che minacciano la vostra città? No, errate; perciò riedetevene a Roma, e apparecchiatevi a subir la vostra sentenza: siete condannati; il generale lo giurò, e non vi è più nè perdono, nè speranza per voi.

Men. Soldato, sai tu che se il tuo generale mi sapesse qui, mi userebbe ogni onore?

1a Sc. Il generale non si cura di voi. Ritiratevi, dico, se non volete vedere spargere il poco sangue che vi rimane nelle vene. Indietro.

Men. Soldato, soldato...                         (entrano Coriolano e Aufidio)

Marz. Onde il tumulto?

Men. Ora (alla scolta) t’accomanderò al duce, e vedrai qual conto si faccia di me; e vedrai se un villano gregario può impedirmi l’accesso al mio Marzio che amo come un figliuolo. Trema, sciagurato! Gli Dei ragunati a tutte le ore s’occupino incessantemente della tua felicità (verso Marzio), e t’amino quanto t’ama il tuo vecchio padre Menenio! Oh figlio mio, mio figlio! tu prepari le fiamme per noi! Vedi le mie lagrime, ed estinguano esse la tua collera. Convenne molto pregarmi, molto crucciarmi, perchè io venissi a te; ma certi eravamo che null’altri che io poteva piegarti; e spinto fui fuor delle porte di Roma da preci e sospiri. Ti scongiuro di perdonare alla patria, e a’ tuoi concittadini supplichevoli. Gli Dei propizi calmino il tuo furore, o lo facciano cadere soltanto sopra costui (indicando la scolta), che, come inerte massa, si opponeva al mio passaggio, e mi rifiutava il tuo accesso.

Marz. Via di qui.

Men. Oh! via?

Marz. Moglie, madre, figlio, nulla più conosco. Il mio volere più non m’appartiene; è legato in servigio altrui: e sebbene aneli alla mia vendetta, il perdono di Roma sta nel cuore dei Volsci. Che vale se fummo amici? Lo dimenticherò con ingratitudine, primachè mostrare colla mia pietà a qual segno lo siamo stati. — Lasciami: il mio orecchio oppone alle tue inchieste durezza più inflessibile di quella che oppongono al mio esercito le vostre porte di ferro. Nullameno, perocchè assai ti ho amato, prendi questo scritto: lo segnai per te, e te l’avrei spedito. Un’altra tua parola non l’udrei. Costui, Aufidio, era per me un padre in Roma; e tu vedi come...

Auf. Fermo è il tuo carattere.               (esce con Marzio)

1a Sc. Dunque, messere, il vostro nome è Menenio?

2a Sc. È un nome, come vedete, di gran possa. Sapete ora la via di Roma?

1a Sc. Vedeste come fummo rimprocciati dal generale per avere interrotto i passi di Vostra Grandezza?

2a Sc. Credete che verrò manco per tema del castigo?

Men. Più non mi curo del mondo, nè del vostro generale. Quanto a voi, miserabili, appena credo che esistiate, tanto piccioli siete a’ miei occhi. Colui che è determinato a darsi morte da sè, da un altro non la teme. Segua il vostro generale a suo talento l’impulso della sua collera; possiate voi vivere lungamente nella viltà del vostro stato, e la miseria vostra cresca cogli anni. Vi ripeto quel che mi fu detto: Via di qui.     (esce)

1a Sc. Un nobil uomo, lo attesto.

2a Sc. Nobile è il nostro generale; egli è immoto quale rupe ad ogni assalto di venti.     (escono)

SCENA III.

La tenda di Coriolano.

Entrano Coriolano, Aufidio, ed altri.

Marz. Dimani rassegneremo il nostro esercito dinanzi alle mura di Roma. Tu, mio collega, darai conto al Senato Volsco della mia fedeltà.

Auf. Così farò: perocchè tu non vedesti che gl’interessi dei Volsci; tu chiudesti l’orecchio alle preghiere dei Romani; tu alcuna conferenza segreta non avesti neppur co’ tuoi intimi, che venivano per placarti.

Marz. L’ultimo di essi, quel vecchiardo che respinsi tanto afflitto, mi amò più teneramente, che non ama un padre il figlio suo; come suo Dio mi amò. Ultima speranza era in essi l’inviarmelo; e per amore di lui, in onta della durezza che gli ho mostrata, offersi loro anche una volta le prime condizioni. Tu sai che sono state rifiutate, ed ora non possono più accettarle. Unicamente adunque per non ricusar tutto a quel vecchio, che sperava ottener molto di più, le offersi, e ben poco accordai. Nuove deputazioni, nuove suppliche, nè per parte dello Stato, nè per quella de’ miei amici, non accoglierò più adesso. — Che è questo rumore? (grida al di dentro) Dovrò infrangere il mio voto nel momento stesso che l’ho pronunciato? Nol voglio... (entrano in gramaglie Virgilia, Volunnia conducente il figlio di Marzio, Valeria e seguito) Mia moglie innanzi a tutte; poi la veneranda madre, il cui seno mi nutrì, e il fanciullo mio!... Ah! lungi da me, tenerezza! rompansi tutti i vincoli di natura! mia virtù sola sia l’essere inflessibile! Quanto santo è questo passo di una madre! qua! potenza è negli sguardi di quella tenera colomba, valevole, non che altro, a rendere spergiuri gli Dei! M’intenerisco, e non mi sento composto di un’argilla più dura di quella degli altri uomini! Mia madre s’inginocchia a me come all’Olimpo, e il mio fanciullo ha un volto supplichevole, su cui pare che la natura abbia scritto; Non mel negare! — Scorra l’aratro e l’erpice dei Volsci sulle ruine di Roma e dell’intera Italia, non sarò tanto stolto da obbedire ad un cieco istinto. Io mi starò insensibile come se l’uomo fosse il solo autore della propria vita, e non conoscesse parenti.

Virg. Mio signore, mio sposo!

Marz. Non vi veggo più con quegli occhi con cui vi vedeva in Roma.

Virg. È il dolore, che ci ha tanto trasmutate, che vel fa credere.

Marz. Come stupido attore, ho già obbliata la mia parte; e mi sto confuso, ed in procinto di caduta. Ah tu, la più cara metà di me stesso, compatisci alla mia tirannia; ma non dirmi ch’io perdoni ai Romani. Dammi un solo bacio, che duri quanto il mio esilio; che sia dolce quanto mi è dolce la vendetta. Per la gelosa regina del cielo, quel bacio che mi desti partendo, puro e vergine l’ho conservato sempre sulle labbra. — Oh Dei! io mi fondo in vane parole; e lascio la più rispettabile delle madri in un canto, senza averla pur salutata. Piegatevi, o mie ginocchie, sulla terra; e mostra qui, Coriolano, qual sentimento di rispetto provi l’anima tua.     (s’inginocchia)

Vol. Alzati, mio figlio, e sii benedetto dagli Dei, mentr’io su questo aspro guanciale di selci m’inchino, porgendoti un ossequio inusitato fra madre e figlio.

Marz. Che fate? Voi in ginocchio dinanzi a me? dinanzi al figlio che avete cresciuto ed informato alla virtù? Tutto è sconvolto in natura; e con quest’atto d’umiliazione, o mia madre, voi rendete tutto possibile.

Vol. Il mio guerriero tu sei; io t’educai alla guerra. — Conosci tu questa donna?

Marz. La nobile sorella di Publicola; l’astro di Roma; casta come la neve più pura che fiocchi sul tempio di Diana. Cara Valeria!

Vol. Ecco un immagine di voi due (indicando il figlio di Marzio), che un giorno rifletterà i vostri lineamenti.

Marz. Il Dio de’ guerrieri, per valore dell’Onnipossente, spiri l’eroismo nella tua giovine anima. Sii invulnerabile alla vergogna, e mostrati un giorno sul campo di battaglia come il faro splendente sull’onde del mare, che, luminoso e immacolato, salva coloro che lo veggono.

Vol. Fanciullo, inginocchiati.

Marz. Egli è il mio generoso fanciullo.

Vol. Or questo fanciullo, la tua sposa, ed io, t’indirizziamo la nostra preghiera.

Marz. Vi scongiuro, arrestatevi; e se mi volete fare una dimanda, ricordatevi anzi tutto di non offendervi del mio rifiuto alla cosa che ho giurato di non concedere. Non mi chiedete di rimandare i miei soldati, o di venirne a patti colla plebe di Roma; non mi dite che sono snaturato; non cercate di calmar l’ira mia; o di sospender le mie vendette co’ freddi vostri discorsi.

Vol. Oh non più, non più! Detto ne hai che nulla ci accorderesti, perchè null’altro avremmo a chiederti, che ciò che ricusi di già! Ebbene, chiediamo che se inutile riesce la nostra dimanda, il biasmo ne cada sulla tua durezza: ascoltaci.

Marz. Aufidio, e voi, Volsci, porgete orecchio, perocchè non ascolteremo alcuna preghiera di Roma in segreto. — Parlate.

Vol. Ove anche restassimo mute, queste vesti lugubri e lo squallore de’ nostri volti ti direbbero abbastanza qual vita abbiam condotta dopo il tuo esilio. Pensa fra te, e giudica se in noi non vedi le più infelici donne della terra. La tua vista, che dovrebbe farne versare lagrime di gioia e innondare il nostro cuore di diletto, ci strappa pianti di disperazione, e tremiti di paura e di dolore; manifestandosi agli occhi di una madre, di una sposa, di un fanciullo... un figlio, uno sposo, un padre, che strazia le viscere della sua patria. E a noi, sfortunate, il tuo odio è più fatale. Tu ne togli fin la potenza di pregare gli Dei, consolazione suprema degli infelici. Perocchè, come potremmo noi, oimè! come potremmo pregare gli Dei per la nostra patria, come ne abbiam dovere, e pregarli per la tua vittoria, come pure sarebbe di dover nostro? Oimè! perder n’è forza o la cara patria che ci ha nudriti, o te nostro conforto in essa. In qualunque modo i nostri voti si compiano, sventurate, altamente sventurate siamo; perocchè ci converrà vederti trascinare, carico di ceppi, come schiavo ribelle, lungo le nostre vie; o mirarti trionfante calpestar le ruine del tuo paese, coronato coll’alloro della vittoria pel prezzo d’aver valorosamente versato il sangue della tua sposa e de’ tuoi figli. Quanto a me, Marzio, io non aspetterò l’esito di questa guerra, nè gli eventi della fortuna. Se non ti posso indurre alla clemenza verso i due partiti, piuttostochè a cercar la ruina d’un d’essi dilaniando la patria, di me ti converrà calpestare il cadavere prima di entrare in Roma.

Virg. Sì, e me pure calpesterai; me, che ti feci padre onde vivesse nell’avvenire il tuo nome.

Il fanciullo. Me non calpesterà, io fuggirò: e fatto adulto, non penserò che a combattere.

Marz. Per non esser debole e sensibile come una donna, non conviene vedere nè un fanciullo, nè il volto d’una femmina. — Troppo ascoltai.

Vol. No, non lasciarne così. Se oggetto della nostra preghiera fosse il chiederti di salvar Roma, struggendo i Volsci che servi, avresti motivo di condannarne come nemiche del tuo onore. Ma la nostra preghiera è, che insiem li pacifichi; onde i Volsci possano dire: Usammo clemenza; ed i Romani: Accettata l’abbiamo; ed entrambi ti salutino gridando: Gli Dei benedicano Coriolano, che ci diè questa pace! Tu sai, mio illustre figlio, che gli eventi della guerra sono dubbi; ma ben certo è, che se tu vinci Roma, il frutto che ne raccorrai sarà un nome eternamente maledetto, e l’istoria dirà di te: Ei fu prode guerriero; ma contaminò la sua gloria colla sua ultima opera; distrusse il suo paese; e la sua memoria non andrà alle venture generazioni che coperta d’obbrobrio. — Rispondimi; figlio; tu aspirasti sempre alle più chiare ricompense dell’onore; tu eri geloso degli Dei, che tuonano spesso sui mortali, ma che non isquarciano che l’aere col fragor delle loro folgori, od abbattono le quercie insensibili. Perchè non mi rispondi? Credi tu che sia di fregio per un uomo generoso il ricordarsi sempre dell’ingiuria che ha patita? Figlia mia, favellagli. Ei non si cura de’ tuoi pianti. Parla tu, povero fanciullo; forse la tua tenera infanzia lo commuoverà più de’ nostri discorsi. Non v’è nel mondo intero un figlio che abbia debiti maggiori verso sua madre; e nullameno ei mi lascia parlar qui come uno schiavo tra i ferri. Va; tu non mostrasti mai in vita alcun amore verso di me; mentr’io, genitrice sfortunata, rinunziando alla maternità, nè volendo dopo di te altri figli, t’ho educato per la guerra, e ti ho colmato d’onori in pace. — Di’ che la mia dimanda è ingiusta, e cacciami da te con disprezzo; ma se essa non l’è, tu manchi al tuo debito, e gli Dei ti puniranno, perchè mi ricusi quell’obbedienza che appartiene ad una madre. Ei ne volge il dorso... Inginocchiamoci, donne; ingiuriamolo con questa umile positura. — Certo ei ritrae più orgoglio dal suo nome di Coriolano, che pietà dalle nostre preghiere. Inchiniamoci anche una volta innanzi a lui, e sia la nostra ultima supplicazione; poi torniamo a Roma, per morire fra i nostri concittadini. — Ah! almeno volgine uno sguardo. Questo fanciullo, che non può dire quel che vorrebbe, ma che cade in ginocchio, e ti tende le tenere mani a somiglianza di noi, afforza la nostra dimanda con argomenti più sodi, che tu non n’hai da opporgli. — Su via, donne infelici, partiamo. Costui ebbe una Volsca per madre; la sposa sua abita Corioli; e se questo fanciullo gli somiglia, è puro caso. Rimandane dunque, e ti salva da noi. — Io non dico più nulla, finchè non vegga la patria in fiamme; allora troverò una voce per parlar di nuovo.

Marz. Oh madre, madre! (tenendo per mano Volunnia in silenzio) Che mai faceste? Vedete, il Cielo s’apre, e gli Dei abbassano i loro sguardi su questa pianura, e sorridono di pietà vedendo tale spettacolo contro natura. Mia madre, mia madre! avete vinto una felice vittoria per Roma; ma pel figlio vostro... credetelo, oh! credetelo... pericolosa è, se non mortale. — A che? al mio destino mi assoggetto. — Aufidio, sebbene io non possa più condurre a termine la guerra incominciata, pattuirò una pace solida e perenne. — Oh generoso Aufidio, se fossi stato al mio luogo, di’, non avresti udita una madre? di’, le avresti meno concesso?

Auf. Io pure ne fui commosso.

Marz. Ah! giurerei che lo sei stato, perchè non era facile lo spremere da’ miei occhi lagrime di compassione. Ma, prode generale, qual pace chiedi tu? Porgimi i tuoi consigli. Per me non rientrerò in Roma; ritorno ad Anzio, e ti prego di assecondarmi nella mia difesa. — Mia madre! mia sposa!

Auf. (a parte) Godo che abbi posto in conflitto la tua pietà e il tuo onore; trarrò partito da ciò per ristabilire nel primo stato la mia fortuna.

Marz. (a Volunnia e Virgilia) Fra poco ci assideremo insieme al desco, e recherete a Roma prove migliori, che parole, del trattato che avremo suggellato in eguali condizioni. Venite; voi meritate un tempio. Tutte le spade d’Italia e de’ suoi confederati non avrebbero potuto fare una tal pace.     (escono)

SCENA IV.

Roma. — Una piazza.

Entrano Menenio e Sicinio.

Men. Vedete là in quel canto del Campidoglio quella pietra?

Sic. Sì, a che?

Men. Se poteste divellerla col vostro dito mignolo, allora direi: v’è qualche speranza che le donne possano piegarlo. I nostri capi son consacrati, e aspettiamo soltanto l’esecuzione del sagrifizio.

Sic. Possibile che in sì breve tempo un uomo debba tanto mutarsi?

Men. V’è differenza fra un verme e una farfalla; nullameno la farfalla era in origine un verme. Marzio del pari è uomo cangiato in tigre.

Sic. Amò teneramente sua madre.

Men. E me pure amava; ma di sua madre si ricorda ora così come il lioncello cresciuto si rammenta della sua. Il terrore e la minaccia irrompono da tutti i lineamenti del suo volto feroce; e allorchè va, si muove come macchina di guerra, e la terra trema sotto i suoi piedi. Il suo occhio forerebbe una corazza; la sua voce ha il suon tetro di una squilla funebre; la sua ira somiglia allo scrosciar della folgore. Egli siede nel suo seggio con tutto l’orgoglio del vincitore dell’universo. Quel che comanda è eseguito in un baleno; nè gli manca, per essere un Dio, che l’eternità, e un cielo per trono.

Sic. La clemenza ancora gli manca, poichè di tal somiglianza vi piacete.

Men. È quale lo dipinsi. Vedrete la grazia che avrà ottenuto sua madre. Non è in lui maggior pietà, che latte non sia in un cinghiale. La nostra povera Roma ne farà sperienza; e tutto ciò è accaduto per vostra cagione.

Sic. Gli Dei ci siano propizi!

Men. No, non isperate nulla dagli Dei. Allorchè l’abbiamo bandito, gli Dei non rispettammo, nè a noi penseranno essi quando tornerà per isgozzarne.     (entra un Messaggiero)

Mess. Signore, se volete salvar la vostra vita, fuggite di qui. I plebei hanno preso il vostro collega, e lo strascinano gridando, che se le donne non recheranno buone novelle, lo faranno morire di morte lunga e crudele.     (entra un altro Messaggiero)

Sic. Ebbene, che è?

Mess. Buone novelle! buone novelle! le donne han vinto! I Volsci han levato il campo, e Marzio è partito con loro. Roma non vide ancora più felice dì, non quello pure in cui furono cacciati i Tarquinii.

Sic. Amico, sei certo che sia vera la tua nuova? ne sei tu ben certo?

Mess. Certo come certo che il sole è un astro di fuoco. Dove eravate dunque nascosto, per dubitarne ancora? Non mai fiume precipitò i suoi flutti sotto la vôlta d’un ponte colla rapidità con cui l’onda del popolo racconsolato è rientrata nelle porte di Roma. Udite questi suoni? (grida e suoni al di dentro) udite questi strumenti e queste acclamazioni che vanno al cielo?1 udite!

(nuove grida)

Men. Fortunate novelle! Vo’ ire incontro alle nostre Romane. Volunnia sola vale i senatori, i patrizi, i consoli, l’intera Repubblica, e migliaia di tribuni, quali siete voi. Buone preghiere innalzaste oggi. Stamane io non avrei dato un obolo per diecimila delle vostre teste. Udite qual tripudio!     (grida e suoni)

Sic. Gli Dei ti ricompensino (al Mess.) per le tue buone novelle, ed abbine ad arra la mia gratitudine.

Mess. Grandi motivi abbiamo tutti per ringraziare gli Dei.

Sic. Son vicine alla città?

Mess. Stan per entrarvi.

Sic. Vogliamo incontrarle, e accrescer colla nostra gioia la gioia pubblica.     (andandosene)

(entrano le donne, accompagnate dai senatori, dai patrizi e dal popolo)

Sen. Mirate la nostra divinità tutelare, che ha salvata Roma; convocate tutte le tribù: ringraziate gli Dei; accendete fuochi di allegrezza, come in giorno di trionfo; spargete di fiori la loro via; superate colle vostre grida di riconoscenza le ingiuste grida che bandirono Marzio; richiamate colle vostre acclamazioni il figlio alla madre; gridate tutti: Salute, illustri Romane! grazie vi siano rese!

Tutti. Grazie, grazie, vi siano rese.

(alto squillo di trombe; escono in trionfo)


SCENA V.

Anzio. — Una piazza.

Entra Tullo Aufidio e seguito.

Auf. Ite; dite ai nobili dello Stato che sono giunto; porgete loro questo scritto; e dopo che l’avran letto, pregateli di radunarsi al Foro, dove confermerò, dinanzi ad essi e al popolo raccolto, le verità esposte nel foglio. Quegli ch’io accuso è già entrato in città per questa porta, e intende comparire dinanzi all’assemblea popolare, sperando aonestare con parole la sua condotta. Affrettatevi. (esce il seguito; ed entrano tre o quattro cospiratori del partito d’Aufidio) Siate i benvenuti.

Cosp. Qual è lo stato del nostro generale?

Auf. Quello d’un uomo a cui i benefizi son divenuti infesti, e che muore vittima della propria generosità.

Cosp. Nobile generale, se persistete nel disegno a cui avete voluto associarci, noi vi redimeremo dal pericolo che vi minaccia.

Auf. Non posso darvi alcuna risposta; ci comporteremo secondo troveremo il popolo disposto.

Cosp. Finchè saranno crucci fra Marzio e voi, il popolo ondeggierà incerto; ma la caduta dell’uno renderà il superstite erede di tutto il suo favore.

Auf. Lo so; e il mio disegno per trovar motivo d’abbatterlo è ben maturato. Io lo rialzai nella sua sventura, e posi il mio onore a statico della sua fede. Egli, così colmo di grazie, ebbe ricorso all’adulazione per ingrandire la sua nuova esistenza; carezzò e sedusse i miei amici; e per questa sola veduta ha, per la prima volta, piegato il suo carattere, che conosciuto era stato sempre innanzi per feroce, indipendente, indomabile.

Cosp. Allorchè brigava per ottenere il consolato, fu quella inflessibilità che glie lo fece perdere.

Auf. A ciò io veniva. Bandito pel suo orgoglio, è corso in mia casa ad offrire il capo alla mia spada, ed io l’ho accolto, e fatto compagno alla mia fortuna; ho lasciato libero sfogo a tutti i suoi desiderii; gli ho concesso di scegliere i miei migliori soldati per compiere i suoi disegni; ho altamente contribuito alla sua grandezza, mentr’ei mi riguardava superbo, come se io fossi stato un ufficiale volgare.

Cosp. Così di fatto si comportò; l’esercito ne rimase stupito: e, per ultimo, allorchè era fatto arbitro di Roma, e intendevano non meno al bottino che alla gloria...

Auf. Sì, per ciò sentir debbe la forza del mio braccio. Per alcune lagrime menzognere di una donna, egli ha venduto tutto lo sparso sangue, e tutte le fatiche della nostra grande impresa. Per ciò debbe morire, e la sua caduta rinnoverà la mia gloria. Ma udiamo! (suoni di trombe al di dentro e grida di popolo)

Cosp. Voi siete rientrato nella vostra città natale come un semplice corriere, senza che alcuno v’abbia fatto onore; ed ei torna fra un nembo d’acclamazioni che intronano l’aere.

Cosp. E quello stupido popolo, di cui egli ha uccisi i figli, si affatica e divien roco per celebrare le sue glorie!

Cosp. In ricompensa, ad opportuno momento, prima ch’ei si spieghi, e si propizii le turbe co’ discorsi, provi il vostro ferro; noi vi seconderemo. Allorquando giacerà sulla terra, voi narrerete la sua istoria come più vi converrà; e la vostra arringa seppellirà il suo corpo e le sue lodi.

Auf. Cessiamo dai discorsi. Ecco i Padri dello Stato.

(entrano i Padri)

Tutti i Padri. Siate il ben tornato nella nostra città!

Auf. Questo non meritava; ma, degni Senatori, avete letto lo scritto che v’inviai?

I padri. Sì.

Pad. E quella lettura ci costernò. Le colpe che avevam da rimproverargli prima, potevano, credo, facilmente dimenticarsi; ma finire quando avrebbe dovuto cominciare, sperdere il frutto de’ nostri apparecchi di guerra, facendo ricader su di noi tutto il peso di essa, e segnare un trattato con Roma quando Roma si arrendeva, questo è un delitto a cui non è alcuna scusa.

Auf. Ei s’avvicina; ora l’udrete voi stessi, (entra Coriolano a suon di trombe e a bandiere spiegate; la folla lo segue)

Marz. Salvete, nobili Volsci! ritorno vostro soldato, e reco un cuore non più tocco dall’amor di patria, che nol fosse quando uscii di questa città. Io vi sono sempre devoto e son parato ad obbedire ai vostri ordini. Vi debbe essere noto che ho cominciata l’impresa con buon successo, e che ho condotto l’esercito per via sanguinosa sino alle porte di Roma. Le spoglie che qui riportiamo vi compensano ampiamente delle spese sostenute. Abbiamo fatta una pace tanto onorevole per Anzio, quanto ignominiosa per l’eterna città. Eccovene il trattato, e gli articoli han la firma dei Consoli, dei Patrizi e del Senato.

Auf. Nol leggete, nobili Padri; ma rispondete al traditore, che egli ha abusato del potere eccessivo che gli avevate conferito.

Marz. Traditore! che ascolto!

Auf. Sì, traditore: Marzio è un traditore.

Marz. Marzio!!!

Auf. Marzio, Caio Marzio. Credi tu ch’io ti farò l’onore di chiamarti col nome che carpisti in Corioli? Furto fu quello, nè tu l’hai meritato. Udite la mia voce, Senatori e Capi di questo Stato; egli ha tradito vilmente i vostri interessi; e ceduto per alcune lagrime Roma, ch’era vostra. Vostra ell’era; e data fu da lui a sua moglie e a sua madre. Così ruppe egli i proprii giuramenti, e senz’adunare alcun consiglio di guerra, alla vista dei vani gemiti della sua nutrice, e dei clamori di alcune femmine, rinunziò ad una vittoria, ch’era vostra, con una debolezza che ha fatto arrossire per lui gli ultimi dell’esercito; mentre gli uomini coraggiosi si guardavano l’un coll’altro confusi di stupore.

Marz. Marte, l’odi tu?

Auf. Non nominare quel Dio; tu, fanciullo pusillanime, che fosti vinto da poche lagrime.

Marz. Ah Dei!

Auf. Sì, un fanciullo sei, e null’altro.

Marz. Vil mentitore, tu mi empi il seno d’una rabbia ch’esso non può più contenere. Io un fanciullo? Oh turpe schiavo!.... Perdonate, illustri Senatori; è la prima volta che ho conteso con parole. Il vostro giudizio, venerandi Padri, debbe smentire quell’abbietto; ed ei, che porta sul suo corpo le impronte del mio valore, vestigie vergognose che lo seguiranno fino al sepolcro, sarà smentito da voi.

Pad. Silenzio entrambi, e uditemi parlare.

Marz. Straziatemi, Volsci; immergetemi i vostri pugnali nel cuore... Fanciullo! Vile! Se scritti avete con verità gli annali della vostra storia, fu a Corioli che, simile ad un aquila piombante sopra uno sciame di colombi, io posi in rotta il vostro popolo: io solo lo dispersi.

Auf. Perchè, illustri padri, soffrirete ch’ei vi rammenti una vittoria che non dovè che alla cieca fortuna, e che vi coprì di ignominia? Udrete questo protervo ad insultarvi in faccia, vantandosi de’ vostri danni?

Cosp. Muoia per tale insulto.

Il popolo (confusamente). Facciamolo in brani: ei m’ha ucciso la figlia, m’ha ucciso il figliuolo, m’ha ucciso il padre, il parente.

Pad. Tacete; nessuno s’oltraggi. Silenzio. Egli è un prode guerriero, e il suo nome empie l’universo. Gli ultimi suoi falli verso di noi debbono essere giudicati imparzialmente. Aufidio, taci, e non accrescere i torbidi.

Marz. Piacesse agli Dei che egli stesse in mia balìa con sei de’ suoi più fidi, con tutta la sua schiatta; e ne farei giustizia!

Auf. Traditore insolente!

Cosp. S’uccida, s’uccida, s’uccida!     (Aufidio e i Cospiratori sguainano le spade, e uccidono Coriolano)

Tutti i Pad. Fermatevi, fermatevi!

Auf. Nobili Padri, uditemi.

Pad. Oh Tullo...

Pad. Un’opera hai compiuta, che farà piangere il valore.

Pad. Non calpestate il suo cadavere; calmate la vostra ira; riponete le spade.

Auf. Miei padri, quando saprete (in questo istante di furore, da lui provocato, impossibile mi sarebbe il parlarvi), quando saprete l’estremo pericolo a cui la vita di quest’uomo vi poneva, vi allegrerete di vederlo atterrato. Degnatevi inviarmi all’assemblea del Senato, e vi mostrerò la mia leale obbedienza, e mi sottoporrò al vostro giudicio più rigoroso.

Pad. Trasportate lungi quel corpo, e bagnatelo di lagrime. Egli sia riguardato come il più illustre estinto che mai araldo conducesse al sepolcro.

Pad. L’avventata sua tempera scusa per metà il prode Aufidio dal rimprovero che potrebbe meritare. Usiamo di questo avvenimento in nostro miglior vantaggio.

Auf. La mia ira è spenta, e mi sento pieno di dolore. Sollevatelo; porganmi aiuto tre de’ principali guerrieri; io sarò il quarto. Gli strumenti militari rendano suoni lugubri. Capovolgete le vostre picche: dimentichiamo che questa città racchiude mille donne ch’egli ha private di sposi, di figli, e che finora gemono addolorate. La sua memoria riceva da noi tutti gli ultimi onori. (escono, portando il corpo di Coriolano al suono di marcia funebre)

fine del dramma.

  1. Make the sun dance: e fan danzare il sole.


Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.