< Cronica
Questo testo è completo.
VIII X
Della aspera e crudele fame e della vattaglia de Parabianco in Lommardia e delli novielli delle vestimenta muodi.

Po’ questa cometa, della quale de sopra ditto ène, fu uno anno moito umido, moito piovoso. Abunnaro moite reume, moiti catarri nelle iente. E per tre vernate durao tanta neve, che esmesuratamente coperiva le citate. Moite case, moiti tetti in Bologna caddero per lo granne peso che·lla neve faceva. Anche le estate erano umide, sì che omo non poteva essire fòra de casa a fare sio mestieri e procaccio. Li campi non fuoro lavorati. Li grani e onne legume che fuoro seminati fuoro perduti, perché se affocavano per la soperchia umiditate, non se potevano procurare. Donne sequitao sterilitate e mala recoita. E per quella mala recoita sequitao la fame sì orribile che forte cosa pare a contare, a credere. Questa fame fu per tutto lo munno generale. Lo grano fu vennuto in Roma XXI libre de provesini lo ruio. Currevano anni Domini MCCCXXXVIII. Scrive Tito Livio che nello tiempo fu una fame nella contrada de Roma sì terribile che moita iente, presure perzone, ’nanti volevano perdire la vita, che vivere in fame. Donne abolveano lo cappuccio innanti delli occhi per non vedere loro morte e sì se iettavano nello fiume de Tevere e là affocati perivano, e collo perire remediavano la fame. In bona fe’, questo non viddi avenire in quello tiempo. Ma infinite femine fuoro le quale iettaro loro onore per avere dello pane. Moita iente vennéo soa franchia per lo pane. Fuoro vennute palazza, possessioni de campi e vigne, e dati per poca cosa, per avere dello pane. Granne era la pecunia che se numerava per poca de annona avere. Moita iente manicava li cavoli cuotti senza pane. La povera iente manicava li cardi cuotti collo sale e l’erve porcine. Tagliavano la gramiccia e·lle radicine delli cardi marini e cocevanolle colla mentella e manicavanolle. Anche ivano per li campi mennicanno le rape e manicavanolle. Anche fu tale patre che onne dimane a ciascheduno delli figli una rapa per manicare in semmiante de pane daieva. Anche manicavano la carne, chi ne aveva, senza pane. De vino fu bona derrata. Incresceme de contare tante tristezze. Le donne pusero ioso delle alegrezze e·lle cegnimenta e·lle adornamenta, vedenno la fame la quale sì terribilmente bussava. Chi abbe grano abbe tutte le adornamenta delle donne. In quello tiempo io me retrovai in Bologna e vedeva che quelli delle ville venivano in citate a comparare dello pane della gabella. Deh, como tornavano tristi, quanno non ne portavano! Manicava la iente pera secche e tritate, misticate colla farina, capora e vientri, anche lo sangue delli animali. E moite perzone fuoro trovate morte de fame. Moite perzone ivano gridanno de notte: «Pane, pane». De notte ivano, consideranno che erano perzone de alcuno lenaio; per la vergogna non volevano apparere; de dìe non volevano essere conosciute. Nella citate de Roma, se non fusse stata una nave de grano la quale succurze — per mare da Pisa venne —, tutta Roma periva. Doi miracoli granni incontraro in tiempo de così fatta carestia. Innella citate de Piacenza, in Lommardia, fu uno nobile omo de casa delli Visconti de Castiello Nuovo lo quale se trovava da vinti milia corve de grano. Era lo tiempo de maio, che la fava dao suso. Lo lunedìe fue che tutta Piacenza curze a soa casa, domannanno dello grano. Respuse lo nobile: «Sei livre voglio della corva». Lo martedìe venne la iente con sei livre. Quello li remannao senza grano e disse: «Sette livre ne voglio». Lo mercordìe tornao la iente per grano con sette livre. Quello disse: «Otto livre ne voglio». Lo iovedìe la iente veniva con otto livre. Quello ne domannava nove. Lo venardìe quelli ne vennero con nove livre de bolognini. Lo iniquo omo favellao e disse così: «Tornete a casa, iente molestiosa. Questo mio grano mai non venno, se de esso non aio dieci livre». Con granne tristezze fé tornare lo puopolo e·lla carovana a casa a sostenere fame. Ma lo buono e cortese Dio non voize così, ché·llo sabato ionze uno cavalieri, citatino de Piacenza — missore Manfredo de Lando avea nome —, con una nave de grano. Lo grano valeva livre cinque. La fava comenzava ad ingranare. L’aitro dìe lo grano fu a livre quattro. Lo terzo dìe fu a livre tre. Quanno lo nobile delli Visconti vidde questo, forte fu turvato. E incontinente tornao a casa e entrao in quello luoco dove sio grano era. E considerao la moita moneta la quale de quello grano àbbera auta, se avessi allargata la mano alli necessitosi. Puro favellao e disse: «Ahi grano mio, io so’ destrutto». E avenno la mente più a l’avarizia che alla pietate, iettao nello trave de mieso dello tetto, sopra lo sio grano, uno capestro e là, in mieso dello sio grano, se appese per la canna. Nella contrada de Roma, in uno castiello lo quale se dice Castiglione delli Alberteschi, incontrao un aitro miracolo, como io intesi da perzone fidedegne. Essenno questa terribile carestia, tutta la poveraglia de Roma, femine e uomini e zitielli, ne fuiro per le castella. Là se ne sparzero. In questo Castiglione fu uno che abbe nome Ianni Macellaro. E fu lo primo che a Santo Spirito de Roma donasse massaria de vestiame. Questo fu ricco massaro. Figlioli non avea, ricchezze moita: fanti, fantesche assai, pecora, vuovi, iumente, campi seminati, pozzi pieni de grano. Tutte queste cose Dio li consentìo. Quanno venne lo tiempo che la fava era verde in erva, onne massaro mannava uno vanno, che nulla perzona montassi in soa fava. Questo Ianni per contrario mannao lo vanno, che onne chivielli isse a sio campo de fava, aitro non sparagnassi che li fusti delle fave, manicassino allo piacere. Ora vedesi traiere de iente affamata. Corvinam servant pauperes famelici. L’oste pusero in quello campitiello. Per tutto dìe là demoravano a manicare. Lo patrone a cavallo in soa iumenta bene li visitava onne dìe e sì·lli salutava. Puoi li diceva che manicassino bene e portassino della fava a casa a loro piacere. Puoi dava uno panetto per omo. Allora tornava. In quello muodo consolava li bisognosi. Ora passao la carestia e venne lo tiempo della leta fertilitate. Li poveri a Roma tornaro. La fava de questo castiello fu carpita. Puoi fu vattuta. Li fusti della fava de questo buono omo fuoro puosti nella ara, nelli quali cosa nulla de frutto era. Mentre che li fusti se battevano, Dio immise la soa granne abunnanzia e frutto in quelli fusti. Ora vedesi fava abunnare. Tanta fu la fava, la quale da quelle gamme fu coita, che parze veracemente che la fava delli aitri castellani se partisse delle proprie are e venisse nella ara dove li fusti se vattevano. Così Dio liberamente mustrao che bene li piace la elemosina de buono core nello bisuogno e che esso cortesia fao a chi soveo alle necessitati aitrui e che per uno ne renne ciento, como nello Vagnelio dice. In questo tiempo, currevano anni Domini MCCCXXXVIII[I], dello mese de frebaro, la prima domenica de quaraiesima, quanno fu la orribile sconfitta in Lommardia, fra Como e Milano, nelli campi de Parabianco. La quale novitate fu per questa via. Puoi che Veneziani àbbero ottenuta la vittoria sopra missore Mastino della Scala de Verona e àbbero Trevisi e sì cassaro tutti li sollati da pede e da cavallo, questi sollati, partennose e non avenno suollo, fecero la granne compagnia. Loro capo e connuttore era uno famoso Todesco — Malerva avea nome —, prode de perzona, saputo de guerra. Cavalieri a speroni de aoro ce erano assai. Erance lo conte Olando e lo conte Guarnieri, li quali da puoi fuoro capora de compagnia. Erano da tre milia cavalieri e da quattro milia pedoni, fanti, masnadieri, senza aitra innumerabile iente la quale sequitava. Uno cacciato da Milano — missore Lodrisi Visconte avea nome — penzao de tornare in Milano, avenno questa compagnia e aitro sio esfuorzo. Così fece. Fece granne promissioni allo Malerva e quetamente mosse soie masnate. Ordinatamente passa per lo padovano, canto lo veronese, per mesa Lommardia. Nullo contradicente, ne vennero fra Milano e Brescia, puoi a Bergamo. E passaro ad uno luoco lo quale hao nome la Colomma de Chiaravalle. Lo luoco ène granne e ricco, luoco de frati bianchi de santo Bennardo. Là se posaro. Là li trassero per succurzo suoi amici, suoi benvoglienti. Là, de fòra alli maiuri campi, stenne paviglioni. Currevano anni Domini MCCCXXXVIII[I], dello mese de frebaro. Mentre questa granne moititudine per la contrada passava, forte tremavano le citati. Granne era la guardia la quale dìe e notte se faceva. Puoi che là, alla Colomma, fu ionta questa brigata, allora dechiarato fu che missore Lodrisi voleva tornare in casa per forza. Allora missore Azo Visconte era signore de Milano e della casa delli Visconti. Questo missore Azo subitamente sollicitao tutte le citati de Lommardia le quale stavano suiette a Milano. Puoi sollicitao tutti li suoi parienti. Puoi sollicitao tutti suoi amici. Non fina de mannare lettere e ambasciatori. Puoi sollicita lo puopolo de Milano. Puoi trasse fòra sio granne esfuorzo de cavalieri e de pedoni e puseli in campo. Là erano Bresciani, Trentini, Bergamaschi, Comani, Lodesani. Granne era la turba. La maiure parte erano villani. In campo iaccio doi uosti, quella de missore Lodrisi e quella de missore Azo Visconte. In mieso de questi doi uosti staco li campi de una villa la quale se dice Parabianco. Lo tiempo era de vierno e era quella neve granne con quella umiditate della quale ditto ène de sopra. E era sì esmesuratamente granne la neve, che non lassava fare vattaglia ordinata. Fi’ allo inuocchio omo se affonnava nella neve. Granne era lo infango. Le arme e le soprainsegne stavano imbrattate. Spesse voite se battevano questi uosti insiemmora. Puoi tornano a loro paviglioni. Tre dìe duraro questi tumuiti. La banniera dell’una parte e dell’aitra era lo campo bianco e·llo serpente nero, lo quale aveva in canna uno omo nudo. Una notte fu tanta la stanchezze delli uomini dell’oste de missore Azo, che più de setteciento ne fuoro scannati dormenno. Allora la dimane non fu demoranza nulla. L’una parte e l’aitra se acconcia. Vedese tromme sonare, vedese guarnire de capitanii. Ora se fiero insiemmora. Tutto lo campo de Parabianco stao pieno de commattenti. Tutto dìe durao la vattaglia. Vedese ferire de lance, spade e mazze. Mortale ène quella vattaglia. Granne suono fao. In quella vattaglia fu sconfitto missore Lucchino, zio de missore Azo, capo della iente, e preso per la perzona e fu vincitore missore Lodrisi con sio capitanio, lo Malerva. Quarantaquattro centinara de uomini fuoro occisi, senza li affocati in fiume e nelli gorgi della neve: Comasini, Trentini, Bergamaschi, iente de villa, da pede la maiure parte, li quali per lo impedimento della neve non potevano la voita dare. Trentasei centinara de cavalli fuoro stempanati, senza li moiti feruti. Ora vedi como succurze la ventura a missore Lucchino! Stava drento da Milano missore Azo armato con tutto lo puopolo. Per via nulla voleva essire. Stava reservato alli bisuogni dereto un sio parente, missore Ianni dello Fiesco de Genova, sio quinato, con cinqueciento Borgognoni de bona taglia in soa compagnia. Como la novella ionze della sconfitta, così essìo fòra de Milano con cinqueciento Borgognoni e con CCCC Todeschi e ionze alli campi de Parabianco. La prima cosa, raccoize tutti quelli li quali fuiti erano dello stormo. Così li aionze ad uno, quelli che potéo. La secunna cosa, provise como stava l’oste e vidde che la iente della compagnia non stava ordinata, anche stava sparza per lo campo, chi de qua, chi de là, sopra la guadagna dello spogliare. La terza cosa, compusese con Malerva e ordinao che non commattessi, e in precio li donao dieci fiaschi pieni de ducati, in semmiante de presentarli buono vino de Malvascia. Granne capestro ène la moneta. Allora prestamente sonao soie tromme e deose sopra ad essi. Poca resistenzia abbe. E deo per terra lo confallone de missore Lodrisi e de Malerva e prese missore Lodrisi per la perzona. In quella resistenzia fu occiso missore Ianni dello Fiesco de Genova. Puoi che fu fatto presone missore Lodrisi e fu rotta soa schiera, tutto lo campo fu vento senza aitra contradizzione. Tornao in Milano con triomfo e granne danno; ca, como ditto de sopra ène, quarantaquattro centinara de perzone moriero, senza li aitri pericolati delle ferute. Vedesi caricare che·sse faceva. Avevano le carra piene de queste corpora morte e sì·lle traievano dello campo e sì·lle portavano a loro sepoiture. Missore Lodrisi la vita non perdìo, ma fu renchiuso in perpetuo carcere in un castiello lo quale se dice Santo Columbano. Là dato li fu onne diletto lo quale demannava: de sonare, cantare, magnare, de femine; salvo che essire non poteva de presone. Quelli sollati della compagnia fuoro tutti derobati. Perdiero arme e cavalli. Io ne viddi venire de questi bene da doiciento cinquanta a pede. Tale avea speroni alla correia, tale una targetta, tale uno cimiero e alcuno menava ronzino, secunno le connizione. Alli Borgognoni fu data paca doppia e granni doni. Malerva fu lassato. Pochi dìe stette che missore Azo Visconte, signore de Milano, morìo e succedéo innella signoria missore Lucchino, sio zio. Ora comenza a signoriare missore Lucchino Visconte, lo quale abbe la maiure parte de Lommardia: Parma, Piacenza, Lode, Bergamo, Brescia, Milano, Crema e Civitale. E visse in signoria anni in tanta pace e iustizia, che non se trovava in terreno chi se crullasse. Coll’aoro in mano iva l’omo franco. Fu omo severo senza alcuna pietate. Mai non perdonava. Secunno lo peccato, secunno la fallenza puniva. Questo fu de tanta crudelitate che fece manicare alli suoi cani uno guarzone todesco lo quale li aveva presentate cerase, perché aveva feruto un sio cane lo quale li aveva abaiato. E non abbe remissione né per puerizia né per caritate dello patre, lo quale era conestavile, sio amico, né per moneta. Questo missore Lucchino, benché guardie avessi de uomini da pede e da cavallo a muodo regale, nientedemeno abbe una speziale e nova guardia con seco. La guardia soa erano doi cani alani granni e terribili, gruossi como lioni, lanuti como pecora. L’uocchi avevano rosci e terribili. Questi doi cani alani sempre lo sequitavano per la corte, l’uno dalla parte ritta, l’aitro dalla parte manca. In mieso dello palazzo avea una forte torre. dentro dalla torre era una spaziosa cammora. Quanno missore Lucchino se posava in quella cammora, li cani staievano descioiti. Sempre circondavano la torre. Nulla perzona a l’uscio se poteva accostare. Denanti alla torre stava la granne sala. Alla porta stava la guardia. L’aitra guardia stava alla porta generale della corte nello terrio. L’aitra guardia staieva nella piazza. Quanno missore Lucchino manicava solo, staieva a tavola, li cani tuttavia con esso, granni quarti de carne dao ora a l’uno, ora a l’aitro. Quanno missore Lucchino staieva in pede, la moita baronia li faceva intorno piazza con silenzio per temenza delli cani. Nullo se crulla, nullo parla; ca se per ventura lo signore un poco guardasse alcuno con malo esguardo, sùbito li cani li forano sopra in canna, derannolo per terra. De tale guardia canina nullo se maravigli, ca questa cosa nova non ène. Scrive Valerio Massimo che Massinissa fu rege de Numidia e fu moito amico e fidele serviziale dello puopolo de Roma. Questo re Massinissa sempre avea in guardia de soa perzona doi granni cani, granni mastini, e non se renneva securo senza essi, benché avessi guardie de pedoni e de cavalieri, avesse lo potente e ricco reame de Numidia, sopra tutto questo avesse la bona amicizia de Romani, per li quali era signore, era salvo, securo e temuto. Alcuna voita fu demannato questo perché faceva. Respuse e disse: «L’omo, che vole essere libero naturalmente, non sao mantenere fidelitate. Lo cane, lo quale non conosce libertate, è fidele a sio patrone». Anche questo missore Lucchino fu omo moito iusto. Né per aoro né per ariento lassava de fare iustizia, sì che soa terra era franca. Abbe uno sio figlio vastardo: missore Bruzo avea nome. A questo missore Bruzo donao la signoria de Lodi. A quella citatella lo mannao a regnare. Accadde che uno ientile omo occise un aitro. Fu preso e devease decollare. Li parienti de questo malefattore parlaro con missore Bruzo e dissero così: «Missore Bruzo, a ti bisognano denari. Non perda la perzona lo presonieri vuostro. Ecco quinnici milia fiorini apparecchiati». Questo odenno missore Bruzo de colpo fu mollato. Cavalcao da Lode a Milano. Fu denanti allo patre, sì se inninocchiao e domannao grazia, perché esso era povero cavalieri. Poteva guadagnare quinnici milia fiorini, se allo malefattore salvava la vita. Questo odenno lo patre, missore Lucchino, deo de cenno a un sio donziello, che li portassi dalla cammora un sio elmo. L’elmo era moito forbito e relucente. De sopre era uno bello cimiero, de velluto vermiglio copierto. Eranonce scritte lettere de aoro. Quanno l’elmo fu venuto, disse: «Bruzo, lieii queste lettere». Le lettere fuoro lesse. Dicevano: «Iustizia». Disse: «Dunqua noi in apparenzia la iustizia portemo, in effetto no? Che vòi che quinnici milia fiorini pesino più che·llo elmo mio, lo quale pesa più che·lla mea signoria? Va’ e torna a Lode e fa’ la iustizia. E se questa non fai, io la farraio de ti». Moito voleva che issi omo netto in sio terreno. Moito amao lo puopolo menuto. Resse anni e in soa signoria morìo e rassenao la bacchetta megliore e maiure che non la prese. In questo tiempo comenzao la iente esmesuratamente a mutare abito, sì de vestimenta sì della perzona. Comenzaro a fare li pizzi delli cappucci luonghi comenzaro a portare panni stretti alla catalana e collati, portare scarzelle alle correie e in capo portare capelletti sopre lo cappuccio. Puoi portavano varve granne e foite, como bene iannetti e Spagnuoli voco sequitare. Denanti a questo tiempo queste cose non erano, anche se radevano le perzone la varva e portavano vestimenta larghe e oneste. E se alcuna perzona avessi portata varva, fora stato auto in sospietto de essere omo de pessima rascione, salvo non fusse Spagnuolo overo omo de penitenza. Ora ène mutata connizione, che a deletto portano capelletto in capo per granne autoritate, varva foita a muodo de eremitano, scarzella a muodo de pellegrino. Vedi nova devisanza! E che più ène, chi non portassi capelletto in capo, varva foita, scarzella in centa, non ène tenuto cobelle, overo poco, overo cosa nulla. Granne capitagna ène la varva. Chi porta varva ène temuto. Qui me voglio un poco stennere. In uno paiese fu uno rege lo quale moito onorava li filosofi e l’uomini li quali soco savii e dico bone paravole. Questo re moito cercava de avere compagnia de uomini virtuosi. In soa corte accadde un granne filosofo. Moito fu alegro lo re della presenzia de questo buono omo e tanto maiuremente quanto questo filosofo aveva buono aspietto e pienamente responneva ad onne questione che ad esso se faceva. Ora vole lo re onorare la bontate, la scienzia, la vertute, la quale in questo filosofo se trovava. Invitaolo ad uno solenne convito de diverzi civi delicati e buoni, allo quale convito fu tutta soa baronia. La sala, dove lo magnare se faceva, fu granne e larga. Le tavole messe atorno atorno. Tutto lo palmento della sala era copierto de tappiti, li quali tappiti erano de pura e netta seta. Le mura intorno erano ammantate de celoni riccamente lavorati a babuini messi a seta ed aoro filato. Lo cielo de sopra era de cortina, fatto a stelle d’aoro. Moiti panni tartareschi là sparzi erano. Voleva lo re che quello convito solenne fussi. In capo della sala stava una tavola piccola. A questa tavola sedevano lo re e lo filosofo soli. Viengo li serviziali, delicato portano manicare. Mentre che·sse manicava, lo re non perdeva tiempo, anche dilientemente domannava lo filosofo che li rennessi rascione de certi dubii. Lo filosofo, como prudente perzona, sufficientemente responneva. Soie resposte fortemente cadevano nello animo dello re, ca·sse accostavano allo vero. Donne lo re spesse fiate diceva: «Bene dicesti. Piaceme». Infra tanto allo filosofo venne voluntate de sputare. Teneva in vocca una granne spurgata una ora grossa. Più tenere non lo poteva. Fore conveniva che uscissi. Guardava lo filosofo intorno allo muro e per terra, cercava lo luoco dove potessi sputare. Non vede luoco da ciò; ca, como ditto ène, onne cosa era coperta de nuobili tappiti. Allora voize lo filosofo lo capo e abbe veduta la faccia dello re. Lo re aveva una varva moito nera, granne e larga; la longhezza fi’ a mieso lo pietto, le banne fi’ nelle ionte delle spalle. Pareva uno varvassore. Considerao lo filosofo che quella varva fussi lo più brutto luoco de quella sala e più atto a recipere lo sio sputo. Fermaose lo savio filosofo e sputao in mieso della varva dello re. Quanno lo re se sentìo ciò, fortemente stette turbato e regoglioso e disse: «Questo perché hai fatto?» Respuse lo filosofo e disse: «De sotto, da lato, de sopre, da onne canto me staco panni messi ad aoro. Non ce ène luoco alcuno laido da sputare potere, salvo questa toa varva: è lo più laido luoco che nce sia. Perciò ce aio sputato, ca omo deo sputare nello più laido luoco». A queste paravole lo re non responneva, ma stava muto. Allora lo filosofo lo toccava in la spalla e disse: «Di’ ca bene dico. Di’ ca te piace». Ora se questi, li quali portano la varva, staiessino a lato a questo filosofo, recìperano quello che recipéo lo re.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.