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II.
Del resto a Parigi i due sposi menavano una vita molto mondana.
Il borghese ricco che conduce la sua novella sposa all’immancabile e prefisso viaggio di circolazione in Italia, fermandosi in ogni città per quanto tempo prescrive il programma, visitando i musei ed i monumenti che gli indica la Guida banale o di cui sentì a parlare da un reduce ed amico borghese, per mostrare al ritorno che egli ha visto quanto si doveva: questo borghese ricco e fortunato può godere anche la bella felicità di passare ignoto, perduto nella folla dei viaggiatori, indisturbato. L’impiegatuccio governativo che per le sue nozze prende venti giorni di permesso e vuole scialare quattrocento lire di risparmi, va a vivere otto giorni a Roma in una camera mobiliata, ed entra, esce, pranza dove vuole, si diverte come può, si sbizzarrisce, sempre con la sposina appiccicata al braccio, senza che il mondo si occupi di lui e gli possa dettar legge. Il professore che sposa di luglio per approfittare delle vacanze, può andarsene gravemente in Isvizzera con la sua signora, perché il viaggio sia anche istruttivo, può dare alla sposina lezioni di geologia alpina, di storia elvetica, di botanica montanina, senza che alcuno disturbi il suo insegnamento o gli occhieggi la sua gentile allieva. L’artista innamorato può menare la sua donna nel morbido nido preparatole a Firenze, a Nizza, a Sorrento, a Cannes, in un castello feudale della Savoia, per elevare alla gioconda ed eterna natura l’eterno cantico dell’amore, per creare l’amore, per vivere l’amore...
Ma la nobiltà, che ha inventato la graziosa costumanza del viaggio di nozze, una costumanza che per lungo tempo fu suo privilegio, non ne gode i preziosi vantaggi. Col viaggio di nozze la nobiltà non si risparmia le lunghe cerimonie, le visite importune ed indiscrete, la pubblicità sfacciata ed irritante; essa non può godere l’incognito, l’amabile solitudine. Essa viaggia, è vero, nel vagone riservato; ma sino all’ultimo istante ha dovuto sopportare le noie di una lunga funzione, la stringata etichetta, i freddi complimenti a fior di labbra, dalla più fredda risposta. Attorno al vagone, ad ogni stazione, si affollano venditori, facchini, impiegati, curiosi, sfaccendati che hanno saputo esservi lì dentro viaggiatori eccezionali. All’arrivo nella prima città, nel più splendido albergo, il migliore appartamento è riscaldato, illuminato, ornato di fiori che sono sempre grossi e triviali; i servitori attendono nell’atrio, pronti, ossequiosi; nel gran salone il maestro di casa, colla sua corretta figura di falso gentiluomo, il mento e le labbra rasi, le basette all’inglese, si espande in troppo numerose offerte di servigi e presenta il libro dei viaggiatori, dove il marito è obbligato a scrivere, con un senso di disgusto, il nome di sua moglie ed il suo. L’indomani, con la posta, arrivano i giornali della città che si è lasciata, dove il cronista, e perchè di natura adoratore dell’aristocrazia, e perchè a secco di materia, si fa un dovere di schiccherare, sotto il vecchio e storpiato titolo High-life, una descrizione minuta e pomposa dello sposalizio, della bellezza delle dame, della loro eleganza, con qualche frase sconveniente come questa: Il volto della sposa spesso si infiammava della tinta del pudore; ovvero: Si vedeva che lo sposo era molto innamorato. E la sera stessa i giornali del paese annunziano il passaggio degli sposi, coi titoli, la paternità, e vi aggiungono in fondo un augurio convenzionale ed inutile, o qualche scherzetto che vuol parere spiritoso ed è volgare. Così la pubblicità aumenta, cresce, si diffonde. Impossibile rimanere ignorati. Poi, la famiglia aristocratica è una vasta rete, sottile talvolta, ma estesa, dalle maglie resistenti, unite fra loro solidamente. Si hanno amici, parenti, semplici conoscenze, alti personaggi nelle città da percorrere; e bisogna vederli, riceverli, ricambiare loro le visite, accettare gli inviti premurosi, trattenersi con essi, perdere il tempo per compiacenza, deviare dal viaggio talvolta, per semplice ossequio alle relazioni più o meno amichevoli. A Roma si rimarrà due giorni di più per visitare una zia, che è badessa in un convento, dove si può entrare solo in quel tal giorno e non in un altro; a Firenze si dovrà piegare per Lastra a Signa, dove è la villa della marchesa tale, cugina, che andrebbe molto in collera, se si vedesse trascurata; a Bologna la baronessa tale, amica del padre o dello zio, dà un grande pranzo agli sposi; ed in tutti i paesi, i nuovi ed i vecchi amici che li attendono alla stazione e vanno a riaccompagnarveli. Impossibile, impossibile sfuggire al mondo esterno.
Uguale nel fondo, ma con singolare varietà d’incidenti, fu il viaggio attraverso l’Italia dei due giovani sposi, Marcello e Beatrice. Lui, fornito di moltissima pazienza, trincerato nella sua compitezza sorridente, soffriva internamente a vedere distrutto nella realtà l’ideale di un viaggio stupendo, un ideale amato e carezzato nella mente; lei accettava con la massima buona grazia qualunque nuovo intoppo, qualunque nuovo fastidio, senza prendersene per nulla, amando egualmente il viaggio rapidissimo e quello lento, ad intervalli irregolari; adoperando, come sempre, quella giusta misura, quella medianità di carattere che la faceva contentare di tutto. Egli, annoiato, uggito, anelava di arrivare a Parigi, illudendosi di ritrovare almeno là, nella palazzina di via Helder che il duca Revertera aveva comperata in altri tempi, quella solitudine tanto desiderata e sperata. E fu questa un’altra illusione partita presto presto a raggiungere le altre. Appena a Parigi, come a Roma, a Firenze, a Bologna, come in tutta Italia, la vita mondana se li prese e li travolse in un turbine.
Una mattina, per esempio, con la contessa De Beauvilliers, una napoletana maritata a Parigi, con tre o quattro altre signore ed altrettanti signori, andarsene ad Auteuil a bere l’apocrifo latte, che una lattaia molto più apocrifa vi offre: le signore in abiti corti e chiari, i grandi cappelli carichi di fiori, le scarpette alla paesana, il bastoncino col pomo d’oro delle escursioni campagnole; i signori fumando sigarette senza posa, chiacchierando vagamente e burlandosi di quella campagna artificiale. Alle undici a casa, senza riposare un sol momento, spogliarsi e vestirsi in abiti diversamente eleganti e andare a far colazione nel sobborgo di San Germano, dalla canonichessa di Saxen, un’allegra vecchia peccatrice che ha serbato, dei suoi peccati e della sua gioventù, il bel peccato della gola e l’amore ai giovani.
Dopo, al trotto della carrozza scoperta, recarsi dalla principessa Ourlicioff, una russa cosmopolita, che ha circolo in quel giorno, in quelle ore, e rimanere là una oretta, in una conversazione vuota ed eccessivamente graziosa, brillante di forme, gentile ed inutile. Di nuovo in carrozza, al bosco di Boulogne, al solito giro intorno all’immobile laghetto, per vedere, per farsi vedere, perchè Marcello scambi ogni due minuti grandi scappellate con le conoscenze vecchie e nuove, perchè Beatrice saluti col piccolo moto della testa, perchè il marito non mostri di trasalire quando sente dire nell’equipaggio vicino, fra due giovanotti: Voilà la belle italienne; toujours avec son mari: oh! ces maris!, perchè debba tollerare che lo sguardo inconscio, tranquillo ed onesto della donna sua senza macchia, s’incontri con quello ardito e bruciante pel kohl della splendida etèra, per ritornare in città nelle malinconiche ore del tramonto, dove si annega nel bigio che diventa nero, ogni splendore, ogni fiammeggiamento, ogni sorriso. Da capo la signora duchessa si mette nelle mani della sua cameriera per andare a pranzo dal marchese e dalla marchesa di Monfort-Leguy, un pranzo di legittimisti placidi, punto offensivi, che non amano parlare di politica. Alle nove si passa nel gran salone, i vecchi giuocano al picchetto, le giovani signore ed i signori conversano di soggetti interessanti come quelli del circolo Ourlicioff, ma vi sono le notizie del pomeriggio, notizie fresche. Al Bosco, oggi, due scandali: un orribile usciere ha osato arrestare e condurre a Clichy il viscontino Kergaröet de la Roche, col pretesto che egli avesse duecentomila lire di debiti insoddisfatti: un viscontino così spiritoso, che galoppava tanto bene sul suo cavallo arabo! Il duca padre interverrà? No, è stanco di pagare, non interverrà. Altro scandalo: la contessa Gabrielli, un’italiana, è svenuta nella sua carrozza, avendo incontrato suo marito con...; i giovani sorridono e mormorano fra loro il nome, fingendo di non volerlo far udire alle signore; le signore agitano vivamente i ventagli e fingono di non udire, mentre ognuna sa benissimo di chi si tratti. Alle undici il thè; a mezzanotte la riunione si scioglie. Beatrice e Marcello rientrano in casa; egli è stanco, infastidito per la continua tensione della volontà, per il viso cortese dovuto fare a tante persone, a tante cose che egli non ama, per la giornata intiera, miseramente perduta pel suo amore; ella un po’ stanca, è vero, ma senza dar segno di noia, pronta a ricominciare il giorno seguente, ma senza mostrare di desiderarlo.
Ma questa è una sola delle giornate combattute e travagliate. Ma la vita mondana non è solo questa giornata. Vi è altro ancora. Vi sono i grandi concerti per beneficenza, dove tutta l’aristocrazia parigina e straniera interviene, dove ci è la sfilata dei bei nomi, dei bei visi, dei magnifici strascichi, dove si va a sentire da qualche celebrità, creata e protetta in quell’ambiente, una musica posticcia, artefatta, preparata ed accomodata secondo il gusto speciale del pubblico. Vi sono le conferenze letterarie dell’autore più in voga, in quel mondo, il Legouvé, per esempio, uno della vecchia e buona schiera idealista, un oratore che sa dire cose tenere e delicate, o gravi e profonde, con quella serenità affettuosa di forma che incanta l’ascoltatore. Vi sono le esposizioni di pittura, dove conviene fare atto di presenza, per fermarsi davanti al grande o piccolo quadro su cui fervono le discussioni dei critici artistici, senza guardare nessuno degli altri, quasi non esistessero; ovvero far cadere l’attenzione del pubblico sopra uno di essi, di alto prezzo, solo pel cartellino bianco che vi si fa apporre: Acheté par monsieur le duc de.... Per la giornata, sempre vi sono le lunghe visite che la signora deve fare a Worth, per discutere con lui quattro nuove combinazioni di abbigliamento, mentre il marito è altrove, impaziente a sbrigare affari di minima importanza; vi sono i doveri religiosi che si compiono in una bella chiesa di falso stile greco, come la Maddalena o San Tommaso, la chiesa aristocratica, per sentire un predicatore elegante, che parla piano, con uno stile annacquato, delle gioie mistiche del paradiso, asciugandosi la fronte con un fazzoletto di batista profumato. Se l’inverno è mite, con quelle piogge quiete e dolci, con quelle rischiarate di cielo pallidamente azzurro, allora s’improvvisano le gite di tre o quattro giorni nei castelli delle vicinanze, dove una parigina diventata castellana fa gli onori del suo dominio ai cortesi invasori; si va a Versailles, alla Camera, dove ogni tanto quei buoni deputati concertano qualche grande rappresentazione, che faccia riempire di belle dame le tribune. Se l’inverno è rigido, allora viene in moda la contraffazione russa; pellicce dappertutto, slitte, pattini, partite di sdrucciolamento sul ghiaccio del laghetto al Bosco, mentre sulla riva si accendono grandi fuochi per riscaldare i freddolosi. Così fugge via la giornata.
Per la serata, è un altro affare. Quella lì dovrebbe essere lunghissima o almeno ce ne dovrebbero essere due per ogni giorno, a voler esaurire un programma molto complicato. Vi sono i teatri: anzitutto l’Opéra, dove bisogna assolutamente farsi vedere nei giorni consacrati, andando in un palco di proscenio, molto in vista, la signora perfettamente in luce, il marito discretamente immerso nella penombra, a sentire una musica abbastanza vecchia, cantata da artisti sfiatati, mentre gli occhialini delle poltrone di orchestra analizzano la duchessa in ogni lineamento, dalla fronte alle mani. Se non si vuol mostrare di non avere alcun gusto per le belle lettere, vi è la sera che si deve passare al Teatro francese per applaudire Got e Coquelin alle commedie del grande Molière, per veder morire la signorina Croizette nella Sfinge di Feuillet e per sentire come Sarah Bernhardt dice a Mounet-Sully, nell’Hernani: Vous êtes mon lion superbe et généreux! Poi la commedia nuova di Sardou al Gymnase, l’operetta di Offenbach o di Lecocq alla Renaissance, l’operetta ardita di parole, di musica e di gambe rivestite di maglia. E quando s’interrompe per poco la serie dei teatri, vengono le riunioni di confidenza, dieci o dodici signore, dove si arrischia ancora una mezza toilette di giorno, dove si balla un sol giro tra amici; un grado di più, la commedia di salone, recitata da quella cara marchesa che pare non abbia fatto altro in vita sua che l’attrice, e dal conte che riesce tanto bene nelle parti di amoroso: abito chiaro di stoffa, molto lungo, scollatura in quadro, gruppo di fiori al petto; dopo la rappresentazione un po’ di ballo, ma proprio poco, sino alle due del mattino, per non andare troppo presto a casa, col rischio di scandolezzare altamente il nobile portinaio.
Ed infine il ballo, il grande ballo, dove anche bisogna andare, per tema che non si supponga qualche cosa di molto offensivo per i due giovani sposi: che siano cioè troppo innamorati, che siano gente di poco spirito, che il marito tormenti la moglie con la gelosia, che la signora abbia brutte spalle o pochi gioielli. La signora duchessa perderà tre ore con Worth per discutere la stoffa, la foggia, i fiori, le gradazioni dei colori; il giorno del ballo non andrà al Bosco, entrerà in un bagno profumato alle tre, dormirà sino alle cinque, pranzerà alle sei, andrà a vestirsi alle otto, finirà alle undici. Ci vuol del tempo per ridurre la ricca massa dei capelli alla sua minima espressione, in un’acconciatura dove la medesima semplicità è un’attrattiva di più; per le mille cure preliminari dell’abbigliamento, per indossare l’abito, senza guastarne le pieghe, per allacciare il corsetto in modo che assetti come la corazza di cui porta il nome, o come il guanto da cui si dovrebbe chiamare. La signora duchessa andrà incontro al marito, bella, fresca, ammaliante, ed egli avrà il grato ufficio di abbottonarle i molti bottoni dei guanti, di infilarle la pelliccia ampia, dalle larghe maniche, perchè non guastino l’acconciatura di sotto; il
marito le darà il braccio per le scale di casa sua, per le scale del palazzo dove si dà il ballo. Poi termina il suo compito: egli può, anzi deve restare, ma è libero di ballare, di giuocare, di passeggiare, di annoiarsi sino alle cinque del mattino, ora in cui i ballerini hanno la somma compiacenza di ridargli la duchessa. Egli se la porta a casa, ella si mette da capo nelle mani della cameriera, ed il giorno seguente si alza all’una, rosea e riposata, mentre egli fu forse tormentato dall’insonnia. I grandi balli nell’inverno a Parigi succedono ogni tre giorni.
Infine, dopo tutto questo, vi è ancora Parigi da vedere. Parigi la immensa, Parigi la multiforme, Parigi che alle centinaia di novità vecchie aggiunge in un giorno le centinaia di novità nuove, la città antica e la città moderna, la città bassa e la città alta, la parte di osservatore che vince spesso quella di attore, e quella di attore che prende la rivincita. La palazzina di via Helder non tratteneva per molte ore nelle sue mura i due sposi; era un continuo schiudersi e sbattersi di porte per lasciare uscire i padroni, che rientravano solo per un momento, per fuggirne via daccapo. Era seducente la camera nuziale in bianco e rosa pompadour, erano belli i salottini civettuoli, la stanza da pranzo in legno di quercia; ma la vita esteriore li vinceva, la grande vita annegava la piccola. Nella casa, nei mobili, nell’aria forse ci era qualche cosa di estraneo, di freddo, di indifferente, come di disabitato: quasi si comprendeva che gli ospiti erano di passaggio, frettolosi, in un’epoca di transizione, con le valigie aperte, pronti ad andarsene come erano venuti, senza attaccare un ricordo in un angolo qualunque. Come in tutte le case, per farsi amare dalla casa, per renderla viva, bisogna viverci ed amarla. Al postutto, quello che mancava lì dentro, era l’intimità; l’intimità morale che nasce dalla intimità materiale e viceversa, dalla compagnia di tutte le ore, di tutti i momenti, dalle stesse azioni compite nello stesso tempo, nello stesso luogo, dalla bella solitudine che pare così animata in due, dagli occhi che si guardano senza altri occhi importuni, nelle ore taciturne ed eloquenti, dalle mani che si toccano, dai pensieri che si seguono, fanno la stessa via e s’indovinano. Tutto questo è distrutto, abbruciato dalla vita mondana.