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IV.
Sulla soglia, per la fessura della porta socchiusa, mademoiselle Jeannette parlottava col cameriere del duca.
— Che c’è? — chiese la duchessa, senza distogliersi dallo specchio.
— Il signor duca attende la signora duchessa nel salone.
— Sono accesi tutti i lumi nel salone?
— Sì, Eccellenza.
— Benissimo. Dite al signor duca che ora lo raggiungo.
Infatti, dopo cinque minuti ella attraversò la camera sua, due salottini oscuri e schiuse la porta del salone tutto illuminato. Marcello era in piedi, presso un tavolino. Si voltò vivamente al rumore; ma scorgendo la moglie si arretrò d’un passo, turbato, smorto, con la voce che gli si soffocava nella gola.
Beatrice era vestita pel grande ballo in costume che dava quella sera la colonia italiana. Indossava l’abito della gran dama del cinquecento, la moda artistica e ricca che fece irresistibili le belle italiane del Rinascimento. Era di una stoffa preziosa, di un broccato dal fondo giallo, ricamato a grandi fiori di un roseo acceso; una stoffa forte, ma pieghevole, che formava linee larghe e nobili; il busto lungo, scollato profondamente in quadrato, con una trina antica ingiallita che ne orlava la scollatura, con le maniche strettissime sino al polso, non aveva altro ornamento che la perfezione dell’attillatura. La gonna si slargava appena, rialzata e sostenuta sul lato destro da una borsa in trama d’oro lasciando vedere un poco della sottogonna in raso bianco, e liberandosi poi in uno strascico lunghissimo. Al collo nudo un monile d’oro antico, con rubini e topazi; sui capelli bruni, rialzati e pettinati secondo il gusto dell’epoca, un diadema ducale, alto, tempestato di rubini e di topazi. E più nulla. Una semplicità magnifica. Ma nella luce dei candelabri moltiplicata da quella degli specchi, il giallo del broccato diventava oro, il roseo dei fiori, anzichè smorzarsi, si caricava di colore e sembrava un incarnato vivo: l’oro era rutilante, il roseo dei fiori era fiamma, l’intiero vestito era il trionfo dei due colori splendidi, colori carnali, colori fulgidi, colori riccamente voluttuosi. Brillava la borsa in trama d’oro, brillava la catenella d’oro a cui era sospesa, una catenella che cingeva la vita ed i fianchi; sulla bianchissima pelle del collo i rubini ed i topazi mettevano delle macchiette rotonde, rosee e bionde che si spostavano ad ogni movimento; il diadema scintillava nel suo oro e nelle sue gemme come un’aureola; lo strascico pareva la coda fiammeggiante di una cometa. E mentre Beatrice sembrava una figura di gentildonna evocata dal grande secolo, era intanto una donna viva, bellissima, palpitante. Tutto quell’oro, quel rosso carico, quello scintillìo di pietre preziose, colorivano le sue guancie, accendevano una luce nei suoi occhi grigi: era donna, non figura di quadro. Le labbra arcuate, sollevate agli angoli, avevano lo stesso misterioso e tacito sorriso con cui una donna, Gioconda, l’amante di Leonardo da Vinci, è dipinta al Louvre; ma Beatrice Sangiorgio aveva per sè la vita. Era una donna giunta al punto massimo della sua bellezza, acconciata e vestita in modo che questa bellezza veniva ad essere sviluppata, moltiplicata, illuminata, resa sfolgorante.
Così era apparsa a suo marito. Erano venti giorni dal ballo dell’ambasciata italiana, venti giorni in cui egli aveva cercato di evitare ogni momento di colloquio insieme. Si erano visti sempre dinanzi alle persone, sempre in giro, in una serie mai interrotta, affannosa di piaceri, prendendo pochissimo riposo, non fermandosi mai, in una vita agitata e tormentosa. Ora egli era giunto a temere l’intimità, la solitudine: temeva della sua passione. La sentiva in se stesso profonda, compressa, latente, ma pronta a scoppiare e ne aveva paura. Poi si lusingava ancora, vagamente, senza una speranza decisa, affidandosi al giorno che veniva. Forse in un’ora lontana, il cuore di sua moglie sarebbe stato suo: ci voleva lunga pazienza nell’amore. Forse in quel turbine di lusso e di divertimenti, dove molti dimenticano o si stordiscono, egli avrebbe potuto dimenticare o stordirsi. Intanto metteva il mondo fra sé e sua moglie, occupandosi di cose esteriori, consumando la sua energia, sciupandosi di giorno, per poter dormire le poche ore della notte. Si era dedicato sul serio, come a una cosa che lo interessasse moltissimo, a questo ballo in costume che dava la colonia italiana; con altri giovanotti si era combinata la quadriglia di onore: la coppia Aldemoresco sarebbe vestita nel costume Direttorio, incroyable e merveilleuse; la coppia Revertera-Sangiorgio da dama e cavaliere del cinquecento; le altre coppie, così e così. E mentre aveva procurato a se stesso quattro o cinque giorni di febbrile occupazione, ora, ad un tratto, Beatrice gli compariva dinanzi nel fascino irresistibile della sua persona, per risvegliare la potente passione assopita.
— Quanto sei bella! — mormorò sottovoce, non potendo staccare gli occhi da quella fulgida figura.
— Ti pare? — chiese ella, passeggiando dinanzi agli specchi per vedere l’effetto del suo abbigliamento.
— Bellissima, bellissima! — balbettò egli, senza sapere quello che si dicesse.
Beatrice si era fermata davanti ad uno specchio e stringeva l’anello della sua borsa.
— Non ti sembra, Marcello — disse, senza voltarsi — non ti sembra che le dame del cinquecento portassero anche un pugnaletto? un pugnaletto alla catenella della borsa?
— Non so; forse.
— Allora il mio costume è incompleto. Ma tu — soggiunse lei, dopo essersi rivolta a guardarlo — tu stai benissimo.
Egli sorrise ironicamente. Quel complimento lo irritava. Era vero intanto; perchè era anche lui un perfetto cavaliere. Vestiva di velluto verde oscuro con frangia di argento; il giaco lunghetto, con la bottoniera in traverso da destra a sinistra, col cappuccio soppannato di seta bianca dal beccuccio lunghissimo, con la cintura borchiata in argento che lo stringeva alla vita e donde pendeva il pugnale; la maglia di seta verdone oscuro; i calzari allacciati, di cuoio bigio, preparato e profumato; sui capelli arricciati, posta un po’ indietro, la calotta di velluto verde, con due penne ricurve di airone. Anche lui pareva disceso da una tela del Tiziano, col suo volto pallido, gli occhi profondi, la purezza del profilo ed il fine disegno della bocca.
Seguì un momento di silenzio. Beatrice era rimasta tutta pensosa.
— Marcello, non avresti tu un altro pugnaletto simile al tuo?
— Per che farne?
— Per sospenderlo alla mia cintura. Ti assicuro che ci vuole.
— Volete il mio, madonna? — chiese egli, come se scherzasse. — Io mi disarmo per voi e metto ai vostri piedi la mia difesa.
— No, tu non puoi farne a meno. Intanto mi ci vorrebbe....
— Se voi porterete un pugnaletto, madonna Beatrice — diss’egli, inchinandosi con un po’ di sarcasmo — ognuno avrà il diritto di chiamarvi crudele e feroce.
— Tu scherzi, Marcello, ma ciò mi accuora....
— Vi è dunque qualche cosa che possa accuorarvi, madonna? Molto strana cosa invero: un pugnaletto. Ed un uomo no, madonna?
Beatrice lo guardò, ma non gli rispose, lasciando cadere la domanda fatta con tono aspro. Egli si sentì colpito da quella fredda occhiata. Spesso, in presenza di lei, non sapeva padroneggiare le sue parole; ma la ferita che egli voleva produrre si apriva dapprima nel suo cuore, e tutta l’amarezza che versava in quello che diceva, aumentava la propria amarezza. In un istante passava da un eccesso di irritazione a un eccesso di tenerezza.
— Pensavo — disse Beatrice — come usavano camminare insieme i cavalieri e le dame del cinquecento. Entreremo noi nella sala, dandomi tu il braccio o la mano? Avremmo dovuto accertarci di questo.
— La mano, madonna, anzi solamente la punta delle dita. Concederete voi tanto onore al vostro cavaliere?
— Certo. Anzi non devi tu ballare con me la quadriglia d’onore?
— Saremo ridicoli, ve lo assicuro, duchessa — disse Marcello, stringendo i denti per collera.
— E perchè? — chiese Beatrice con aria ingenua.
— Nulla, nulla — rispose egli, reprimendosi. — È ora di andare.
L’orchestra invisibile sbuffava nei lieti scoppi di un valtzer tedesco, il Bel Danubio azzurro di Strauss; le coppie passavano velocemente, ma senza troppo affrettarsi, essendo moltissime; sul tappeto morbido si soffocava, si spegneva il rumore dei passi leggieri: solo le coppie portavano seco, erano portate in una corrente d’aria vorticosa; solo il fruscìo degli strascichi, un fruscìo breve e saettante, faceva vibrare i nervi di Marcello. Egli stava nel vano profondo di un balcone, un vano semi-oscuro, celato dalle cortine, celato da un grande trionfo di rami, foglie verdi e camelie. Sedeva lì dietro, solo, dimenticato, felice di essere tale, felice di quel cantuccio quieto; vedeva una parte della sala da ballo, il resto gli veniva nascosto dall’angolo del muro. Così i ballerini, coppia a coppia, gli comparivano dinanzi di scatto, traversavano leggermente lo spazio che egli vedeva, poi scomparivano, quasi si sprofondassero per ricomparire dopo un minuto, per isparire da capo, come fantasmi, come esseri sovrannaturali, o più semplicemente come quei fantoccetti che scattano dall’interno di una scatola e vi si nascondono, con l’aiuto di una molla. Marcello seguiva con l’occhio i ballerini, si fissava sopra una coppia per vedere quando passava nella sua parte del salone che gli era invisibile, per attenderla e salutarla al suo ricomparire. Tutto ciò per arrestare i suoi pensieri erranti, che lo conducevano chi sa dove, per dominare quello stordimento che lo aveva colpito, vedendo quella sera Beatrice nella provocazione della sua bellezza. Ogni tanto arrivava a distrarsi; l’aspetto del ballo era splendido, i costumi che gli fuggivano dinanzi erano ricchissimi, di una fedeltà storica inappuntabile, le stoffe di broccato, le sete, i rasi, i velluti, le trine, le frange, i gioielli appagavano la sua fantasia. Il marchesino Potenziani, da patrizio veneto del duecento, ballava con la contessa Gabrielli, vestita da israelita, da bella Samaritana, a cui prestavano il suo volto ovale e pallido, i grandi occhi socchiusi, tagliati a mandorla, la bocca un po’ grande e fiera. Il conte di Valnac, da Marco Bozzari, aveva fatto pace con la Turchia, rappresentata dalla viscontessa Latour di Aurray, da odalisca. E paggi, cavalieri, giullari, albanesi, margravii, e ancora una sfilata rapidissima che si trasportava il pensiero di Marcello. Ma tratto tratto, ad intervalli regolari, passavano un moschettiere del secolo di Luigi decimoterzo, il barone Massari, ed una dama del cinquecento, madonna Beatrice Sangiorgio-Revertera; allora da capo tutto l’abito della duchessa pareva una fiamma, i rubini e i topazi le circondavano il capo ed il collo di luce biondo-rosea, lo strascico volava, si avvolgeva. si svolgeva scintillando come la coda di una cometa, e Marcello provava di nuovo la medesima impressione, si turbava, il suo pallore si accresceva, gli battevano le palpebre. Si sentiva per un momento quasi abbruciato da quella visione. Provava il bruciore negli occhi, sulle labbra, nel petto, nel cervello, dentro sé stesso. Quel valtzer non finiva mai, la dama tornava a passare, ed egli attratto, fascinato, sospirava vedendola scomparire, rimpiangendo il suo tormento, anelando di vederla riapparire, per avere un altro abbagliamento, per sentirsi consumare in quello splendore. D’un tratto il movimento cessò come per incanto: il valtzer era finito. Le signore ora passeggiavano lentamente per la sala, al braccio del cavaliere, cercando un posto per sedere. La dama si era perduta, era partita per le regioni ignote, Marcello non la vedeva più. Si alzò e si appoggiò allo stipite del balcone per potere scorgere tutta la sala.
— Che fate qui, bel cavaliere? — gli chiese una merveilleuse, Fanny Aldemoresco, addolcendo la pronuncia del suo erre. — Vi annoiate mortalmente, n’è vero?
— Non più del solito — rispose Marcello, abbozzando un sorriso.
— Con la marsina, non avete deposto la vostra aria di sognatore, Sangiorgio. Orsù, a un ligio cavaliero altro si conviene. Non sognavano tanto, mi pare, quelli del cinquecento. Si divertivano, vivevano bene, amavano molto.
— E questo io fo. Pocanzi guardavo la mia dama a ballare.
— Sareste voi geloso, Sangiorgio? — domandò Fanny, gittandogli uno sguardo scrutatore.
— Forse lo sarei.
— Come?
— Ho detto che lo sarei.
— Non capisco. Preferisco chiedervi: come vi sembro così vestita?
— Adorabile.
— Si dice adoabile. Un po’ ridicola? Ma è la moda. Del resto, è chic. Alessandro è bellissimo. Perchè non uscite di là dietro, Sangiorgio? O vi piace la contemplazione di queste orribili camelie, attaccate col fil di ferro.... vi ricordate le camelie di Napoli? Uscite di là dietro.
— Cedo a voi, signora.
— Si dice signoa. Ma voi non cedete a me. Ora dovete ballare. Non sentite il preludio della quadriglia?
— Ebbene?
— È la quadriglia d’onore, la nostra famosa quadriglia. Ora, invece di guardarla a ballare, ballerete con la vostra dama. Io ballerò con Alessandro. Vedete, laggiù vi è Beatrice, con mio marito. Ci fanno segno, mi pare. Come è ridicolo Sandro da incroyable! Ridicolo, ma bello. Li raggiungiamo?
Invece Marcello non si moveva. La vedeva avanzarsi verso di lui, venire a lui, guardandolo, sorridendogli, quasi provocandolo con lo sguardo. Una voce interna gli diceva: A che t’impazzisci, sciocco, di amore? Perchè ti struggi? È tua, è tua; portala via. Dieci volte durante quella quadriglia, quando le toccava la mano, quando le offriva il braccio, quando ella si allontanava, quando ritornava al suo fianco, quel pensiero gli aveva sconvolto il cervello; dieci volte quando l’avea stretta fra le braccia, la sala era scomparsa ai suoi occhi, ed egli avrebbe voluto fuggir via, portandosi il suo amore. Ma lei lo guardava, lo dominava con la quiete dei suoi occhi grigi, con la instancabilità del suo perenne sorriso. Nel galop finale egli perdette la testa, strinse Beatrice come se volesse soffocarla e le disse nel viso con un alito caldo:
— Non sorridere così. Vieni via. Non vedi che ti amo?
La duchessa seduta sul divano ai piedi del suo letto, era ancora tutta chiusa nel suo mantello foderato di pelliccia, col capo ravvolto nello scialle di trina nera. Marcello passeggiava su e giù nella camera; Beatrice lo guardò un momento, poi crollò lievemente il capo come persona che si rassegni.
— Andate pure, Jeannette — disse alla cameriera che aspettava, con gli occhi ancora imbambolati dal sonno. — Farò da me.
Lo scatto del lucchetto con cui la porta si chiuse dietro a Jeannette, riscosse Marcello; egli si fermò dinanzi a Beatrice.
— Hai rinviata la cameriera? — le chiese.
— Sì, moriva dal sonno. Poi, credo che ti annoiasse.
— Grazie — rispose egli brevemente con voce secca, e riprese la sua passeggiata. Ella si tolse lentamente dal capo lo scialle che si attaccava a tutte le punte del diadema, sbottonò il mantello e lo rigettò indietro un poco, quasi non avesse la forza di alzarsi e di deporlo. Sul volto le si leggeva una grande lassezza.
— Tu sei stanca, Beatrice? — disse Marcello, accorgendosene e venendo a sedersi accanto a lei.
— Un poco. Quel ballo è stato lungo.
— Oh, eterno, eterno!
— Sì, sono stanca — ripetè ella a voce bassa. — Ma è strano: ho ballato anche meno delle altre volte, eppure....
— Non saresti tu ammalata, per caso, amor mio?
— Io ammalata? — riprese ella vivamente, quasi la supposizione la offendesse. — Non sono ammalata. Mi sento bene; sto benissimo, io.
E si alzò come di scatto, per provare la sua forza ed il suo benessere, liberandosi del mantello che andò a buttare sopra una sedia. Rimase come era vestita pel ballo; ma nella luce modesta di una sola lampada, il giallo ed il roseo del vestito si appannavano dolcemente. Pure a Marcello riapparve come la visione abbagliante della sera; si alzò e la raggiunse.
— Beatrice.... — le mormorò nell’orecchio.
— Ebbene? — rispose ella, voltandosi senza guardarlo, contando le pietre del suo diadema che aveva tolto dal capo.
— Nulla — fece lui, e la parola gli fischiò fra i denti, mentre si allontanava bruscamente.
Beatrice tornò a sedersi all’angolo del divano. Ora schiudeva il fermaglio del suo monile. Marcello le si accostò di nuovo e d’un tratto:
— Almeno volessi tu dirmi perchè non mi ami, Beatrice! — esclamò con violenza.
— Ma io t’amo, Marcello — e alzò la testa, guardandolo con sorpresa.
— Senti, Beatrice, senti — rispose egli con voce affannosa: — se tu mi amassi, la nostra vita sarebbe diversa. Noi potremmo essere felici. Siamo ancora giovani; la gioventù è bella e potente; è suo il gaio sole, è sua la ricca natura, sua la gioia, sua la speranza, sua la balda sicurezza dell’avvenire. Il sogno più ardito non pare ad essa impossibile. Ma senz’amore la gioventù si scolora, s’illanguidisce, ed il lento corso dei suoi anni rassomiglia troppo a quello della vecchiaia....
— Io t’amo, Marcello.
— Se tu mi amassi, Beatrice, questo titolo ducale, l’ossequio del mondo, l’alta società in cui viviamo, le ricchezze acquisterebbero altro valore agli occhi nostri. Poter gustare insieme i più delicati piaceri, vederti soddisfatta nei tuoi capricci più strani, circondarti di quante fantasie costose il lusso realizza, poterti stare daccanto sempre, libero, senza cure, senza noie, vederti inchinata, ammirata, invidiata a tuo padre, a me — ecco che cosa fanno il grado e le ricchezze. Ma per dar loro tale prestigio ci vuole l’amore....
— Io t’amo, Marcello.
— Se tu mi amassi, Beatrice, noi avremmo una casa. Invece viviamo nella via, nella carrozza, nei teatri, nei saloni altrui. Ha dolci attrattive la casa quando ci si venne sposi e si ritorna ad essa volentieri, la si ritrova con infinito diletto, ci si viene pel riposo, per la quiete. Ma noi no: noi la fuggiamo, noi vi rientriamo con indifferenza, noi non abbiamo nè casa, nè famiglia, perchè non abbiamo amore....
— Ma io t’amo, Marcello.
— Non è vero, tu menti — scoppiò egli a dire.
— Duca, io credo che voi insultiate vostra moglie — disse ella con la massima freddezza.
— Oh! perdonami, perdonami! — gridò Marcello, buttandosele ai piedi come un disperato — sono un fanciullo sciocco e cattivo. Ti amo e ti offendo; vorrei baciarti e ti mordo. Non incolparmi. T’amo, lo sai. Cerco domare la mia natura ribelle, ma è così potente il fascino che eserciti su me, che gli sforzi sono inutili. Perchè eri così bella questa sera? Così bella e così indifferente? Ti offendo di nuovo? Non puoi tu perdonarmi, non lo puoi?
— Ebbene, sì, ti perdono — rispose ella, voltando il capo dall’altra parte.
— Non è così che devi dirmelo...
— Ma come vuoi che io te lo dica?
— Non vi è più affetto nella tua voce che nel tuo cuore, Beatrice. Io combatto ogni ora con la tua indifferenza, io spreco il mio amore, la mia devozione per riscaldare il tuo freddo cuore.... Io ti prego, io mi umilio innanzi a te, come il cristiano alla Madonna; ma che vuoi tu che io faccia? Qual donna sei dunque tu?....
— Taci, Marcello, taci — mormorò con voce strozzata la duchessa.
Si era fatta pallidissima. Le mani prosciolte, tremavano lievemente; il corpo si abbandonava sulla spalliera del divano; gli occhi socchiusi, così rivolti al cielo, che a momenti le pupille scomparivano, vedendosi solo il bianco della cornea.
— Che hai tu, Beatrice, che hai? Ti senti male? Sono io che ti fo male?
— Nulla, nulla — disse ella, rimettendosi. — Non sei tu, è la stanchezza.
Egli rimase esitante, guardandola ancora; quell’istante di commozione che ella aveva provato, avea calmato il suo impeto. Pure egli sentiva che quella notte era decisiva e volle andare sino in fondo.
— Ascoltami — le disse, sedendo di nuovo accanto a lei, parlando lentamente — e procura d’intendermi più che io non dica. Tu credi che il nostro matrimonio sia stato fatto dal caso, dalle convenienze scambievoli di due famiglie. T’inganni. Io t’amo, ti ho sposata per amore, sperando di ottenere il tuo. Non mi è riuscito e ciò getta lo scompiglio nell’animo mio. Sono un sognatore, forse; forse ho delle pretese ridicole; se qualcuno sapesse dei fatti miei, mi terrebbe degno di una sprezzante pietà. Ma non si cangia la mia natura, ma non si muta il profondo amore che ne è l’essenza. È il tuo amore che io voglio, simile al mio. Lasciamelo sperare per l’avvenire: quanto si può fare per meritarlo, lo farò. Sii buona; non ti chieggo molto. Dimmi che si potrà dileguare un giorno la tua apatia, che l’affetto può sorgere nel tuo cuore, che tu un giorno potrai amarmi....
— In questo giorno che tu dici, debbo io amarti diversamente, più di oggi, Marcello? — chiese ella con aria riflessiva.
— Ma non è amore questo tuo, è la più crudele indifferenza, è l’apatia del cuore, è il sonno dell’anima!
— Credi tu proprio che sia così?
— Io ne sono certo — rispose Marcello, con la più desolata sfiducia.
— Ebbene, sia. Forse io m’inganno. Va bene. Ma sono franca. Non potrò mai essere diversa per te, Marcello.
— Oh! non dirlo, non dirlo! Pensa all’amarezza infinita delle tue parole, pensa a quello che distruggi in me....
— Non posso amarti diversamente, o di più.
— Non oggi, non ti chiedo oggi. Fra un anno, fra cinque.... per un’ora, per un solo istante....
— Nè oggi, nè dopo. Non posso, Marcello.
— Miserabile creatura che sei! — gridò egli, maledicendola con la voce e col gesto.
Un’alba rossiccia cresceva, cresceva sino a diventar giorno. Impallidiva la lampada. Marcello si alzò dalla seggiola e, passando dinanzi alla moglie, le disse con tono breve:
— Oggi partiremo per Napoli.
Ella s’inchinò senza rispondergli.