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IV.
— Vorresti andare a Nizza?
Ella scuoteva il capo, con un’aria di stanchezza. Il viaggio per Nizza era così lungo, così lungo...
— Ti piacerebbe una delle riviere di Genova, a Varazze?
No, no, era sempre troppo lontano...
— A San Giorgio, nel castello ducale?
Niente, non le piaceva.
— E dove dunque, cara?
— In nessun luogo, qui. E chiudeva gli occhi e si assopiva di nuovo in quella invincibile sonnolenza donde egli non osava ridestarla. Intanto il medico, interrogato, aveva risposto vagamente:
— Malattia di languore... palpitazioni nervose... anemia... cambiamento d’aria, in campagna.
Ma Beatrice ricusava di muoversi. A poco a poco il languore la vinceva, ella non usciva più, non aveva più la forza di passeggiare. Ogni fatica, la più piccola, le era insopportabile. Giovannina, al mattino ed alla sera, doveva rimanere a lungo per vestirla e spogliarla, le mani stracche di Beatrice non potevano più stringere neppure i nastri di una sottana. Sovente Giovannina doveva arrestarsi perchè Beatrice si sedeva per riposarsi dalla fatica di essere stata cinque minuti in piedi. Marcello non aveva il coraggio di riparlarle di villeggiatura, di campagna; ma giammai avrebbe avuto quello di proporle Sorrento. Temeva risvegliare ricordi dolorosi. Ebbene, un giorno, all’impensata, Beatrice riaprì i suoi grandi occhi e gli disse:
— Manda la servitù a Sorrento, a Villa Sangiorgio. Vi potremo andare fra otto o dieci giorni.
In quei primi giorni del maggio, Sorrento rappresentava il colmo della primavera, nella giovinezza allegra del suo verde e dei suoi fiori. Nei declivii delle sue colline, negli splendidi giardini, nella vegetazione esuberante che scende fino alla costa a coronare la cima delle roccie ed allungarsi in braccia di verde giù per la parete a picco, vi era un abbandono generoso, una profusione magnifica della natura. La vegetazione si stendeva, si sbandava, rifluiva da tutte le parti. Sulla strada maestra, fra i viottoli biancastri e polverosi del brecciame, sorgevano dei fili d’erba; dovunque fosse un pezzettino di terreno quanto un’unghia, nasceva una pianticina. Ma i vasti alberghi di Castellamare erano quasi deserti; lo Stabia’s Hall, enorme baraccone di legno, aveva un’aria goffa, tutto chiuso; da Castellamare a Sorrento le ville avevano le porte serrate a catenaccio, le gelosie sprangate; solo in capo a qualche viale appariva un giardiniere in maniche di camicia, cappello di paglia, un rastrello in mano. I villeggianti non conoscono che l’autunno della campagna, la triste e ultima stagione che abbassa sul verde il suo velo grigio di malinconia; la primavera la passano in città, inconscii dell’immensa fioritura, nella temperatura incerta, nelle vie asciutte ed aride della città. Beatrice e Marcello, come procedevano nel loro lento viaggio, pensavano che sarebbero stati molto soli e se ne allietavano. Nel pomeriggio tranquillo, Beatrice si sentiva ristorata, quasi migliorata. La vettura scoverta saliva al passo, e Beatrice aveva aperto il suo ombrellino foderato d’azzurro per ripararsi dal sole. Non si voltava mai indietro per guardare, fissava gli occhi sul prossimo gomito della via sinuosa che le stava davanti. Marcello guardava lei un po’ dubbioso.
— Possibile che non si ricordi? — pensava egli fra sè.
Ma Beatrice pareva non si ricordasse punto; nella brezza crepuscolare che si levava, un'ombra rosea saliva a colorirle leggiadramente le guancie.
— Ti stanca forse questo andar troppo lento? Vuoi far affrettare?
— No, mi sento bene così.
— Tu guarirai a Sorrento. Mi par già di vederti risanata.
— Sì, lo credo.
Ma intanto ambedue pensavano a quella notte lunare, in cui avevano viaggiato insieme tanto lontani, tanto indifferenti. E Marcello si tormentava fra sè:
— Ella ricorderà.
Beatrice ricordava, è vero. Ma non trovava in sè la forza di una reazione. Molte fonti di vitalità erano esaurite in lei. A certi pensieri, a certi sentimenti che nulla risvegliavano in lei, ella sentiva l’atonia del suo spirito. Non aveva più l’impeto per sbalzare sotto il ricordo della gelosia. Così, quando passarono davanti a villa Torraca, tutta chiusa, ella chinò gli occhi, ma nessuna impressione si dipinse sulla sua figura che Marcello studiava con ansietà. Solo, entrando nel viale di villa Sangiorgio, ella si rigettò indietro, quasi volesse fuggirne: fu un brevissimo moto di terrore. Per la serata e per la notte, nel suo nuovo appartamento, ella fu molto triste, molto triste, con certe idee lugubri, nere, che Marcello non arrivava a scacciare. Tutto le sembrava uggioso, disadatto, comune, senza gusto. Le mancavano moltissime cose che aveva a Napoli. Non si quietò che a poco a poco, quando Marcello le promise che tutto sarebbe venuto all’indomani, come al fanciullo si promette quanto desidera per non farlo piangere più. Nei giorni seguenti si rimise alquanto; sentendosi meglio, scese nel parco a passeggiare; nel risalire la scala, dovette fermarsi più volte, perchè non poteva respirare. Solo dopo una mezza settimana di riposo potette tentare l’impresa di salire sul terrazzo per la scaletta a chiocciola, dagli scalini troppo alti. Marcello l’accompagnava, come sempre, dandole il braccio, portandola quasi. Lì sopra sedette nella stanzetta rotonda e girava lo sguardo intorno a ritrovare ed a ricucire i brandelli laceri del suo passato. Stettero lungo tempo colà. Marcello era agitato, oppresso, provando nell’anima un subitaneo rimorso, il rimorso di tutto il passato che rinasceva possente in quei luoghi dove si era svolto. Due volte fu sul punto di parlare, di dire a Beatrice: perdonami. Lo trattenne una falsa vergogna, un vivo timore di suscitare una scena dolorosa. Poi Beatrice aveva l’aspetto placido. Certo, ella non pensava a tutto questo; sarebbe stato cagionare veramente una crisi di ricordi, di rimpianti. Non parlò; non se ne pentì che più tardi.
— Apri il pianoforte, suona qualche cosa, Marcello.
— La pigra! Saresti tu a dover fare della musica.
— Tu sai bene che non posso, amore — rispose ella, con un pallido sorriso.
— Appena lo potrai, mi renderai ad usura quello che mi devi.
E con quella grazia svelta del gran signore cui tutto è facile, egli si pose a suonare qualche cosa di molto vivace.
— No, no, va piano, tu mi stanchi — esclamò Beatrice, turandosi le orecchie.
Ed egli fece gemere il pianoforte in una réverie di Schumann. Si arrestò: Beatrice piangeva.
— Perchè piangi?
— La musica mi commuove. Non suonare più.
Prima di scendere giù, ella si fermò un momento sul terrazzo a guardare la villa Torraca. Di nuovo Marcello volle chiederle perdono, gettandosi a’ piedi di lei. Gli apparve così abbattuta, così debole che represse per la terza volta il suo impeto.
Ma la giocondità della primavera, l’aria leggera e fragrante, la pace della villa Sangiorgio non fecero migliorare Beatrice. Ella perdeva sempre più le forze. Per pochi passi era stracca, ritornava al suo seggiolone, vi ricadeva con una espressione dolorosa di abbandono. Si addormentava spesso; in quel lieve sonno tutta la sua figura prendeva una immobilità dura ed uniforme, la bocca appena schiusa, le palpebre socchiuse, la testa inclinata sul lato destro. Quel sonno faceva pena. Svegliata, conservava quella immobilità di tratti, quasi si fossero fermati nei loro moti, con gli occhi fissi e vitrei. Il volto s’era fatto d’un pallore giallo, opaco. Ella però, invece di dimagrire, ingrassava. La finezza dei lineamenti si perdeva in un gonfiore di malaugurio. Giovannina aveva dovuto allargare le vesti da camera. Ella non poteva più soffrire il busto, l’affanno del respiro era troppo forte. Non si cibava quasi più, solo sorbiva con avidità grandi tazze di latte fresco. Pure non si lagnava di nulla, il che rincorava Marcello. Egli non vedeva alcun fenomeno molto allarmante. Attribuiva a debolezza, a languore, ad anemia quel regresso lento della vita. Qualche volta era preso da un senso di spavento; poi sorrideva di sè stesso. Talora, quando la vedeva così ritirata in sè stessa, l’anima assente, tanto nascosta da sembrare partita, gli pareva che ella avesse per sè sola un grande segreto, un impenetrabile segreto che li divideva, che le suggellava le labbra, ed egli sentiva il bisogno di ricondurla a sè, chiamandola per nome: essa non gli rispondeva. Marcello tornava a chiamarla due o tre volte: ella pareva che si destasse.
— A che pensi?
— Non so — rispondeva Beatrice abitualmente con un gesto incerto.
Oppure:
— Con chi stai, Beatrice?
— Con te — ed un fittizio lampo di vita, destato dall’amore, le illuminava la fisonomia.
Egli si chinava e la baciava in fronte. A quel contatto un sospiro profondo sollevava il petto di Beatrice.
Le notti diventavano specialmente penose. Le era dolorosissimo sdraiarsi sul letto; affondava nei cuscini, ci affogava. Sul lato sinistro era impossibile giacere. Sentiva materialmente gonfiarsi il suo cuore. Trovava la forza per balzare dal letto. Vegliava sul seggiolone, con qualche breve intervallo di sonno. Per lo più stava presso il balcone, a fissare i punti d’oro brillanti delle stelle. Le notti di maggio erano soavissime, con i mormorii del parco, coi lievi sospiri aleggianti d’intorno, con gli scrichiolii delle foglie, con qualche rapido battere d’ala; dapprima ella trovava tutte queste cose molto belle: comprendeva la loro poesia. Anche quando aveva obbligato Marcello a riposare ed era rimasta sola, le ore non le sembravano molto lunghe. Ma subito un rimpianto amaro le veniva per ogni bella cosa che aveva dattorno, la sua mente si perdeva nell’aumentare le infinite felicità della terra, il mondo era troppo splendido, troppo magnifico, la vita avea troppo valore; l’istinto invincibile della gioventù che non si rassegna al male, che si ribella al dolore, che si dibatte contro la morte, scoppiava in lei potentissimo.
— Come è possibile, Dio mio, come è possibile!? — sclamava ella, alzando le braccia al cielo, per una richiesta disperata.
E si affidava sempre ad una provvidenza, ad un caso, all’ignoto indomani, ad una guarigione problematica, a quella speranza così facile a nascere, così dura a scacciare. Come il sole sorgeva, in quel risveglio della giornata, ella dimenticava le paure e le angosce della notte. Si addormentava per poco, calmata dalla bellezza della natura, quasi che un balsamo fosse piovuto sulla sua ferita. Quando si risvegliava, nel pieno mattino primaverile, in tanto lusso di vita, si sentiva sempre meglio, quasi di buonumore, quasi rinnovata. Erano le migliori ore della giornata, quelle in cui Marcello la credeva ristabilita; ma la speranza decadeva lentamente con la giornata. Come s’appressava la sera, Beatrice s’accasciava, quasi che le cadesse sull’anima tutta la tristezza della luce che muore.
Venne un giorno in cui le parve scorgere una lieve migliorìa nel proprio stato. Respirava con una certa facilità, il moto del cuore si faceva quasi regolare. Cercava sempre di rimaner sola, per contare, nel silenzio, le pulsazioni di quel grande ammalato. Le paragonava col polso, contando, ricontando, tentando la pruova più volte, in tutti i modi. Infine il miglioramento vi era. Non osava ancora credere che potesse durare, ma già nel suo pensiero s’ingrandiva e batteva le ali la speranza. Esitava, dubitava, ma il suo dubbio diventava dolce di fronte alla cupa certezza della morte. Poi vi era qualche altro segno: le ombre brune che ingrandivano ed incavavano gli occhi, si rischiaravano un poco; il colorito plumbeo della palpebra pesante si molceva; gli angoli gialli del viso s’imbiancavano di nuovo. Era un cangiamento ancora indistinto, ancora molto piccolo, ma non isfuggiva al suo sguardo ansioso che studiava lo specchio. Lo spirito contristato si rinfrancava e così pareva che la migliorìa si estendesse. Ella si arrischiava a camminare nell’appartamento, si allontanava dal seggiolone per quanto più poteva: lo odiava adesso quel seggiolone di cattivo augurio che pareva l’attendesse, la volesse, la stringesse nelle sue braccia per cullarla, per vincerla, per addormentarla nell’ultimo sonno. Dopo due o tre giorni, ella assicurò Marcello che si sentiva proprio meglio; che voleva rivivere; che voleva godersi con lui quella fiorente campagna di Sorrento. E gli ridomandava notizie di questa cosa o di quell’altra, della tal persona, di quella giornata, di quella lettera: ricominciava ad interessarsi al mondo circostante.
— Quando starò bene... — principiavano così tutti i suoi discorsi.
— Quando starai bene... — era l’eco, il ritornello di suo marito, che si affidava ciecamente in quella migliorìa.
Scompariva in lei quella indifferenza suprema, per cui la mente sembra già staccata dalle cose terrene, quel disinteressamento per cui il morente par già fatto cosa di un’altra sfera, pare già lontano, trattenuto appena da un filo invisibile. Beatrice si riattaccava agli incidenti della giornata, tornava a subire le influenze esteriori, riprendeva il suo posto nella grande agitazione, nell’urto continuo degli interessi umani. Aveva chiesto a Marcello le lettere di Mario Revertera; sorrise ironicamente alla noncuranza con cui suo padre sminuiva i timori del genero sulla salute della figlia: «Scrivi a papà che sto meglio, molto meglio, che non si dia alcun pensiero», aveva ella detto, con un movimento di fierezza a suo marito. L’orgoglio innato le faceva disprezzare la compassione superficiale di suo padre. Un giorno che Marcello le aveva nominato a caso Amalia Cantelmo, ella aveva mal celato il suo fastidio a tale discorso.
Ora guardava l’arredamento delle stanze, formando altri progetti. Ancora non poteva camminare molto, nè disporre nulla, ma vi si sforzava. Una volta compì lentamente, a riprese, la grande fatica di trasportare certi vasettini di piante microscopiche, da una giardiniera all’altra di un salotto; si affaticava, si sedeva un istante a riposare, poi ricominciava. L’ultimo cadde dalle sue mani stanche e si spezzò in terra. Ella rimase a mirare i cocci, un po’ triste. All’ora della colazione o del pranzo, adesso, accompagnava suo marito nella stanza da pranzo, gli sedeva di fronte, consolata di vederlo pranzare con buon appetito: ella non prendeva quasi nulla ancora, ma spilluzzicava qua e là, per fingere di mangiare, persuadersi di aver appetito. Le portavano sempre dei cestelli di magnifiche frutta; queste le piacevano. Le rinfrescavano la bocca.
— Quando starò bene... — continuava a ripetere, nell’arditezza della sua speranza che cresceva.
— Quando starai bene... — diceva Marcello completamente rassicurato.
Ella pensava di dover aiutare la natura benigna, cooperare alla propria guarigione con qualche maggior tentativo di attività. Non poteva ancora, è vero: non reggeva una sedia: non poteva salire uno scalino; ma, se non incominciava a tentarlo, non si sarebbe mai liberata della sua debolezza. Fra sè si dava della pigra, della paurosa, della vigliacca. Un giorno fece il giro di tutta la casa, fermandosi molto spesso in ogni stanza. Quando ritornò era abbattuta assai, ma egualmente soddisfatta della sua prova di valore. Poi, per una settimana maturò un grande disegno, tacitamente prendendo i suoi riposi per poterlo compire. Voleva scendere nel parco, passeggiare un poco pei viali, poi riposarsi sotto il pergolato, al rezzo, in una poltroncina che si sarebbe fatta trasportare laggiù. Sarebbe stata una bellissima mattinata, con Marcello che sarebbe contento di vederla, tanto forte! La difficoltà stava a dover risalire la scala; ma infine Dio l’avrebbe aiutata a farle sopportare quella fatica.
Questo suo disegno la infiammò. Nella sua immaginazione lo ingrandì, lo adornò, lo rese bellissimo. Lo desiderò, lo volle. Ne parlò a Marcello, prima incertamente, lasciando cadere la proposta come se non vi badasse troppo, poi vi ritornò sopra, dette delle spiegazioni, aggiunse dei particolari.
— Ne avrai la forza? — chiedeva Marcello, vedendola sempre debolissima, con un respiro breve da bambina.
— Lo spero — rispondeva sorridendo.
Però attese ancora. Ci voleva molta pazienza, perchè poi qualche sofferenza non venisse a turbare la gaia mattinata che sognava. Si decideva: sarà domani. L’indomani, per una ragione o per l’altra, rimetteva di nuovo l’esecuzione della sua idea. In fondo non voleva confessare di non essere molto sicura di sè.
Infine, il 27 maggio ella disse la sera a Marcello: «Domattina scenderemo nel parco.» La mattina, camminando nella sua camera, fu presa da una nuova esitazione. Avrebbe potuto? Sì, sì, avrebbe potuto. Si guardò nello specchio e si trovò sempre pallida; ma forse dipendeva dall’accappatoio di batista bianca a trine di filo giallo.
— Hai fatto portare le poltrone giù? — chiese a Marcello, come egli entrò.
— Sì, tutto è pronto. Andiamo stamane, mia valorosa?
— Andiamo.
Nell’anticamera incontrarono Giovannina con una sciarpa. Ella guardava la padrona, commossa ed intenerita al vederla uscire.
— Iddio vi benedica, eccellenza.
Beatrice alla discesa soffrì molto. Ad ogni scalino provava un soprassalto, un tuffo di tutto il sangue, un formicolìo acuto e doloroso sotto la pelle. Stringeva i denti per comprimere un grido. Pensò che quella scala fosse eterna, che non l’avrebbe finita mai. Marcello la incoraggiava. Facevano delle pause di riposo, poi ella si decideva, chiudeva gli occhi e scendeva. Ci vollero venti minuti. Giù si abbandonò nelle braccia del marito, che le fece respirare la sua boccetta di sali inglesi. Si riebbe. Nel viale era una luce bionda e diffusa che la incoraggiò. S’avviarono a piccoli passi. Sedettero ad un primo banco di legno rustico e vi restarono qualche poco. Ella si calmava; cominciava a godere il piacere tanto desiderato. Col piede spingeva più in là i sassolini del terreno. Ma la spalliera nodosa la incomodova; poi voleva giungere al pergolato. Era là che aveva sognato di stare un’ora, due ore, nella tranquillità del parco. Finalmente, pian pianino, vi giunsero. Attorno al tavolinetto vi era la poltroncina, lo sgabello, altre sedie; sovr’esso libri, ventagli, la sciarpa di Beatrice, un grande bicchiere d’acqua.
— Stai bene qui?
— Oh! sì — mormorò, dopo che si fu seduta a suo agio.
Un venticello appena sensibile si levava. Sotto il pergolato, su cui si intrecciavano i rami carezzosi dell’edera, le fibrille gialle delle campanule, i viticchi a spirale delle passiflore, fra le foglie penetravano certi raggi sottilissimi di sole, come una pioggia di aghetti dorati, un polverìo fino e lucido; qui e là, dove le foglie si allargavano, cadevano dei cerchiolini ridenti di luce. Beatrice ne aveva uno proprio sul ginocchio, il che la faceva sorridere: vi appoggiò il dito per sentirselo riscaldare: poi vi mise l’anulare per veder brillare il suo anello d’oro. Davanti a lei si allungava il viale in una distesa di verde e di azzurro che quasi sconfinava. Un ronzìo d’insetti fremeva d’intorno, un ronzìo molto dolce.
— Stai bene? — domandò da capo Marcello.
— Tanto, tanto — rispose lei, sentendo assopire tutte le sue facoltà in quella calma, mentre pareva che una mano molle ed invisibile agitasse l’aria sul suo volto.
— Non desideri niente?
— No; tu se vuoi, fuma pure una sigaretta.
Dopo un momento comparve Giovannina. Portava sulle braccia un cestello di vimini, pieno di rose di maggio.
— Le ha portate Santa, la nipote del custode. Dice che forse piaceranno alla signora.
Beatrice sorrise. Erano rose bellissime: bianche, rosse, a grossi bottoni, appena schiuse, a corolle fitte, largamente aperte; se ne distaccava un profumo a volta a volta piccante, leggero, voluttuoso, pesante.
— Metti il cestello qui, sul tavolo, Giovannina. Ringrazia Santa e donale qualche cosa.
Ogni tanto ella si voltava a guardare quel cestello. Una grossa ape venne a posarvisi. Ella presa una rosa bianca e la odorò lungamente.
— Ascolta, Marcello.
— Che cosa?
— Vorrei far vivere un paio di giorni questi bei fiori. Ne farò dei gruppi che metterò a bagnare nelle coppe del nostro salotto.
— Non ti affaticherà?
— Ma che! I fiori sono lievi.
E si pose a disporli in mazzetti.
— Marcello, ci vorrebbe del filo per legarli.
— Ne vado a prendere?
— Su in casa? Starai molto?
— No, due minuti. Non vuoi rimaner sola?
— Starai poco. Te lo darà Giovannina.
— Vuoi altro?
— Null’altro.
E si avviò pel viale. Ella gli teneva dietro con lo sguardo. Ad un tratto lo chiamò. Marcello si volse, ritornò.
— Anche le forbici — soggiunse lei.
Rimasta sola, ella si versò tutte le rose in grembo, facendone una scelta. Quell’odore la inebbriava un poco. Una lucertolina che guizzò, la fece volgere. Alle sue spalle, da un’apertura del pergolato si vedeva un altro viale, poi la siepe ed un pezzo del parco Torraca. Vi gettò uno sguardo obliquo, indifferente. Poi ritornò alle sue rose, fece un mazzetto di gradazioni dal rosso vivo al bianco appannato, di un effetto ammirabile. Ci voleva il filo per legarlo e Marcello non veniva. Si volse di nuovo, per distrarre la sua impazienza. Ma i suoi occhi rimasero fissi sul pezzo di parco Torraca che si vedeva; sempre più fissi, sempre più ardenti. Improvvisamente in quel viale una donna alta, ma curva, pallida, vestita di scuro, comparve: Lalla D’Aragona. Camminava piano, solitaria, quasi trascinandosi. Alla siepe si arrestò un pochino, con uno sguardo lungo; poi scomparve dalla parte opposta donde era venuta, come se fosse andata a raggiungere l’assente.
— Marcello, vieni! — gridò una voce soffocata.
Nulla. Silenzio profondo.
— Marcello, Marcello! — fu il supremo grido d’angoscia.
Dal grembo, sulle ginocchia, nelle pieghe dell’abito, sui piedi, per terra, era una follia di rose multicolori e profumate. E sulla testa riversa, sulle labbra appena schiuse e violette, un cerchiolino di sole metteva un sorriso lucente.