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XIII
I TUMULTI DI NAPOLI
sedati da don Giovanni d’Austria
A Francesco Dentice
D’angui crinita dal tartareo tetto,
spargendo ira e furor, sorse Megera,
e la facella sua squallida e nera
l’orbe tutto infiammò, rotando, Aletto.
Del dio bifronte a disserrar le porte
i fulmini avventò nume sanguigno,
ed al fragor di strepitoso ordigno
in sul Sebeto s’aggirò la morte:
E quai sul lido suo vide il Tirreno
di barbaro furore empi vestigi,
mentre percossa il cor da’ numi stigi
sdegnò plebe infedel l’austriaco freno!
In dispietati incendi arder fûr visti
d’illustri fabri gl’immortai lavori;
fûr le sete, le gemme e gli ostri e gli ori
di fiamme ingiuste momentanei acquisti.
A le vite piú auguste i degni stami
troncò il furor de le masnade ultrici;
lungi da’ busti lor teschi infelici
fêr diadema funesto a’ tetti infami.
A fulminar le ribellanti mura
mille e piú si drizzâr bronzi tonanti;
cadder tocchi dal ferro i sassi infranti,
cadaveri in un punto e sepoltura.
Dal patrizio valor mirò la plebe
innestarsi a le palme atri cipressi;
da nobil ferro i sollevati oppressi
col lor vil sangue imporporâr le glebe.
E quali or promettean fère procelle
de l’armato Orïon gl’infausti lampi!
Ma veggio, ecco, illustrar gli eterei campi
di felice splendor propizie stelle.
Per te, germe sovran del rege ibero,
fuggon negli antri lor gli euri frementi,
e, degli astri infelici i lumi spenti,
piove influssi benigni il ciel guerriero;
per te di sangue rosseggianti i fiumi
non portano al Tirren tributi orrendi;
per te nel patrio suol funesti incendi
non inalzano al ciel torbidi fiumi;
per te, di Marte l’armonia sepulta,
corron cetre a sferzar plettri festivi;
e per te, cinta di palládi ulivi,
tra noi la pace sospirata esulta.
Tanto può, tanto fa de’ suoi bei giorni
l’ispano eroe nel giovinetto aprile:
or che fia alor che di virtú senile
gli anni robusti suoi sien resi adorni?
Giá veggio a circondargli il crine invitto
nutrir le palme ossequïosa Idume,
e di sue glorie riverente al nume
erger colossi memorandi Egitto;
veggio di sue virtudi a’ vasti abissi
offrir tributi il galileo Giordano,
e de l’armi al fulgor fuggir lontano
la tracia luna paventando eclissi.
Deh, Francesco immortal, tempra la cetra
ond’eterni gli eroi, fulmini gli anni;
e de le note in su’ canori vanni
il semideo garzon porta ne l’etra.
Se de le glorie sue porgi il tuo canto,
che da se stesso ancor chiaro rimbomba,
Tebe la lira e la famosa tromba
al tuo piè chinerá stupida Manto.