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Dualismo
Vita nostra La storia di Mario

DUALISMO.

Flavia si sentiva la coscienza quieta: neppure l’ombra di un piccolo rimorso; quello che le accadeva era molto strano, ma senza un briciolo di sua colpa. Quindi scuoteva la bella testa bionda, si stringeva lievemente nelle spalle e andava al ballo. Perchè poi adempiva agli obblighi della sua posizione con la massima buona volontà, anzi sorridendo sempre; alle feste ballava dalle undici della sera alle quattro del mattino, lacerando gaiamente il suo lungo strascico, senza mai essere stanca; non dava mai in quei languidi lamenti delle signore contro i vestiti troppo stretti, i tacchi troppo alti, i capellini troppo piccoli; l’estate si divertiva molto sulle spiaggie, ai bagni, ai concerti improvvisati, seguiti dai soliti quattro salti; di autunno le piaceva la campagna con le escursioni sulle colline, il latte fresco, le serotine partite di scacchi, la vendemmia ed il fieno; l’inverno le giungeva gradito coi teatri e le veglie prolungate. Passava senza intervalli per la fiera di beneficenza, lo skating, i coriandoli e le prediche al Gesù Nuovo. Stava bene dappertutto. Una natura felice se mai ve ne furono, una gioventù fresca, bionda, azzurra, serena: due uomini l’amavano, essa li amava tutti e due, ma non si faceva rimproveri. Era la fatalità, l’ananke, per dirla in greco.

Il primo — per epoca — era un giovanotto, un po’ parente, un po’ amico della famiglia di Flavia, di condizione uguale per ricchezza e per nobiltà: rispondeva al fiero nome di Leone, e quasi a mantenerne intiero il significato, era aristocratico fino ai capelli. Nè qui si tratta del solito tipo di cretino fannullone e gonfio, vecchio da quanto il mondo, tipo perfettamente ingiusto: Leone cuore ed ingegno ne aveva, non in modo eccezionale, ma ne aveva, e se li sottometteva alle leggi della sua società, non bisogna fargliene un torto; ci era nato, non sapeva staccarsene. Era sempre compìto, sempre buono ed affabile, con un grazioso sorriso sulle labbra; alcuni lo trovavano troppo eguale. Pure il rispetto che portava alle donne vecchie, il non averne mai compromessa una giovane, un certo senso di lealtà che traluceva da ogni suo atto, avrebbero fatto perdonare qualunque difetto, anche più grande. Sovratutto egli rifuggiva dagli slanci, dagli entusiasmi incomposti, dalle passioni senza regola; amatore profondo della pace, credo non intendesse le ambizioni sfrenate, le altezze inaccessibili; le sublimità lo meravigliavano senza attirarlo. Si era fatto un piano di vita quieta, calma, scorrevole: avrebbe prima goduto un poco la gioventù libera, poi si sarebbe ammogliato, senza troppe furie, con una persona simpatica, poi... intanto cercava la persona simpatica.

Così una notte, fra una polka ed una gita al buffet fece a Flavia una mezza dichiarazione, che spuntava da un complimento susurrato più che detto. Lì per lì ci risero, se ne scordarono; si rividero, ricominciarono, si lasciarono andare alla china: una parolina furtiva, un’allusione mal celata, un sorriso speciale, un brano di conversazione riannodata ogni tanto, ecco tutto. Eppure amore era quello, amore come essi lo intendevano: cioè, amore fine, leggiero, profumato, sottile, lasciato, ripreso a scoppietti, con un’ombra di gelosia per rinforzarlo, ma niente più che un’ombra; amore palliduccio, ma che continuava a vivere bene, come molte persone pallide.

Bastava alla felicità di Leone che Flavia gli inviasse ogni mattina un bigliettino roseo, con tre righe di un caratterino delicato, dove ci fosse il programma della giornata; bastava che al momento dell’incontro fortuito, ella lo salutasse con quel tale inchino della testa accordato a lui solo; bastava che al teatro lo ricercasse con l’occhialino, che al ballo gli serbasse sempre il primo valzer; che, prima di prendere una grave decisione, come la disposizione di una sala, i colori di un abito, una gita in campagna, egli fosse interrogato in proposito. Pel resto la lasciava libera, non esigeva nulla: egli era guidato sempre dal timore del ridicolo, teneva moltissimo alle apparenze e non voleva far la brutta figura dell’amante geloso. Non si adombrava punto dei numerosi ammiratori che circondavano Flavia, anzi dirò che ne provava una specie di contento; sapeva di essere il prescelto, sapeva che il mondo lo sapeva e questo era sufficiente a rassicurarlo.

Anche la fanciulla si contentava facilmente: trovarlo esatto ai ritrovi, sempre il primo arrivato, ascoltare quelle dolci parole che egli sapeva dire così bene, vedergli all’occhiello il fiore simile a quello che ella portava nei capelli, imporgli ogni tanto qualche lieve capriccetto e vederlo ubbidire con un grazioso sorriso: ricevere quella corte semi-nascosta, squisita, deliziosa, che non le imponeva alcun obbligo. La gente attorno mormorava: Una bella coppia! I parenti non dicevano di no.

Nel caso di Flavia la fatalità si chiamava Everardo, ed abitava al quinto piano del palazzo dove dimorava anche essa. L’intelligente lettore avrà capito che si tratta di un poeta, ed è la verità; ma debbo aggiungere, per diminuire la cattiva impressione, che i suoi versi erano buoni, sebbene non fossero letti da alcuno. Egli apparteneva ad una classe che si trova numerosa in tutti i grandi centri: poichè in tutti i grandi centri giunge ogni anno una schiera di giovani buoni e volenterosi. Hanno la testa piena di maravigliose fantasie e di progetti stupendi, il cuore riboccante di affetti ed il borsellino poco riboccante di scudi; al povero e buon papà rimasto in fondo al suo paesello hanno promesso, chi di frequentare Cujacio, chi di presentarsi ad Euclide, chi di annodare stretta relazione con Tissot ed Orfila. Promesse; ma vengono i poetici allettamenti delle lezioni di letteratura, ci si mettono di mezzo le associazioni giovanili, i circoli letterari, le vivaci discussioni sull’arte; tutto questo fermenta insieme agli ardimenti dei venti anni. Allora... allora si forma la classe degli spostati e ne vien fuori il giovane pallido, scettico, anelante ad uno scopo cui spesso non gli basteranno le forze, roso dalla smania di giungere, divorato dall’ambizione, incapace più di ritornare sulla vecchia e diritta strada, torturato da una lotta ineguale che lo rende profondamente infelice. Ed il papà è sempre laggiù e lavora; e si sacrifica e s’illude che il figliuolo sarà contento, avrà una posizione... e non sai quale sia più degna di compassione; se la dolce illusione del vecchio o la desolata sfiducia del giovane. Così nascono i genî, si dice; lo so, ma per un genio che nasce, migliaia di mediocri agonizzano, preferirei proprio che il genio nascesse altrimenti.

Questa qui è la storia di Everardo: uniteci un cuore passionato, un sistema nervoso irritabile, un paio di occhi ardenti, ed avrete un ritratto somigliante. Come è naturale, incontrò Flavia per le scale marmoree una giornata d’autunno scuriccia, con una luce diffusa e triste; ma Flavia era bionda, e sorrideva. Notate, ella discendeva e parve al povero poeta che quella fanciulla che veniva dall’alto, fosse un raggio di luce rosea e scherzosa, smarrito in quell’imbrunire: egli non fiatò, non si mosse: ella passò, ma portandosi l’anima di un uomo.

Non racconto come il rivedere Flavia non fece che innamorare sempre più Everardo, come egli descrivesse in una lettera di fuoco tutto questo amore e quante e quali difficoltà dovette vincere prima che la lettera capitasse nelle manine di lei: basti dire che ottenne l’intento. Flavia lesse due volte le brevi parole e rimase pensosa, pensosa, coi sopraccigli corrugati e la fronte seria: la lettera le bruciava le dita come carbone acceso, eppure non la riponeva. Pareva che quelle parole fiammeggiassero, sfiorassero la mano e penetrassero nelle vene; sentiva un gran calore invaderla tutta, giungere al cuore ed al cervello, precipitarle il sangue: sembrava che stesse in pieno meriggio, in una luce splendida ed abbagliante. Nessuna sensazione di dolore, anzi godeva di quel ricco e dolcissimo incendio in cui le si struggeva l’anima. Pensò a Leone, pensò ad Everardo: li amava.

II.

Vi erano delle ore in cui Flavia si sentiva penetrata, circonfusa da una grande soavità, come se voci alte e lontane le cantassero una dolce canzone, come se mani di fanciulli facessero piovere sul suo capo foglie di fiori. Le si risvegliavano istinti vaghi, aspirazioni fluttuanti, indecise; desiderava i colori molli, temperati, dove le mezze tinte si sfumano come una carezza; le piccole stanze dove la temperatura è tiepida come soffio umano, dove i rumori vanno a spegnersi nella lana morbida dei tappeti; le stoffe calde e profumate, dal leggero fruscìo, che circondano il corpo come se lo amassero e palpitassero con esso; gli effluvî sottili che cullano i nervi in un dormiveglia delizioso. E sul fondo roseo-azzurro di questi sogni compariva un’ombra leggiera, che poi si disegnava più corretta, si distingueva: era Leone. Bello, nobile, ricco, gentiluomo, innamorato, stirpe di principi: con lui la vita doveva essere una lunga ed inesauribile festa, una serie di giorni felici, sorridenti, senza mai l’amarezza del domani, senza un cruccio, senza un punto nero, Flavia l’amava; quando dalla sua carrozza ella lo vedeva passare sul cavallo inglese dalla testa svelta e dai garretti di acciaio, il cuore le si sollevava verso il bello ed elegante cavaliere: quando vedeva lo sguardo altiero di lui diventare amoroso mirandola, quando egli le parlava a voce sommessa, ella provava un fascino irresistibile, Leone era per lei tutto un mondo, un mondo elevato, superiore anche alla sventura, dove fossero la soddisfazione dei gusti più raffinati, la calma profonda e sicura della ricchezza, l’infinita e varia lusinga del lusso. Leone era la pace, la gioia tranquilla, la vita quieta. E nella certezza dell’amore di Leone essa cullava, addormentava il suo cuore.

Ad un tratto veniva rapidissimo il risveglio: tutto il suo essere dava in un grande sbalzo, scosso da una forza interna; si alzava, camminava, avrebbe voluto spezzare qualche cosa fra le mani, si sentiva la testa troppo piccola. Sorgevano pensieri tumultuosi e cozzanti fra loro, idee vaste ed ardite, un bisogno chiarissimo di agitazione, di attività, di combattimento. Allora intendeva quanto di sublime ha il silenzioso lavoro del poeta e del pensatore; comprendeva come l’arte possa essere l’unico supremo desiderio di un uomo, intendeva la sfrenata ambizione di gloria: essere in basso, essere povero, sconosciuto, perduto nella folla, atomo ignoto di una massa enorme, ed intanto guardare in alto, elevarsi, salire, sfolgorare, essere il solo, l’individuo: Everardo. Con lui la passione energica, onnipossente; un amore che sia l’amore unico, che domini tutto, che vinca ogni ostacolo, che consoli ogni sconfitta, che ingrandisca ogni vittoria. L’oscuro poeta adorava la nobile fanciulla che discendeva dalla sua altezza a bearlo del suo affetto; ed ella era conscia, superba di questo amore cieco, animato dalla più fiera gelosia. Quando Flavia era al ballo, sapeva che nella strada buia e solitaria vi era un uomo che fremeva d’impazienza, che invidiava anche l’ultimo servo di quella casa inondata di luce. E nelle sale dorate, fra gli ondeggiamenti delle stoffe ed i sorrisi delle donne, essa era presa da una folle idea: avrebbe voluto lasciar tutto, fuggire per le scale, gettarglisi al collo e dirgli: Ti amo; portami via.

Quando pensava alla vita stentata e meschina di Everardo, alla piccola e bassa camera dove l’inverno si moriva di freddo, alle privazioni continue cui andava soggetto, a tutti quei particolari spaventosi della miseria, provava per quel giovane una grande ammirazione, perchè in mezzo a quell’ambiente egli rimaneva poeta, pieno di fede, carezzando sempre le sue speranze, sognando ancora il suo caro ideale. Flavia si sentiva molto umiliata davanti a quel coraggio, essa che non poteva rinunziare al fastoso e vuoto lusso, ai giojelli inutili, alle mode costose: come le odiava tutte queste cose, come le odiava! Avrebbe voluto rinunciarci, castigare il suo corpo che viveva in quelle mollezze, esporsi al freddo, alla fame, e portare anche lei nel cuore quel tesoro di forza e di gioventù. Sposare il poeta, essere la vita della sua vita, passare per tutte le sue agitazioni, dividere la sua esistenza piena di fremiti, di battaglie e di dolori!

Così si svolgeva in quella fanciulla noncurante ed allegra il dramma meraviglioso del dualismo. Si erano manifestate due potenze, ugualmente forti, opposte; le inclinazioni, sin allora indistinte e confuse, si staccarono, prendendo vie contrarie. Visse passando per questi periodi consecutivi, l’uno negazione dell’altro, che si distruggevano volta a volta per rinascere più vigorosi e combattere da capo. Eppure essa non ne soffriva; anzi in questo fenomeno strano del suo spirito si sentiva completa e soddisfatta, quasi avesse ritrovato il suo equilibrio. Quell’ondeggiamento perenne la lasciava calma, era il suo stato naturale, era spiegabile.

Flavia nasceva da un matrimonio misto: suo padre molto in alto, sua madre molto in basso, ed ognuno dei due le aveva data una natura. Aveva con sè la tempra robusta della madre, i gusti semplici e grandi, il desio di lotta, il palpito onesto e vivace, il soffio sano e gagliardo del popolo. Del padre aveva lo squisito sentire: la delicatezza dei nervi, le aspirazioni gentili. Insomma due coscienze; ma queste due coscienze si confondevano, si univano, ne formavano una sola, gli amori si riducevano in un solo e Flavia era felice, molto felice, avendo ritrovato nel modo più assurdo l’unità del suo spirito.

III.

I due giovani che si erano incontrati e fusi così bene nel cuore della fanciulla, incontrandosi nella vita reale e sapendosi rivali, si guardarono in cagnesco: Leone prese Everardo per un pazzo ardimentoso, Everardo scambiò Leone per uno sciocco orgoglioso. Certo non potevano intendersi e molto meno apprezzarsi: andarono di accordo in un solo moto spontaneo, perchè l’indomani Flavia riceveva due lettere quasi identiche, la cui sostanza era la parola: Scegli.

La fanciulla provò un doloroso stupore, uno stringimento affannoso al cuore come se le avessero annunziato una grande sventura; credeva di fare uno di quei sogni terribili dove si cade, si cade sempre da una smisurata altezza e l’angoscia si prolunga sino al risveglio. Scegliere; doveva scegliere: perchè? Aveva tanto goduto, la sua vita era stata così completa e piena nell’amore! Scegliere: chi? Sentiva di amarli egualmente, sentiva che tutti e due le erano necessari, non poteva neppur figurarsi di dover annullare uno di quei nomi dalla sua mente, di cancellare una di quelle immagini dall’anima. Era impossibile, impossibile, impossibile. Le si chiedeva una cosa ingiusta, era sdegnata contro quella domanda. Tutto cadeva, tutto precipitava nel nulla; la bella armonia era turbata e rotta, la pace era scomparsa, bisognava scegliere: cioè amarne uno solo, far sacrifizio di un affetto all’altro, soffocare una delle coscienze, morire per metà. Volle farlo, volle decidersi, accumulò gli argomenti che dovevano difendere e far prevalere la causa di uno dei due giovani, prese anche una determinazione e cercò di fortificarsi in essa; fu inutile: il momento dopo pensava all’altro. Passò giorni tristissimi, stanca, sfiduciata, in preda a dubbi crudeli, abbandonata a tormentose esitanze: era uno stato insopportabile. Allora preferì l’abbandono completo, lo schianto intiero: distaccò da sè tutto l’amore, rinunziò ad ambedue. Leone ed Everardo la giudicarono una civettuola comune, ma essa non si curò di spiegar loro il mistero del suo cuore.

La bionda fanciulla ha molto sofferto, ha trascorso le notti insonni e le giornate malinconiche, ma anche il dolore si attenua, diminuisce e scompare. Per lei l’amore è diventato un ricordo lontano lontano, un’epoca felice e passata, un periodo bellissimo ed esaurito; ci pensa talvolta, ma senza volerlo far rivivere. Come ogni persona di questa terra, ha amato per quanto basta: nei suoi due amori ha riassunto il suo grande amore.


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