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IDILIO DI PULCINELLA.
I.
Il sipario era venuto giù in un attimo come in tutti i piccoli teatri dove si manovra con due cordicelle scorrevoli negli anelletti di ferro; dopo pochi applausi l’intervallo cominciava. — Si era in aprile e nel teatro senza apertura si appesantiva un’aria calda e greve; i lumi a petrolio fumigavano un poco; per l’atmosfera della sala lunga e stretta si diffondeva una leggiera nebbiolina; i monelli del lubbione avevano tolta la giacca ed erano rimasti democraticamente in maniche di camicia; la platea si vuotava e nei corridoi angusti girava l’acquaiolo, annunziato dalla monotona voce e dall’acuto odore di anici. Nei palchi grande movimento di ventagli in mano alle signore — e per signore intendo donne, perchè non vi era alcuna stella del firmamento aristocratico. La popolazione dei palchi era per quella sera formata da tre o quattro famiglie della grossa borghesia, inanellate e vestite della rumorosa seta domenicale; di un impiegato municipale con la relativa arca di Noè; delle figlie piccole di un giornalista che era andato al San Carlo con la moglie; delle sorelle dell’impresario, serotine e gratuite frequentatrici del teatro; di una frotta d’inglesi, vestiti di tela bianca e col velo verde al cappello, ed infine di un giovanotto abbastanza misterioso, solo in un palco, che ascoltava la rappresentazione voltando le spalle al palcoscenico, sbadigliando dietro la mano inguantata: una consegna, era evidente. Nessun occhialino: sarebbe stato ridicolo a tre metri di distanza. Il maestro di orchestra, un disgraziato pagato ad un franco e cinquanta per sera, squadernava sul piccolo leggio la vetusta mazurka, volgendo una occhiata pietosa agli otto professori suoi colleghi, che si godevano una paga giornaliera variabile da settantacinque centesimi ad un franco.
Nel palcoscenico un momento di riposo. Là il caldo era soffocante; non veniva un soffio di aria da nessuna parte; la caratterista, che fingeva una vecchiona ricca e benefica, si era levata dal capo una parrucca a riccioloni maestosi, con suvvi appuntata una cuffia di merletto adorna di nastri e fiori, ed era rimasta con una treccia tonda e brizzolata, perchè la buona donna camminava direttamente sui cinquanta. Donna Carmela, l’amorosa, passeggiava su e giù, facendosi vento col grembiale di seta nera; il suo ventesimo fidanzato — essa aveva combinati e rotti diciannove matrimoni — era corso a prenderle un bicchiere d’acqua gelata con sciroppo di amarena. Pulcinella, seduto sopra alcune vecchie quinte, aveva sollevata la grossa maschera d’incerata nera per respirare un poco meglio e si soffiava sul volto col berrettone di lana grigio-lattea. Pulcinella pensava: nessuno se ne meravigli, era molto giovane.
Non si poteva vedere se fosse o no un bel giovane. Pulcinella porta sui capelli, sotto il berrettone, una stretta calotta di lana nera, più grande di quella dei monaci, che gli nasconde tutta la testa; sul viso, sino alla bocca, la maschera nera dal naso magistrale; il corpo è nascosto dal camiciotto di mussola bianca a pieghe amplissime, dalle maniche larghe che giungono sulle dita, dai calzoni bianchi e larghi che ricadono sulle scarpe di tela grigia, simile al berretto. Di lui si vede solo un po’ di mento, il collo e le mani: impossibile di riconoscerlo. Ma il pubblico che ama Pulcinella come una gloria paesana, non ricerca quasi mai la fisonomia nascosta sotto la maschera: per lui, Pulcinella non è un uomo, non è una personalità simile ad un’altra, ma è un tipo, un carattere, una manifestazione — è lo spirito popolare, sarcastico, ribelle, filosofico, che scoppietta — è la maschera che personifica ed incarna il temperamento meridionale pieno di fuoco e d’indolenza — è l’aspetto proteiforme di un popolo — è tutto fuorchè un individuo. Se ne sa il nome, è vero; ma pochi ne sanno il viso.
Però posso assicurarvi che Gaetano Starace, senza essere un modello di bellezza, era molto simpatico coi suoi capelli neri e lievemente ricciuti, cogli occhi vividi e la pelle bianca come quella di una donna. Non era un essere eroico, non era un uomo di grandi sentimenti, ma aveva un cuore di oro e conservava fedelmente l’eredità del blasone; da tre generazioni nella sua famiglia si diventava Pulcinella per inclinazione, per abitudine, per trasmissione nel sangue, come le malattie ereditarie. Quando un fanciullo veniva su, non si pensava ad avviarlo per nessuna carriera, per alcun impiego; il suo mestiere era bell’e trovato, il suo còmpito era quello d’indossare l’abito e di rallegrare seralmente la gente. Era un lavoro faticoso, esclusivo, opprimente, un lavoro inglorioso e poco fruttifero, ma nella mente ristretta e buona degli Starace non entrava l’idea della ribellione alle ingiustizie sociali; erano uomini umili, cortesi, allegri, senza pretese, fedelissimi al teatro dove quasi erano nati e dove morivano, devoti ed ossequenti al loro pubblico, incapaci d’irritarsi contro i suoi capricci, sempre pronti a carezzarlo, a sollazzarlo, a sacrificare per esso ogni cosa. Il bambino andava a scuola, imparava a leggere ed a scrivere, s’infarinava leggermente di tante altre cognizioni; ma la sera la passava nelle quinte a vedere ed a sentir recitare suo padre; ai sedici anni faceva qualche particina da Pulcinellino, ai venti suppliva il padre quando era ammalato; alla morte di lui diventava Pulcinella. E questo regolarmente, senza esitazioni, senza dubbi, come un obbligo, come un dovere, come una fatalità.
Così di Gaetano Starace; si aggiunga che, per un po’ di naturale ingegno, egli si rendeva utile riducendo commedie italiane in dialetto, raffazzonandone delle nuove su tele vecchie, scrivendo parodie di opere serie — e qua e là non mancava dello spirito. Non roba molto fine, è sottinteso, ma pei frequentatori del teatrino bastava ed era soverchio: come attore, Gaetano era svelto, pieno di vita, aveva una voce gradevole e conosceva l’arte di modularla. Il padre gli morì presto ed esso, che era figlio unico, gli subentrò come nei regni costituzionali; recitava bene, era allegro per natura, era giovane; piacque, divenne il beniamino del pubblico. Il suo mestiere non gli dispiaceva, anzi e’ lo faceva con un certo trasporto: nel suo cervello non nascevano le idee dell’arte, la sua missione, la vocazione, la fibra artistica, l’interpretazione, la scuola vecchia, la nuova e simili formole che affliggono gli altri artisti drammatici — niente di tutto questo. Sibbene, così alla grossa, egli comprendeva che quegli spettatori della platea e del lubbione erano popolo, quel popolo che soffre, che lavora, che stenta e che quando può disporre di pochi soldi, va al teatro per dimenticare nel riso i guai della vita — e nel suo cuore di popolano, si consolava di dover essere lui ad alleviare, a sollevare, a rallegrare il suo prossimo. Quando si metteva la maschera e stringeva la vagina del suo camiciotto, si sentiva il cuore leggero, diventava gaio per la gaiezza che avrebbe data altrui; quando una intiera platea scoppiava in una risata omerica, egli gongolava dal contento, come chi abbia fatto una buona azione.
Per lo più, prima che cominciasse la rappresentazione, usava di metter l’occhio al buco del sipario ad osservare attentamente il suo pubblico; notava tutti i volti gravi, i tristi e se ne ritornava fra le quinte, fregandosi le mani, sorridendo e mormorando fra sè: «Vedremo, vedremo, se ci potrete resistere.» Quando aveva ottenuto l’intento e si vedeva davanti una folla di volti ridenti, si congratulava con sè stesso come di una grande vittoria. Talvolta qualche spettatore isolato s’incaponiva a rimaner serio, non sorrideva neppure ai più graziosi frizzi; allora Pulcinella si ostinava da parte sua, s’infiammava, si moltiplicava, recitava per quel solo spettatore, fino a che lo avesse vinto e domato, sino a che lo avesse visto contrarre la bocca in una convulsione di riso represso. Chiamava questi spettatori con una parola pittoresca ed energica: scogli.
Quella sera appunto aveva trovato uno scoglio ed anche durissimo; quello lì non voleva ridere, proprio non voleva. Gaetano aveva lavorato bene e molto, aveva variato la trita commedia che si rappresentava, infiorandola d’improvvisazioni spiritose; ma lo spettatore non se n’era dato per inteso, era rimasto immobile ed indifferente; Pulcinella ci perdeva, lo spettatore era più forte di lui.
Veramente si trattava di una spettatrice: era una giovinetta che stava nel palco numero 2 di prima fila, seduta di fronte alla scena e quindi vicinissima. Una giovinetta dal volto pallido e lunghetto, un po’ magro; sulle linee esili del collo ricadevano due grosse treccie nere che erano appuntate, con semplice ed elegante ornamento, da certe stelle di tartaruga bionda; vestiva un abito di lana grigia, terminato alla radice del collo da una arricciatura di merletto bianco, chiuso a quel punto da una stella più grande di tartaruga; oscuri i guanti. Aveva ascoltato con molta attenzione, ma la serietà del viso non si era diradata; anzi una certa fierezza trapelava dalla fronte stretta e bianca, dalla linea decisa del mento: non era bella, ma aveva una di quelle fisonomie spiccate, perfettamente individuali, che non si possono più dimenticare. Con lei stava una signora matura, vestita onestamente di nero, con un volto molto somigliante alla giovinetta, ma le cui linee erano più dolci, quasi ammollite dai capelli bianchi e da un benevolo sorriso: sua madre, forse.
Ma Gaetano non si curava di tutti questi particolari, era preoccupato dalla gravità della fanciulla. Non era malinconia, non era dolore, non era neppure indifferenza: il sentimento che si leggeva sul viso di lei, era un’aria di serietà superiore, quasi inconsciente, certo naturale. Egli si chiedeva perchè una giovinetta, neanche vestita di nero, nell’età del riso, nel teatro dove si andava per ridere, si niegasse alla gioia. Ora ella parlava lentamente con la sua compagna, senza gestire, con uno sguardo intelligente, muovendo appena le labbra: che diceva? Quale strana apparenza era la sua! Tutti ridevano, ella no; tutti si divertivano, essa non si annoiava; che faceva, che pensava dunque? Rivolgendo in sè queste idee, Gaetano rimaneva col viso incollato alla sudicia tela del sipario, con l’occhio fisso sulla figura pallida della fanciulla, perduto nelle sue supposizioni, tormentato un poco da quel problema ventenne che stava nel palco di prima fila.
— Fuori scena! — gridò il buttafuori.
Suo malgrado Gaetano dovette rientrare nelle quinte; giunto là gli parve di aver avuto un’idea luminosa, un’idea che gli fece piacere e dispiacere nel medesimo tempo: sicuramente la fanciulla doveva essere innamorata.
— Allora ci penso io a farla stare allegra, — mormorò fra sè; — giusto nel terzo atto vi è una scena di amore.
Diede una spinta sino all’esiguo camerinetto dove Donna Carmela, l’amorosa, allo scarso lume d’una fumosa candela di sego, davanti ad uno specchietto di quaranta centesimi, si acconciava al collo un fazzoletto di seta rossa; aveva le guance grossolanamente cariche di bianco e di rosso.
— Mi raccomando, Donna Carmela, — le disse: — un pò’ di anima nella nostra scena.
— Vi pare! Con voi non c’è bisogno di raccomandazione, — ribattè lei, scoccandogli uno sguardo lusinghiero; tanto il ventesimo fidanzato non c’era! Ma Gaetano parve non ci badasse.
Infatti la scena di amore, che era anche la culminante, cioè l’ultima, fa recitata a meraviglia: Carmela vi mise dell’impegno, parve quasi che sapesse la parte; i suoi occhi ingranditi dal bistro brillavano, la voce rauca aveva quasi delle intonazioni d’intelligenza. Gaetano si superò; fu felice in ogni frase, fu spiritoso, fu ridicolo, fu barocco: la platea, anzi tutto il teatro andava in convulsioni pel ridere, egli stesso si sentiva in ammirazione davanti alla sua bravura — e quando, all’ultimo, un applauso fragoroso coronò l’opera, egli rivolse un’occhiata alla giovinetta del palco, sicuro di averle fatta impressione, sicuro di averla commossa al riso. No; il volto di lei non aveva cangiato espressione, solo l’occhio fiero avvolgeva Carmela e Gaetano in un freddo sguardo e la bocca gentile si piegava ad una curva dura ed energica di disprezzo.
Egli rimase freddo, immobile, istupidito. Perchè il disprezzo?
Fu così che Gaetano Starace, Pulcinella del popolare teatro di S. Carlino, s’innamorò di una sconosciuta.
II.
Egli non era un filosofo, eppure un giorno, passandosi la mano sulla fronte pensierosa, esclamò: Quanto diverso l’amore della commedia da quello della vita! E la testa gli si curvò sotto il peso di quest’amara verità.
Ogni sera l’aveva recitato, l’amore della commedia: quell’amore espressivo, esterno, parolaio, pieno di fiamma, ruvido, carezzevole, passionato del popolo napoletano, egli lo aveva espresso ogni sera a Donna Carmela, l’amorosa, e a Donna Checchina, la così detta ingenua; ogni sera l’una o l’altra di quelle due donne lo aveva amato, gli aveva rivolte parole d’affetto. Egli era stato volta a volta amante felice, geloso, traditore, sfrontato, tradito, non corrisposto; ma in fondo, al terzo atto della commediola, le cose si erano aggiustate, il matrimonio si compiva, e si ballava la tarantella alla luce dei fuochi artificiali. Sempre il suo amore era stato allegro, chiassone, grossolano, volgare, aperto a tutti senza che mai un palpito interno corrispondesse a tutto quel lusso di esteriorità; ma nella vita, quale e quanta differenza!
Dopo quella sera egli era stato una settimana inquieto ed agitato: lo assalivano mille dubbi, mille sospetti; un turbine di pensieri gli girava pel capo: non si sapeva spiegare il contegno della giovinetta. Non se lo spiegava; eppure dovunque si voltasse, a qualunque occupazione si desse, egli rivedeva la freddezza di quegli occhi ed il disdegno di quelle labbra; insieme il volto pallido e simpatico, le treccie nere e le stelle bionde di tartaruga: dappertutto la stessa immagine. Nel teatro era peggio: fissava sempre il suo sguardo sul secondo palco di prima fila, quasi attendesse a vederla ricomparire, irritandosi contro gli altri che venivano ad occuparlo; se veniva al buco del sipario, si ricordava di lei; se donna Carmela gli parlava, si ricordava di lei; se recitava la commedia della prima sera, gli pareva di soffrire le stesse ansie e la medesima disillusione di allora. Infine la sua vita era profondamente turbata.
Un segreto istinto lo spingeva a non ricercare la fanciulla sconosciuta; pure la rivide, seppe di lei, della sua famiglia, della sua condizione: vi era una vecchia e solita storia di famiglia nobile, impoverita per cattiva amministrazione e per infelici liti, una madre ed una figliuola che erano rimaste con una piccola rendita, sufficiente a farle vivere una vita molto ristretta e molto borghese. Pure nelle vene della fanciulla, Sofia Cantelmi, scorreva un sangue purissimo ed azzurro, onde la severità scultoria della figura, l’incesso un po’ altero, le estremità lunghe e fini, e quell’aria signorile che si ha, ma che non si acquista mai. Gaetano seppe tutto questo, prese cinquanta volte al giorno la risoluzione di fuggire Sofia, di non rivederla più, di non pensarvi, di dedicarsi intiero alla sua umile vita di Pulcinella, ma il povero giovane non vi riuscì: non era stato mai innamorato, non giungeva a vincersi.
Passava le mattinate a passeggiare nella piazza Cavour, sotto le acacie degli squares, a guardare i balconi di un secondo piano che si aprivano raramente pel suo desiderio; Sofia vi compariva solo nelle belle giornate e vi rimaneva poco, non lo vedeva mai, o, vedendolo, non lo curava. La domenica ella si recava a sentir messa nella antica chiesa di S. Maria di Costantinopoli con sua madre, ed egli, pio come tutti quelli che amano, entrava nella chiesa e pregava; poi le due signore andavano a fare una passeggiata, ed egli dietro, a dieci passi di distanza, fingendo l’indifferente, ma seguendole come un cane fedele. Pel resto della giornata doveva occuparsi alle prove, correre a casa a prendere un boccone, ritornare al teatro per la rappresentazione di giorno e non uscirne che a mezzanotte: pure a mezzanotte, prima di ritirarsi in casa, stracco morto dalla fatica, oppresso dal caldo, faceva una scorsa sino a piazza Cavour per rivedere un balcone illuminato e qualche volta un’ombra alta e svelta passare dietro le tendine. Questo per settimane intiere, senza variazioni; ma la sua pazienza, quella specie d’innata bontà, quella umiltà rassegnata che si contentava di vedere Sofia senza sperare altro, quella voce interna che lo consigliava a smettere, si stancarono. Era giovane, non aveva mai amato, il sangue gli bolliva nelle vene e gli sconvolgeva il cervello; quell’attesa, quell’immobilità gli divennero insoffribili; aveva bisogno di decidersi a qualche cosa, di agire, di muoversi, di sapere che ne doveva essere del suo cuore e di sè. Le scrisse una, due, cinque lettere.
Erano male scritte, è vero: qualche espressione, qualche frase, qualche periodo era preso dalle commedie di repertorio; qualche errore di ortografia vi incappava ogni tanto; pure vi spirava un amore così profondo, così sincero, vi si manifestava un desiderio così vivo di una sola parola, di un sol sorriso, che l’altera fanciulla ne dovette essere scossa. Era da tempo che essa, sotto la bruna frangia delle palpebre, osservava la fedeltà di Gaetano a presentarsi ogni mattina; era da tempo che essa aveva l’abitudine di vederlo immancabile alla chiesa, alla passeggiata, sempre modesto, sempre un po’ triste; e lentamente, nel suo cuore freddo e solitario, comparve l’immagine del giovane innamorato. Sofia era uno di quei caratteri intieri, tutti di un pezzo, incapaci di cedere ad una debolezza, ma incapaci di mentire agli altri od a sè stessi; era altiera, ma per questa medesima alterigia non soffriva mezzi termini; non amava o amando, doveva andare sino in fondo. Poi le sventure sofferte da bambina le avevano data una severa lezione, le avevano insegnato che la nobile nascita non vale nulla in tempi nei quali non conta che il danaro: che oltre la nobiltà del blasone vi è pur quella del lavoro, anch’essa egualmente bella ed onesta. Il giovane aveva una professione, lavorava di certo in quelle ore che non lo si vedeva apparire; forse per soverchia umiltà aveva firmato le sue lettere col solo nome di battesimo, temendo che la nudità del suo cognome borghese non dovesse offendere la fanciulla. Sofia sentì di stimarlo per la sua condotta passata, per quella presente; la madre, desiderosa come tutte le madri di vedere collocata la figliuola, la incoraggiava dolcemente; ella rispose poche parole, con serietà, ma senza freddezza. Lo stimava, voleva conoscerlo; forse lo avrebbe amato.
Egli andò per la prima volta in quella casa tremante di emozione, dominato da una strana ansietà; avrebbe voluto essere perfettamente contento e credeva di esserlo; ma ogni tanto, come per una nuvola nera, la sua gioia s’intorbidava ed egli si spaventava per un ignoto pericolo. Dopo si dava del matto, del presuntuoso, dell’incontentabile; chiamava in aiuto il suo amore, la sua franchezza, la lealtà del suo cuore e delle sue intenzioni; pensava che un mese, una settimana prima non avrebbe neppure sognato una simile fortuna — e si rassicurava. Pure al cospetto delle due donne fu timido ed impacciato, non osava guardare Sofia, non sapeva se darle del lei alla toscana o del voi alla napolitana; le parole cascavano lente, un invincibile dubbio lo arrestava. La fanciulla lo comprese e vide che era mestieri aiutarlo, restituirgli un po’ del suo coraggio; gli parlò lei, con bontà, cercando di raddolcire l’espressione del suo volto, giungendo sino a sorridere; egli si animò, divenne più franco, superò completamente il suo imbarazzo. Le cose si mettevano assai bene, quando la signora Cantelmi uscì fuori con questa domanda:
— E dove ci avete conosciute?
— Al teatro... — rispose egli, preso da una nuova esitanza.
— Al teatro? — riprese Sofia. — Noi vi andiamo molto di rado.
— Nell’aprile, al San Carlino — rispose egli senza aggiungere altro,
— Ora ricordo; quando Maria Desanctis ci mandò quel palco, mamma. Una cattiva serata quella....
— Perchè? — domandò Gaetano, senza osare di chiedere altro.
— Non amo quel teatro; vi si ride troppo e non vi s’impara nulla. Tutto quello che vi si dice è così triviale, così volgare, così basso, che mi ripugna; quelle risate della platea hanno qualche cosa di selvaggio. E quel Pulcinella, quel grossolano buffone, che carezza con la parola e con l’intenzione tutti gli istinti brutti del popolo, mi è insoffribile: io mi chieggo come un uomo si possa rassegnare a quel mestiere....
— Sei severa, Sofia, — interruppe la madre, mitigando l’osservazione con un mite sorriso.
— No, mamma. Forse che mancano vie oneste per guadagnarsi il pane? Meglio un lavoro manuale che quel mestiere ridicolo ed indecoroso. Ma infine che importa a noi tutto questo? Io non vi vidi quella sera.
— Non potevate vedermi, — rispose Gaetano pallidissimo.
— Andate spesso al teatro? — chiese la madre. — Non siete occupato alla sera?
— Sì, ogni sera — riprese lui con uno sforzo penoso — ogni sera vado a lavorare.
— È un lavoro faticoso? — domandò Sofia con bontà.
— No... non molto; ed anche mi ci sono abituato.
— In commercio forse?
Che cosa doveva risponderle? Gettarle la verità in volto e fuggire? L’amava, l’amava passionatamente, l’amava per le sue stesse parole di disprezzo. L’amava, mentì.
— Sì, in commercio in una casa bancaria. Ci vado alle quattro e ne esco ogni sera alla mezzanotte.
Ed aggiunse il suo nome ed il cognome di sua madre: Rosati. Così l’inganno era completo. Dopo si congedò, andò a casa abbattuto, pallido, ferito al cuore. Sul teatro l’amore era sempre una gaia commedia, ma nella vita diventava per lui un dramma doloroso; il primo giorno della sua felicità, egli era tanto, tanto infelice!
III.
La mattina egli la passava presso di lei; seduto sulla sedia dove ella appoggiava i piedini, scherzando con i gomitoli di lana che le servivano per il ricamo, parlandole a voce sommessa, mentre la madre andava e veniva per le stanze. Non arrivavano mai visite, la camera era silenziosa, piena di luce e di sole; dei fiori erano messi qua e là in certi grandi vasi di cristallo tersi e puliti; Sofia si degnava di parlare con quella sua voce gravemente musicale, che aveva qualche cosa d’intimo e d’affettuoso: Sofia si degnava di sorridere con quel bel sorriso che correggeva la purezza statuaria dei lineamenti; Gaetano si sentiva penetrato da una grande pace, da una soddisfatta tranquillità. Egli godeva di mille piccole cose; le affusolate e bianche dita di Sofia, adorne di un anellino con turchesi che egli le aveva donato, volavano sul canevaccio come farfalle bianche; quando la lana finiva, nell’ago, essa la spezzava con un colpo netto delle graziose e lucide forbicine; quando un fiore si doveva incominciare, egli era chiamato a dare il suo parere sulle gradazioni e sulle mezze tinte; spesso la fanciulla lasciava andare in grembo il lavoro e si distraeva a discorrere con lui, lentamente, accentuando le parole solo con lo sguardo. Gli diceva che la sera avanti, sull’imbrunire, era uscita al balcone, e che aveva visto nella strada tanta gente; subito aveva pensato a lui, sagrificato in una camera buia, sopra un libro mastro, in compagnia delle cifre, e lo aveva compatito; gli diceva che se l’altra domenica fosse uscito un gaie sole, sarebbero andati tutti e tre a passeggiare nel bosco di Capodimonte; essa gli avrebbe indicati certi bellissimi viali, certi alberi vecchi vecchi e che avevano l’aria molto buona; gli diceva che aveva letto il tale libro, che le era piaciuto, specialmente un certo punto: prendesse il libro, era sul tavolo, lo aprisse a tale pagina, leggesse ad alta voce, ed egli obbediva sorridendo; leggeva con enfasi, comprendeva più col cuore che con la mente; ella lo ascoltava, socchiudendo un poco i bruni occhi. Poi rimanevano silenziosi, fissandosi a lungo col sorriso dello sguardo e finendo col sorriso innamorato delle labbra. Non discutevano mai; si trovavano sempre d’accordo; perchè Sofia era un po’ esclusiva nelle sue opinioni, era inflessibile nelle sue idee; ma Gaetano, ammirandola ed amandola, s’inchinava a tutto quanto ella dicesse. Vi era in lei un sentimento così grande, così equo di probità, un disdegno così completo della facile morale del mondo, che il giovane si sentiva in sua compagnia diventare più forte, più fermo, più coraggioso. L’amava come fanciulla, come donna, come amica, come sorella; gli piaceva, l’ammirava, le voleva bene l’adorava; l’amava, l’amava, l’amava.
Ma appena uscito da quella porta, le sue ferite cominciavano a sanguinare. Egli era un mentitore, un traditore, un vigliacco che ingannava una giovinetta nobile e onesta; era indegno del suo amore, egli il buffone, egli il Pulcinella. Sinallora la sua mente era rimasta ottusa, egli aveva amato il suo mestiere, ne aveva compreso il solo lato buono, gli era parso di non essere da meno degli altri uomini che lavorano; ma le parole di Sofia gli avevano acuito l’ingegno, lacerato il velo che gli ottenebrava l’intelletto: suo padre gli aveva lasciato in eredità il ridicolo, quello che faceva ogni sera era un mestiere indegno. Quindi nutriva nel cuore un odio incurabile per quanto prima era stata la sua consolazione: il palcoscenico stretto, polveroso; le quinte nere, sporche, soffocanti, piene di ragnateli; l’ambiente di petrolio, di fumo rossiccio, di respiri graveolenti; i compagni volgari, chiassosi, sboccati; le donne dipinte, incipriate con la farina, cariche di oro falso, che parlavano il dialetto, gridavano, si urtavano, litigavano, alcune viziose, altre semplicemente miserabili; la sua livrea bianca, la maschera nera che lo deformava, il berrettone obbligatorio; quei caratteri di ghiottone, di pauroso, di egoista, d’imbroglione, che era costretto di rappresentare; quelle frasi a doppio senso, quei frizzi taglienti che addirittura portavano via il pezzo di carne, quell’amore esterno che doveva fingere — tutto, tutto gli sembrava ignobile. La sua vita della mattina lo ingentiliva e gli sviluppava tutte le facoltà morali; la vita di ogni sera lo avviliva, l’opprimeva, l’abbrutiva.
Con uno sforzo disperato aveva cercato liberarsene, aveva voluto gettare lungi da sè quel fardello tormentoso; ma gli mancava la capacità di un altro impiego, non sapeva nulla o un poco di tutto, che vale lo stesso: era un ignorante. Non lo avevano voluto neppure per copista; si chiedevano informazioni sul suo conto e quando si appurava che era il Pulcinella del S. Carlino, ognuno si stringeva nelle spalle con un sorriso: stava al teatro, vi rimanesse. Così soffrì due o tre rifiuti che gli facevano misurare quale e quanto fosse il ridicolo della sua posizione; e ritornava ogni sera alla sua catena addolorandosene, soffrendo, digrignando i denti quando il pubblico lo applaudiva; odiando sè stesso, il mondo — ed amando Sofia.
A lungo andare non ebbe più pace neppure nelle ore che trascorreva con lei, non giungeva più a dimenticare la sua personalità, il pensiero della sua condizione miserrima vinceva anche il balsamo della presenza di Sofia. Costei spesso gli chiedeva minute notizie della sua vita d’impiegato, se il lavoro non fosse troppo penoso, se i suoi banchieri lo trattassero con bontà, se andassero bene gli affari: ed egli ad ingarbugliarsi, a chiamare in soccorso le sue ristrette cognizioni per pescarvi qualche cosa di commerciale, ad infilzare bugie sopra bugie. Le rare volte che suonava il campanello, egli trasaliva, temendo che entrasse qualche persona da cui fosse conosciuto; qualche volta si alzava come se volesse fuggire; quando giungeva a Sofia una lettera in sua presenza, egli tremava che fosse qualche anonima denunzia: se la ritrovava malinconica, gli si gelava il sangue nelle vene, pensando: Ha saputo qualche cosa! Le aveva promesso di condurle sua madre, una buona popolana; ma con mille pretesti non aveva mantenuto la promessa. Nelle belle mattinate di estate, nei suoi rarissimi giorni di vacanza, Sofia lo incitava a uscire insieme con lei e con la madre; gli toccava scegliere le vie remote, guardarsi d’attorno, con sospetto d’incontrare qualche amico che lo chiamasse per nome.
Ma vi era di più: spesso nei più bei momenti di calma e di serenità, nei momenti in cui avrebbe voluto inginocchiarsi davanti a Sofia e adorarla come una Madonna, era assalito da un turbine di pensieri brutti. Sbuffi di cinismo gli salivano al cervello, ricordi di teatro gli intorbidavano la mente, egli si sentiva ridiventare volgare, plateale: chiedeva a sè stesso se quelle bugie, quelle finzioni, quelle delicatezze non fossero esagerazione, roba inutile con Sofia. I mariti sono scarsi e, pur di averne uno, le fanciulle chiuderebbero un occhio ed anche due sulla bellezza e sulla professione dello sposo: così aveva egli enunciato dal palcoscenico, ottenendo le approvazioni della platea; così gli accadeva di pensare presso la giovanetta. Con un volo della sua ammalata fantasia, s’immaginava già che Sofia gli avesse perdonata la sua menzogna, che fosse sua moglie, che venisse ad ascoltarlo recitare, che lo applaudisse... perchè no? Dirle tutto allora... ma Sofia gli alzava in viso gli occhi sereni e casti ed egli ricadeva nella realtà, più affannato, più crudelmente angosciato di prima.
Un giorno cadde ammalato di una febbre nervosa, sperò di morire. Invece dopo tre giorni era guarito ed il suo impresario gli venne a fare una visita per discorrere di cose importanti, secondo diceva lui. Era da tempo che il teatro faceva scarsi introiti, mancavano le novità ed il pubblico si ecclissava; nelle tre sere che Gaetano era stato assente, la sala era rimasta vuota: occorreva darsi da fare, lavorare, trovare qualche idea, arrischiare anche qualche spesa, battere la grancassa, pur di richiamare gente. L’impresario aveva un’idea, anzi due: si poteva tentare una parodia del Rigoletto, che sarebbe venuta fuori interessante e spiritosa dalla penna di Gaetano, si poteva riprendere una vecchia commedia di repertorio, non rappresentata da una trentina d’anni, dopo avervi praticate delle rifazioni. Che ne diceva il carissimo Gaetano, il sostegno del teatro S. Carlino?
Gaetano rispondeva di sì; avrebbe fatta la parodia, avrebbe praticate le rifazioni; egli era il sostegno del teatro S. Carlino, se ne accorgeva, se lo sentiva addosso pesante ed irremovibile. E si accinse al lavoro; scrisse a Sofia che una importante operazione finanziaria, una grossa liquidazione gli impediva di andar da lei per quattro o cinque giorni, che presto sarebbe ritornato, che l’adorava sempre. Dell’impastare alla meglio quella parodia del Rigoletto egli provò un amarissimo piacere ritrovandosi nella persona dello sventurato gobbo, cui unico conforto alla vita di buffone era l’amore della figlia: egli si compiaceva ferocemente contro sè stesso, mettendo in caricatura l’amore paterno del buffone e l’innocenza della figliuola, rilevando la gaia dissolutezza del Duca, di Maddalena. Egli, Gaetano, avrebbe fatto nella parodia la parte di Gilda, vestito da donna, cioè arrivando all’ultimo grado dell’avvilimento; giorno per giorno si configgeva nelle carni quelle spine, sorridendo, come gli antichi martiri, del suo sangue che se andava.
Già grandi cartelloni rossi e verdi, incollati per le mura della città, annunziavano al pubblico napoletano la nuovissima e brillante parodia del Rigoletto, scritta espressamente dal Pulcinella Gaetano Starace, in cui egli avrebbe preso parte insieme col buffo Barilotto, con don Felice Sciosciammocca, il Tartaglia, la caratterista ed altri dieci attori; già i giornali consacravano dieci linee della loro cronaca teatrale per raccomandare ai loro lettori la prima rappresentazione: sarebbe stato un successo clamoroso, una serata allegrissima, un brio da risuscitare i morti; anzi un cronista che masticava di francese, lo profetizzò addirittura un succés de fou rire; tutti poi prevedevano delle piene straordinarie.
Infatti la domenica della prima il teatro riboccava di gente e l’impresario gongolava di gioia: Gaetano, con una febbrile attività andava e veniva per badare al macchinismo. Uscì soltanto alla terza scena, fa salutato da un applauso fragoroso, come autore e come attore, ringraziò, pronunziò le prime parole: ma girando attorno lo sguardo fa assalito da un tremore mortale. Sofia era con sua madre nel fatale palco numero due di prima fila, vestita di azzurro, immobile, seria, attenta: anzi a quella voce aveva trasalito.
Allora Gaetano ebbe un disperato coraggio, il coraggio delle anime buone che si trovano nel più critico, nel più doloroso istante della vita; glielo ispirava il cieco terrore dì perder quella fanciulla che per lui era tutto. Ebbe il coraggio di andare avanti cambiando la voce con un falsetto sgarbato: pel resto era irriconoscibile. Esaltato da tanti mesi di lotta, dalla febbre patita, dalla presenza di Sofia, egli dispiegò quella sera tutta la sua versatilità per sedurre gli spettatori. Vestito da Gilda fa ridicolo sino alla caricatura, forzò la voce ed il gesto: imitò, esagerandole, tutte le grazie svenevoli delle attrici di terz’ordine; vestito da uomo prese tutti gli aspetti: ballò, cantò, suonò il violino, declamò, bastonò, fu bastonato, finse l’uomo ebbro, riempì il palcoscenico ed il teatro della sua voce, della sua presenza. Si ubbriacava di azione, guardava Sofia, la provocava, la sfidava, certissimo di non essere riconosciuto, inasprito dalla sua sventura, con una esaltazione nervosa spinta al massimo grado. La fine della rappresentazione si accostava, Gaetano vi anelava per liberarsi da quell’incubo, per liberarsi da quel soffocamento che gli montava dal cuore alla gola, per trionfare di quel pericolo.... Ecco: le ultime battute si compivano, le signore nei palchi si alzavano, Sofia era già in piedi....
Ma il pubblico, soddisfatto del suo amato Pulcinella lo applaudiva senza fine; fu mestieri fermarsi un minuto per ringraziare e poi giù la tela: un sospiro profondo di sollievo. Niente; gli applausi aumentano, bisogna rialzare il sipario, ringraziare di nuovo: Sofia si mette sulle spalle lo sciallo bianco, ma ha gli occhi fissi sul palcoscenico. Ad un tratto una voce dice una parola; due, tre, cinquanta la ripetono; è un grido solo:
— Maschera, maschera!
Egli era perduto. Il pubblico voleva vedere il suo viso, voleva vedere l’uomo che si nascondeva sotto la maschera di Pulcinella; Sofia lo guardava con la ciera fredda e disdegnosa della prima sera. Esitò...
— Maschera! — ruggì il pubblico sovrano.
Allora con un gesto disperato strappò la sua maschera e mostrò il viso disfatto di un morente: fissò lo sguardo sulla fanciulla; ma sul volto di lei lesse un dolore così fiero, un disprezzo così intenso che abbassò la testa, comprendendo la sua condanna.
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Qui finisce l’idilio di Pulcinella, perchè egli non osò più rivedere la fanciulla, nè essa cercò mai più di lui. Certo Gaetano Starace non era un eroe e non ne morì; neppure tentò suicidarsi; invece si consumò lentamente, recitando ogni sera, facendo prove ogni mattina, divertendo il popolo, scrivendo parodie, vivendo in quel teatro stretto, lurido, nero, con i comici volgari e le donne strillone, buono con tutti, ma sempre un po’ distratto. Si consumò giorno per giorno, senza lagnarsi: ma dopo di lui nessun altro del suo cognome ha ereditato la maschera del Pulcinella; perchè egli è morto solo, senza famiglia, senza figli.