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Tristia
Villeggiatura Lettera aperta al signor Vesuvio

TRISTIA.

Per quella simpatia che ispira un visetto pallido e mezzo divorato da un par d’occhi grandi grandi — per quella attrazione che dispiega un corpicino gracile, esile, perduto nelle stoffe, pieno di dolci languori e di febbrili sussulti — per quella seduzione che esercita una fanciulla pensierosa, intelligente, ammalata e nervosa — per tutto questo e per altro ancora, Gemma era molto amata. Intorno a lei vivevano altre giovinette ridenti di bellezza e di salute; ma ella, senza fare neppure uno sforzo di civetteria, finiva per vincerle tutte. Dapprincipio destava interesse quella testina un po’ curva sotto il peso dei bruni capelli; quello sguardo incerto, stanco, molto spesso smarrito; quella bocca così vivida in quel pallore così cereo; quell’aria di donna che abbia molto amato e molto vissuto in pochissimo tempo. Poi veniva la pietà: si sapeva che la fanciulla era infermiccia, minacciata da una lenta consunzione; che non aveva più nessuno, solo una zia affettuosissima; che era obbligata a vivere sei mesi in campagna sei sul mare, e non ballare mai, e cibarsi come si ciba un uccellino; che in chiesa ed in teatro aveva spesso degli svenimenti: chi non si sarebbe commosso davanti ad essa? Infine una sera, una mattina, un’ora qualunque, Gemma alzava i suoi neri occhi in fronte al suo ammiratore, talvolta si degnava di sorridergli, talvolta disprezzarlo; gli porgeva una manina lunga, candida, calda ed allora... allora bisognava inchinarsi, amare, adorare ciecamente quella fragile e bella creatura. Essa no, non amava; pare che non ne avesse la voglia o la forza; ed il sentimento più sviluppato in lei era un pretto egoismo, che le faceva accettare con una riconoscenza passiva tutte le premure, tutti gli omaggi, tutti gli affetti. Quando qualcuno la metteva sul soggetto dell’amore, essa scuoteva il capo con aria triste, dicendo: «Sto sempre così male, così male; come posso pensarci?» E nessuno osava più proseguire.

Andrea non gliene parlava mai; anzi egli si stimava molto felice che Gemma gli concedesse il solo permesso di amarla. Perchè era nella larga ed esuberante natura del giovane il bisogno d’innamorarsi, di voler bene a qualche cosa di piccolo e di delicato, di proteggere qualche cosa di debole; in lui ci era un po’ del cavaliere errante, un po’ del fanciullone, un po’ dell’artista. Figuratevi un giovanotto alto, robusto, quasi un colosso, con un paio di spalle erculee, un collo di toro ed una testa energica, dalle linee nettamente accusate: una salute a tutta prova. Faceva lunghissime tappe a piedi, in cerca di un problematico tordo o di una volpe incognita e dopo molte ore di cammino ritornava a casa senza l’ombra della stanchezza; montava a cavallo per andar da un paese all’altro e mentre il cavallo si trascinava a stento, egli era fresco come una rosa, capacissimo di mettersi a ballare per una notte intiera. In lui niuna impressione facevano le notti vegliate, le intemperie della stagione, i lunghi viaggi, per mare e per terra: non era mai ammalato. Lo si trovava sempre pronto ad uno svago o ad un’opera buona, sempre ben disposto, mai annoiato, mai triste, incapace di alterarsi o di andare in collera. Non molto intelligente: ma gli aleggiava sul volto qualche cosa che era sorriso, riflesso, luce, un non so che di buono e di poetico. Sì, anche poetico: in quell’ercole moderno vi era la calma e straordinaria, poesia della forza e della bellezza fisica. La forma era piena, completa, armoniosa in lui, la linea grande e sviluppata, il disegno compiuto, l’ultimo tocco, lo svolgimento potente ed equilibrato di tutte le forze. Era una statua greca o romana perduta per la nostra razza mingherlina e sgagliardita: egli ne profittava per essere buono, molto buono.

Un cuore largo, largo: credo di averlo detto. Non poteva sentir piangere una donna o veder percuotere un bambino, non poteva sentir raccontare di miserie, di afflizioni, di morti: diventava rosso e pareva che volesse morir soffocato. In verità era il suo cuore ingenuo che si sollevava contro le ingiustizie e le sventure, era la sua ricca natura che sorgeva per istinto e lo spingeva a mettersi dalla parte dei deboli. Per questo fatalmente s’innamorò della Gemma: egli che stava tanto bene, aveva una grande compassione di lei, che passava dalla febbre all’emicrania e da questa al raffreddore; egli che, postosi in letto, si addormentava sul momento, aveva pietà delle lunghe ed agitate insonnie della fanciulla. Un giorno, vedendola melanconica, le chiese se si sentisse più male:

— Al solito, — rispose lei, con voce breve: — finirò per morirne e nessuno mi avrà amata!

A queste parole il buon Andrea provò un grande rimescolìo: ma l’anima sua n’era andata da Gemma, per farle atto di servitù. Così quel grande cuore divenne un giocherello nelle manine di Gemma, che si compiaceva a farne tutto quello che voleva. Il fiero e robusto garzone, dalla tempra indomabile, si piegò a tutte le delicatezze, a tutte le finezze, a tutti i capricci della sua fanciulla, curvò la sua fibra, diventò per lei una dama, anzi una madre. Fu visto impallidire e arrossire ad ogni cenno di Gemma; chiederle ogni momento della sua salute e dopo vergognarsene e domandarle scusa pel fastidio; guardarla negli occhi per indovinarne i desiderii e rivoluzionare il mondo per soddisfarli; correr dietro al medico ed interrogarlo ansioso e confessargli che tutta la sua vita, tutta la sua felicità era riposta in quella giovinetta inferma! Egli avrebbe dovuto vivere sempre all’aria aperta, in mezzo alla luce: eppure nelle lunghe nevralgie di Gemma, passava le giornate intiere in una camera chiusa, semi-scura, non osando muoversi dalla sua sedia per timore di disturbarla, non osando parlare, respirando un’aria carica del sottile odore dell’etere, soffocando anche i sospiri. Qualche volta, dopo averla lasciata bene ed essersene tornato a casa, gli sorgeva il dubbio che ella fosse ammalata; allora usciva di nuovo ed andava a passeggiare sotto le finestre di lei, contento di vedere che tutto era quieto e silenzioso e che non si mandava pel medico. In ricompensa non voleva nulla, nulla — e se Gemma gli diceva con la sua voce languida ed insinuante: «Come siete buono, Andrea!» egli diventava matto dal piacere, gli scintillavano gli occhi e nell’impeto della riconoscenza si sarebbe prostrato, per sentire sul suo capo il piedino vittorioso della fanciulla.

Ma non sempre costei era umana con lui; gli intervalli di dolcezza erano brevi e rari. Quando Gemma si sentiva meglio, nei bei giorni di primavera, essa si dilettava di quelle premure, di quei sacrifizii, anzi si può dire che cercasse quell’anima sempre fedele, quel cuore sempre sicuro; giungeva sino a domandarsi se Andrea non meritasse di esser amato. Erano i giorni lieti del giovanotto, che si accorgeva subito della buona disposizione: giorni lieti, ma così pochi e scontati dopo così caramente. Per una lieve cagione, per un cielo piovoso, per un capriccio, per un nastro, Gemma ripiombava nella sua noia, nella sua irritazione: i suoi diavoli neri la prendevano pei capelli, ed ella si sfogava, tormentando tutto il mondo. Andrea sopportava, senza mormorare, le parolette amare, gli sgarbi, i lamenti di Gemma: soffriva, soffriva tanto, ma non le rispondeva una parola; lasciava correre la tempesta, chinando il capo, senza sognare neppure d’irritarsi contro la fanciulla. Non ci sarebbe mancato altro! Era invece lei che s’indispettiva di quella rassegnazione; un’ombra nera le passava sulla fronte, le labbra diventavano sottili sottili, stringeva le mani.... dopo, ridiventava sarcastica e volgendogli uno sguardo freddo, gli diceva:

— Avete troppa salute: è una ingiustizia per chi non ne ha.

Povero Andrea, che avrebbe voluto morire mille volte di seguito per lei! Ma essa continuava spietata: gli diceva che sarebbe morta, che l’avrebbero messa giù nella terra nera, dove il sole non entra, e che allora tutti sarebbero rimasti contenti per essersi sbarazzati di lei. A lui venivano le lagrime negli occhi e le rimandava indietro; talvolta doveva alzarsi ed uscir fuori, tanto era grande la tortura che Gemma gli infliggeva. Una sera, una brutta sera essa arrivò fino a dirgli che aveva il presentimento di esser seppellita viva, in uno dei suoi prolungati deliquii: egli sognò per tre notti questo caso orribile. Insomma era una vita crucciata, vita di angosce e di paure, in una continua ansietà del peggio; eppure per questi dolori, per queste torture sempre nuove, l’amore di lui aumentava e dal contrasto traeva novello vigore.

Gemma era ingrata ed ingiusta con lui; essa stessa lo riconosceva nei suoi buoni momenti. Dacchè Andrea l’amava, la salute di lei migliorava, le crisi nervose erano più miti, quasi quasi un po’ di sangue cominciava a rifluire nelle vene impoverite. Quando egli compariva, per influsso benefico, essa si sentiva sollevata e sicura, le sembrava di avere un’egida, un’àncora di salvezza. Quell’ambiente di affetto, di adorazione, d’idolatria di cui egli la circondava, esercitava un’azione vivificante sul suo gracile organismo. Non aveva più paura dell’avvenire, dell’ignoto, della morte, della terra nera: non era egli là, pronto a salvarla da tutto questo? Fra lei e la sventura s’interponeva Andrea; fra lei e la felicità Andrea sarebbe stato intermediario. Egli doveva pensarci, era il suo compito, il suo dovere, la sua consegna.

Ahimè! il soldato dovè deporre la sua arme, dovè lasciare il posto. Il povero Andrea fu preso da una febbre violenta come ne patiscono solo le tempre forti; il giorno seguente il tifo era dichiarato, e nel delirio egli esclamava: «Non fate venire Gemma, non la fate venire!» E poi aggiungeva raccomandazioni, che le badassero, che non la trascurassero, non la facessero uscire con quel cattivo tempo. In capo al fatale nono giorno, egli aprì gli occhi, disse con voce fioca: «Povera, povera Gemma» e se ne morì.

Alla fanciulla ne parlarono poi, con molta precauzione, a gradi, cercando di non affliggerla: lei non rispose nulla, non pianse. Ma la notte si sentì sola, ebbe freddo, ebbe paura e le parve trovarsi senza difesa, in preda a mille pericoli. Volle distrarsi, cercò di farlo, vi riuscì per poco. Pure pensava spesso a quell’onesto e bravo garzone che le aveva voluto tanto bene e che essa aveva tanto mal ricambiato: e per una strana bizzarria d’inferma si pose ad amare quel morto. Come avrebbe voluto rivederlo un sol momento per domandargli perdono! Come si sentiva piccola e meschina davanti a quell’uomo che essa aveva torturato a fuoco lento, sorridendo delle sue lagrime! Come era pentita ed umiliata, come era stata cattiva! L’inverno fu lungo, lungo; Gemma tornò ad ammalarsi; nelle notti della febbre chiamò Andrea ed egli non rispose: eppure quante cose gli avrebbe voluto dire! La fanciulla diventò sempre più magra, sempre più esile; esaltata dalla sua postuma passione, aspettava sempre. Ma egli non venne più ed essa nella primavera pensò di andare a raggiungerlo.


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