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Potrai ben tu, co' tuoi volanti ardori D'angui crinita dal tartareo tetto
Questo testo fa parte della raccolta Antonio Muscettola

XII

AL SONNO

     Dall’ondoso ocean l’asse stellato
trasse la notte. Or delle cure il pondo
deposto avendo omai, gode beato
alto silenzio taciturno il mondo.
     Sparse d’alto sopor premono il suolo
degli antri cavi le romite belve;
né sa de’ venti il temerario stuolo
chiamar feroce a sibilar le selve.
     Della cerulea Dori il popol muto
posa le membra entro l’algoso nido,
e ’n tranquilla quïete il mar canuto
inchina i flutti a riposar sul lido.
     Io sol non poso. L’amorose cure
né men porgono a me sonni interrotti;
sicché, vagando in fra vigilie dure,
sono secoli a me tutte le notti.
     Non giova a me di melibei murici
stender su l’ebre lane il corpo stanco,
se mi sembrano ognor gli ostri fenici
colmi di spine a lacerarmi il fianco.
     Tentai che fusser tomba al mio dolore
d’indomito Lieo tazze spumanti;
ma del Vesuvio il prezïoso umore
tosto dal duol fu convertito in pianti.
     E pur del pianto mio l’onde cadenti
un cor di sasso intenerir non sanno,
e gli ardenti sospir, scherzo dei venti,
per lo vano del ciel dispersi vanno.
     Oh quante volte fra’ notturni orrori
inghirlandai le dispietate soglie;
ma, per mio mal, quegl’intrecciati fiori
giá non fruttâro al tristo cor che doglie.

     Deh, tu, possente domator de’ mali,
ozio dell’alme e regnator di Lete,
dal ciel movendo rugiadose l’ali
all’agitato cor reca quïete.
     Giá non chiegg’io che dalle fosche piume
sparga tutto il sopor nel petto mio;
pago sarò se l’uno e l’altro lume
toccherá, tua mercé, stilla d’oblio.
     Dalle tempeste de’ pensier mordaci
l’animo lasso è per restare assorto;
ma, se tu vieni a me, fra dolci paci
ritroverá nelle tue braccia il porto.
     Benché di neri stami a’ giorni miei
componessero il fil perfidi fati,
per te, placido dio fra gli altri dèi,
non dissimil sarò da’ piú beati.
     Tu, delle menti languide ristoro,
della figlia di Temi inclito figlio,
se ingiusto è il male onde penando io moro,
porgi i tuoi lacci a l’uno e l’altro ciglio.
     Se nell’attica terra altar famoso
con l’ardalide muse unito avesti,
la tua destra gentil grato riposo
ad un seguace delle muse appresti;
     ch’io di vin coronando ampi cristalli
al nume tuo gli offerirò divoto;
poi di vegghianti e strepitosi galli
un’ecatombe svenerotti in voto.
     Farò ch’a gloria tua piova su l’are
di papaveri molli un largo nembo,
ed avverrá che da’ miei preghi impare
la bella Pasitea d’accòrti in grembo.
     Su vieni, o sonno, e ’l tuo favor m’apporte
contro al tiranno amor pietosa aita.
Vientene, o sonno, e per beata sorte
dal fratel della morte abbia io la vita.

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