< Daniele Cortis
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CAPITOLO XIX.


«Devo andare?»


Cortis minacciato di congestione cerebrale, si era riavuto rapidamente, sì per la gagliardìa della sua complessione, sì per l’aiuto pronto e vigoroso dell’arte. Gli pesava di restare alla Camera; benchè, in quei giorni di vacanze parlamentari, la sua presenza non fosse d’impaccio ad alcuno. Sospirava le sue montagne, e i medici pure consigliavano riposo assoluto, aria libera, pura, appena fosse possibile, evitando l’inutile disagio di due trasporti, e, ciò che più importava, l’irritante contatto della signora Cortis.

Della minacciata congestione gli era rimasto un grande abbattimento di spirito, una tristezza profonda che gli metteva spesso le lagrime agli occhi. Non aveva più fede nell’avvenire nè in sè. Si vedeva gittato dalla corrente politica sulla riva, come un avanzo di naufragio. Chiedeva avidamente chi venisse a prender sue notizie, pronto sempre a interpretar male una mancanza, a immaginar noncuranze, abbandoni. Elena ne soffriva assai, benchè i medici le affermassero ch’erano fenomeni soliti, passeggieri. Lo rincorava, gli proibiva con la sua dolce voce sommessa di ripetere quei brutti discorsi. Egli allora le era tanto grato, e ubbidiva per un po’; quindi ricominciava. Soffriva male di star senza lei, la supplicava di perdonargli le sue importunità e se ne scusava con dire che aveva perduto tutto, che solo l’amicizia di lei gli restava. E voleva farsi promettere che sarebbe venuta a Passo di Rovese, per trattenersi a lungo. Ella si schermiva il meglio che poteva dal promettere, cercando in pari tempo di non irritarlo come le era avvenuto la prima volta che s’era parlato di Passo di Rovese e che lei, nel dubbio di poterci venire o no, aveva accennato a suo marito. Cortis s’era fatto cupo, non aveva più aperto bocca per un’ora.

Era stata lei a persuaderlo di chiamare sua madre, il 28, e di parlarle invece di mandar messaggi come egli avrebbe voluto. Colei ci andò difilata dalla Minerva. Cortis le significò molto freddamente e recisamente la propria intenzione di partire presto per l’alta Italia e la propria volontà ch’ella rimanesse in Roma. Parlò in un tono che non ammetteva osservazioni nè repliche. La signora non potè tuttavia stare zitta: augurò a suo figlio, con voce grave e compunta, una cosa ben difficile, una cosa impossibile: che altri affetti potessero sostituire presso di lui l’affetto di sua madre! Soggiunse, congedandosi, che sentiva il dovere di perdonare a quanti le avevano fatto del male, anche ai crudeli che l’avevano esclusa dal cuore di suo figlio. Sapeva bene da chi veniva il colpo, e pregava il cielo che volesse aprir gli occhi a suo figlio sui pericoli di certe amicizie equivoche. Pur troppo non erano più equivoche per nessuno, a Roma, le sue amicizie.

Quando, partita la signora, l’infermiere di Cortis gli rientrò in camera, lo trovò agitatissimo, tremante; credette ad un accesso di febbre, voleva far venire il medico. Ma Cortis glielo proibì con ira; ordinò che si facesse avvertire, invece del medico, la signora baronessa; e poi, quando l’infermiere stava per uscire, lo richiamò in fretta, gli levò l’ordine.

Più tardi, nella serata, venne il dottore, venne il senatore Clenezzi e finalmente anche il conte Lao. Cortis si commosse moltissimo di veder quest’ultimo. Gli chiese poi subito d’Elena e seppe da lui ch’era andata in traccia di suo marito e che per quella sera, probabilmente, non l’avrebbe veduta. Si chiuse allora in un silenzio cupo. Intanto il dottore si lagnava con Lao della poca quiete che si lasciava all’ammalato; poichè conveniva ancora chiamarlo così quantunque l’attacco, non grave, di congestione fosse stato vinto rapidamente. Il turbamento nervoso era ancora molto sensibile. Quei nervi lì volevano una tranquillità materiale e morale impossibile a ottenere in Roma, nelle condizioni di Cortis, che soffriva così di veder gente come di non vederne. Ci voleva riposo, aria dei campi subito, subito; era opportuno di affrontare, per tale beneficio, anche il disagio di un viaggio lungo. Poichè il signor deputato possedeva questa bella villeggiatura di cui il dottore aveva udito parlare, poichè i suoi signori parenti gli erano anche vicini di campagna e avevano la buona disposizione di tenergli compagnia, niente di meglio che partire il più presto possibile.

«Anche domani?» disse il conte Lao guardando Cortis.

«Perchè no?» rispose il dottore. «Anche domani.

Cortis non fiatò.

Allora Lao descrisse al dottore Passo di Rovese e la vita che Cortis vi farebbe, almeno per qualche tempo; perchè fino a guarigione intera e sicura il signor Daniele non si lascerebbe andare a Villascura, si terrebbe prigioniero in casa Carrè. Lao lo guardava spesso, parlando; spiava se ci fosse qualche indizio di sgelo. Nulla. Disse allora dei passeggi che il convalescente farebbe nel proprio giardino di Villascura e ne raccontò i boschi, i valloni, il lago, le fonti. Cortis, coricato sul fianco, col viso alla parete, non si moveva, pareva che dormisse. E Lao proseguì a dire che sua nipote era innamorata di quel giardino. Anche lei ci andrebbe ogni giorno, sicuramente. Amava tanto i belli alberi! Il suo prediletto era un superbo platano col tronco bipartito, lontano da casa, lungo una stradicciuola pittoresca.

«Un tiglio» disse Cortis, senza voltarsi.

«Benedetto da Dio» esclamò Lao, «che la parla! Un tiglio, sì, signore, giusto un tiglio.

Allora Cortis osservò, con un’arte suggestiva affatto nuova in lui, ch’Elena, naturalmente, si tratterrebbe a Roma, non verrebbe nel Veneto. Lao protestò contro il naturalmente. Perchè naturalmente? Forse subito, forse tra qualche giorno verrebbe anche lei di certo. Cortis la vedrebbe l’indomani mattina. Allora si potrebbe fissare tutto d’accordo col signor dottore, che favorirebbe di lasciarsi vedere anche lui l’indomani mattina, all’ora solita. Cortis tornò di buon umore tanto che il medico esortò Lao a partirsene con lui perchè non avesse a parlar troppo, a sovreccitarsi, e quindi forse a soffrire d’insonnia nella notte.

All’indomani mattina Lao capitò verso le nove, solo. Elena era rientrata tardi, si sentiva stanca. Sarebbe venuta, forse verso mezzogiorno. Del resto lui doveva fermarsi a Roma per affari, non sapeva ancora quanto; ma Elena e sua madre erano disposte a partire con Daniele anche subito. Questi balzò a sedere sul letto. Il diretto diurno per Firenze non partiva alle dieci e quaranta? C’eran quasi due ore di tempo. Lao si mise a ridere, dicendo:

«Eccolo la! Un ragazzo!

«Già» fece Cortis, alquanto mortificato, «per le signore sarà impossibile, ma per me andrei certo.

Intanto sopraggiunse il medico e dopo un breve battibecco, si dovette, per il minore dei mali, accontentare Cortis che protestava di non voler differire la partenza oltre quella sera stessa; e fu stabilito che partirebbe col diretto in un coupè a letto e che il medico lo accompagnerebbe almeno fino a Bologna.

Lao usciva per andar ad avvertire le signore, quando Cortis lo richiamò per dirgli, con una repentina commozione inesplicabile, di pregar Elena a volersi recare da lui tosto lo potesse.

Ella era appena alzata quando lo zio le riferì questo invito. Andò subito a Montecitorio.

Cortis la ricevette con le lagrime agli occhi, le domandò se sapesse ch’egli sarebbe partito per il Veneto la sera stessa, se fosse vero che sua madre e lei si disponessero a partir con esso. Elena gli rispose di sì semplicemente, senz’altre spiegazioni. Egli le disse allora ch’era stato tanto felice di apprenderlo dallo zio Lao, che questa felicità gli aveva fatto dimenticar tutto fino a pochi momenti prima, quando gli era balenato il dubbio di commettere una cattiva azione. Ora voleva chiederne a lei, ne andasse pure tutta la sua felicità! Elena non capiva. Egli le raccontò la visita di sua madre, ripetè le ultime parole di lei. Soggiunse che se il mondo era veramente tanto maligno, correva forse obbligo a lui di avvertirnela, di rinunciare alla sua compagnia in viaggio e all’ospitalità di casa Carrè.

«Perchè?» diss’ella. «Per il mondo? Che importa il mondo?

Cortis non rispose parola, ma le prese una mano, se la recò alle labbra, ve le impresse con passione. Si scambiarono un lungo sguardo in silenzio. Le labbra di lei avevano dei moti convulsi, lo sguardo una intensità paurosa. Ella pensava che il suo era quasi un tradimento, poichè Cortis non sospettava certo la terribile risoluzione di lei, il dolor mortale che lo attendeva. Sapendo di nascondergli questo, a lui che l’amava tanto e così nobilmente, Elena si sentiva portare nelle sue braccia da una tenerezza, da un rimorso, da uno struggimento indicibile, da un bisogno di confessargli tutto, di piangere sul suo petto. Solo la tratteneva una muta forza, forse un ignoto spirito superiore.

«No» sussurrò con dolcezza, ritirando la mano adagio adagio. «Il mondo non mi fa niente, ma bisogna essere calmi, bisogna essere come vecchi amici di sessant’anni, altrimenti non posso venire.

«Puoi, puoi» diss’egli con voce accorata, con uno sgomento in viso da fanciullo colto in fallo. «Scusami, non sono ancora forte, vedi, ma lo sarò. Oggi mi pare già di sentirmi meno nervoso di ieri.

Ella non rispose, gli sorrise. Avrebbe voluto dirgli che lo stimava infinitamente migliore di sè, che si era sentita, un momento prima, tanto debole, tanto in balìa sua se avesse voluto, e non meritava quelle care parole timide.

Tacquero per un poco, entrambi. Cortis aperse poi la bocca per parlare, ma non ne usciva voce alcuna.

«Cosa?» diss’ella piano.

Egli esitò un istante e rispose:

«Niente.

Ma Elena intese che qualche cosa voleva dire e aspettò in silenzio. Infatti, egli mormorò poi senza guardarla:

«E ti si permette di partire stasera con me?

«Debbo parlare o scrivere» gli rispose, «ma vengo certo.

Cortis la pregò di scrivere. Un colloquio gli metteva paura. Non si sapeva mai che ne potesse uscire. Perchè non scriverebbe subito? Lì c’era carta, penna e calamaio. Poi l’usciere porterebbe la lettera.

«Debbo scriver qui?» diss’ella, ancora incerta, parlando a sè stessa.

Si decise e sedette al tavolino. Lo aveva tutto in testa quel che doveva scrivere, ma pure indugiò alquanto prima di cominciare. Come le batteva il cuore lì in presenza sua!

«Ho trovato tuo zio di buon aspetto» disse Cortis.

Ella non rispose e scrisse:

«Parto questa sera per Passo di Rovese con mia madre e con Daniele.

«Ad andarci ora in tale compagnia faccio bene; ma dovunque io possa trovarmi, in qualunque momento tu me lo chieda, terrò la mia parola. Tu intanto non ne parlare a nessuno. Quando la cosa si saprà, io desidero essere già partita, evitare a me e ad altri molte pene inutili.

«Venuta l’ora, tu non avrai che a scrivermi, indicando addirittura il porto d’imbarco, il bastimento, il giorno della partenza, tutto, con la massima precisione. Vorrei che il mio viaggio fosse il più diretto possibile; e vorrei anche partire da Venezia ch’è a quattro ore da Passo di Rovese. Ma ho paura che da Venezia non ci sieno partenze per l’America.»

Elena restò un momento di scrivere.

«Quanto tempo» disse Cortis, piano «che non ci troviamo insieme a Passo di Rovese, in maggio! Dobbiamo leggere Shakespeare nei giardini, questo maggio. Scusa, scusa che ti disturbo» soggiunse perchè lei non rispondeva, pensava con una mano sugli occhi.

Era un grido, un angoscioso grido che le rompeva in quel punto dal fondo dell’anima: «Devo andare? Devo proprio andare?» E il cuore le si sollevava, rispondeva: «No, no» con una violenza! Che sarebbe poi là, a Passo di Rovese? Se la forza le mancasse, se si lasciasse cadere? Era stato troppo facile di promettere; e facile sarebbe stato di partire sull’atto senz’avere tempo di veder nessuno, senza aver tempo di pensare!

Riprese a scrivere:

«Ti prego poi d’avvertirmi quanti giorni prima sarà possibile, perchè avrò pur bisogno d’un po’ di tempo.»

Appena scritte queste righe, se ne pentì amaramente. Avrebbe dovuto chieder l’opposto, un richiamo immediato, dalla sera alla mattina, che non lasciasse agio alle tentazioni; e invece la mano debole, la mano vile aveva scritto così. E ora? Non voleva farsi vedere da Cortis a lacerare la lettera, a scriverne un’altra. Il cuore le batteva a furia come se credesse già di aver cominciato a vincere col suo «no» violento.

«Non posso scrivere» diss’ella alzandosi. «Ho paura di non aver trovato il tono giusto. È meglio che gli parli.

Cortis ne parve atterrito, la supplicò di non farlo, di finir la lettera. Poteva cambiarla, se voleva, scriverne un’altra.

Elena si ripose a sedere e disse:

«Proverò.

Subito le si affacciarono argomenti di non mutare le ultime righe. Non era una partenza, quella; era una fuga. Occorreva del tempo per disporla. Bisognava venire dalla campagna in città; ci voleva un pretesto preparato di lunga mano. Non era facile trovarne uno lì per lì. Ogni novità repentina, insolita, congiunta ad un turbamento morale troppo profondo per potersi interamente dissimulare, desterebbe sospetti almeno nello zio Lao. Poi qualche preparativo di viaggio ci vorrebbe bene; più lungo perchè segreto.

Ma qui il cuore le disse impetuosamente un’altra cosa. Se distruggesse la lettera? Se andasse via senza scrivere nè parlare?

«Oh» diss’ella «forse lascerò andare così.

Cortis suonò, ordinò all’usciere che portasse la lettera al Senato.

«Posso mandarla io più tardi» sussurrò Elena; ma Cortis non sapeva veder ragione di questo indugio. Ella scrisse la chiusa e l’indirizzo, sentendo quasi, intorno a sè, il fragor del mare. C’era tempo ancora.

«E se non andasse bene?» diss’ella con voce tremante. «Se facessi a meno di scrivere?

«No, no» rispose Cortis. «Son sicuro che va benissimo. Qua, qua.» Prese lui la lettera e la diede all’usciere.

«Subito» diss’egli. E soggiunse vôlto ad Elena: «al Senato o a casa sua?» Parve ch’ella non avesse inteso.

«Al Senato o a casa sua?» ripetè Cortis.

«Via delle Muratte» diss’ella sottovoce, «numero 54.

L’uomo se ne andò con la lettera. Ah Dio, se Cortis si pentisse di quella sua violenza, se richiamasse colui, se sospettasse, se indovinasse! No, no, nulla di questo poteva più succedere, l’usciere scendeva le scale...

«Cos’hai?» disse Cortis.

Ella non rispose nemmeno, perchè in quel momento entrava il senatore Clenezzi. Gli corse incontro voltando le spalle a suo cugino, gli fece un’accoglienza così cordiale che il senatore ne andò in solluchero. Cortis lo aveva mandato a chiamare per pregarlo di raccogliergli certe carte che aveva a casa e voleva portar seco. Ma il senatore, ch’era accorso in fretta e in furia all’invito, non sapeva più spicciarsi ora da donna Elena, era lì tutto sorrisi, inchini, complimenti.

«Ehi, senatore! esclamò Cortis dopo un po’.

«Son qui, son qui» rispose l’altro. «Son qui da lei. La mi scusi, la mi comandi. Son qui, son qui.

«E io vado via» disse Elena. «A stasera, alla stazione.

Prima ancora che Cortis e Clenezzi potessero tentare di trattenerla, era scomparsa.



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