< Daniele Cortis
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CAPITOLO II.


Una cosa grave.


«Avanti» disse il conte Lao «e chiudi presto che viene un’aria d’inferno da quella porta. È ora che ti si veda! Ed è o non è un gridare che fanno quei diavoli di preti? Corpo, e non poter andar giù con un bastone! Non sa far altro tua madre che invitar preti! Saranno tutti ubbriachi, già. Che vino ha dato quell’oca?

Elena, seria seria, fece una profonda riverenza.

«Vado a vedere, conte» diss’ella.

«Ah! Scempia!» rispose il conte Lao, rabbonito. «vien qua, andiamo. Scusa, la mi vien su, saranno dieci minuti, fresca come una rosa, a domandarmi se voglio niente. Bisogna avere una testa da passera. Se voglio niente! Con questo baccano che passa i muri! Voglio che li mandiate tutti al diavolo, dico. Ma, dice, credevo che non udiste. Bella, sai? Non bastano quei pochi malanni che ho; anche sordo ho da essere. Andiamo, avanti! Cosa fai là sulla porta? Perchè mi guardi in quel modo? Sarò pallido, ah? Sarò verde o almeno giallo? Avrò l’aria d’un morto?

«Ma no, ma no, zio; hai l’aria di un orso in collera.

«D’un orso bianco?

«D’un orso grigio, zio.

Invece di rispondere il conte Ladislao trasse di tasca uno specchietto e si avvicinò alla finestra.

«Oh no» diss’egli «mica pallido. Eh, niente. Solo un pochetto.

Era pallido infatti: d’un pallore accresciuto da due grandi occhi neri, dalla barba nera, corta ma foltissima, dall’alta fronte giallognola, dove i capelli brizzolati facevano appena una punta.

Voltò le spalle a sua nipote e si guardò la lingua.

«Sei bello, zio,» diss’ella. «Sei una bellezza; sta tranquillo.

Lo zio si voltò in fretta, si eresse.

«Dopo tutto» esclamò «se non fossi malato...

Era alto e di persona elegante; un gran naso aristocratico non guastava la sua fisonomia, tra sentimentale e beffarda.

«Se non sognassi di essere malato» disse la baronessa Elena.

«Ah, sogno? La faccio per piacere questa vita? Mi diverto io, a non digerire, il giorno, e a non dormire, la notte? Mi diverto a esser pieno di dolori tredici mesi all’anno? Sentili quei mascalzoni di preti! Oh mi diverto! Taci, vien qua, e suonami ancora la pastorale di Corelli.

Si sdraiò in una poltrona rintanata dietro un tavolino, nell’angolo più buio dell’ampia camera, più lontano dalla porta e dalle tre finestre. Alla sua dritta, il piano verticale, appoggiato al muro, era aperto.

«Non ci vedo, zio» disse Elena.

«Va là che la sai a memoria!

Egli si pose a canterellare il motivo della pastorale con una voce dolce, intonatissima, piena di sentimento.

«Non ho voglia, stasera, di suonare.

«Perchè?

Elena non rispose. Seduta, tra una finestra e la scrivania, in faccia a suo zio, lo guardava accarezzando un libro aperto, posato là a sbieco sull’orlo della scrivania stessa. Il conte Lao interpretò certo quel silenzio in un dato modo perchè non insistette, e accese una sigaretta.

«La colpa non è certo mia» diss’egli, buttando nel portacenere il fiammifero acceso.

«Che colpa, zio?

Il conte Lao appoggiò le braccia sul tavolino e guardò il fiammifero fin che si spense.

«Se siamo a questi passi» diss’egli.

Elena non capiva.

«Val poco quel poeta inglese» esclamò il conte Lao, come per rompere una rete di pensieri penosi. «Pochissimo! Pieno di barocchismi. Me lo immaginavo. Il cielo che diventa sette volte più divino per l’assunzione di Mazzini! Corbellerie. E genitivi, poi, genitivi! Santo Dio!

«A che passi, zio?» disse Elena, alzandosi.

Venne a sedergli vicino, sullo sgabello del piano.

«Eh!» rispose lo zio. «Dove hai la testa adesso? Dimmi un po’: hanno giuocato al biliardo poco fa, prima del temporale?

«Sì, zio.

«Anche tuo marito, già?

«Sì, lui e Perlotti.

«Filosofo, lui!

Restò pensoso un momento, poi scattò in piedi gittando via la sigaretta, andò ad afferrar per le tempie Elena, che tentò, con alterezza involontaria, rialzar la testa.

«Senti» diss’egli curvandosela a forza sul petto: «hai una gran canaglia di marito». Le chinò le labbra sui capelli e disse sottovoce:

«Lo accoppo, io.

Elena si sciolse sdegnosamente da quella stretta, guardò suo zio con occhi scintillanti.

«Sai che soffro» diss’ella «di questi discorsi. Sai che mi offendono. L’ho ben conosciuto, prima di sposarlo. Gli ho ben permesso d’essere mio fidanzato prima e mio marito poi. Pensa quello che vuoi, ma non parlarmi così. Non mi ha ingannata, è stato sempre lo stesso uomo. Non sarebbe niente affatto nobile, da parte mia, di permettere che mi si parli così.

Gli voltò le spalle e andò a guardare dalla finestra, mentre suo zio, irritato ripeteva:

«Giàa! Giàa! Giàa! Perchè nessuno sa ch’eri una bambina! Perchè nessuno sa che te l’hanno imposto!

«No, niente imposto!» rispose la giovane signora voltandosi impetuosamente. La mamma mi spingeva forse un poco, ma il povero papà mi ha ripetuto fino all’ultimo momento: ricordati che sei libera, ricordati che c’è ancora tempo! E non ce n’era bisogno, perchè non è vero ch’io fossi una bambina. Diciannove anni, avevo; e non capivo le cose troppo male!

«E allora, perchè hai detto di sì? Ti giuro che se c’ero io non lo dicevi!

«Oh, signor zio!» diss’ella con alterezza. Sdegnava di parlare, di dire che aveva accettato il primo marito offertole, perchè certi intrighi di sua madre non le piacevano.

«E adesso» proruppe «cosa c’è di nuovo? Che orribili cose ha fatto mio marito? Vi avrà chiesto un po’ dei vostri danari, già. Sarà per questo che la mamma ha le malinconie e tu le convulsioni.

«Ah, corpo!» esclamò lo zio voltando e squassando lentamente il capo verso degli esseri immaginari, dei giudici d’appello invisibili «A voialtri, cari.

Alzò le mani, le lasciò ricadere sulle coscie rumorosamente.

«Non ne parliamo più» diss’egli.

Sedette al piano come se non fosse affar suo e suonò, a mezza voce, una polka sciocca, brontolandosi mentre suonava:

«Bella educazione che ha avuto!... Sì, perdiana!... Un po’ dei vostri danari, cosa serve?... Un po’ di danari, euh! Bella educazione!... Sì, perdiana... Bellissima.

«Smetti, smetti, zio» disse Elena. «Come sei triviale stasera! Non ti ho mai conosciuto così.

«Balla, cara, balla!» rispose Lao, sdolcinato. «Ma balla, tesoro. Non senti che suono? Cos’hai da saper tu di danari! Balla che sei beata.

«Che sciocchezze, zio! Vuoi che mi crucci per i danari! Smetti! È stupida, sai, questa musica.

Il conte afferrò a due mani lo sgabello su cui stava seduto e si girò di netto.

«Oh lo so» diss’egli «e mi dirai poi cosa sono i tuoi discorsi. Non ti fa niente a te che tuo marito, dopo essersi giuocata la roba sua e la tua, pazienza! si voglia giuocare anche la nostra? Non ti fa niente a te che venga qui a fare il prepotente, a pretendere del danaro che non gli spetta, a dire che tu spendi e spandi...

«Può essere» disse Elena fredda.

«... a minacciare di confinarti per sempre a Cefalù, come una moglie indegna, se non gli si dànno questi danari.

La baronessa trasalì e chiese bruscamente:

«Lo ha detto a te?

Il conte Lao si mise l’indice al petto, alzando le sopracciglia.

«A me?» diss’egli. «Glieli avrei dati subito e poi lo avrei buttato dalla finestra, lui e i danari in un mucchio. Ha detto così o press’a poco, a tua madre.

«Quando?

«Stamattina. Mi pare impossibile che tu non lo sappia.

«Non lo sapevo.

«Allora non sai neppure cosa gli ho fatto dire, io, al tuo senatore.

«No.

«Gli ho fatto dire che venisse da me a ripetere questa bella cosa. Ma già tua madre non gliel’avrà detto. Tua madre ha sempre voluto star col diavolo e anche con l’acquasanta. Non sa che piagnucolare, lei. Di’ la verità che non sapevi niente?»

«Sapevo che mio marito ha bisogno di danari. Prima di venir qua, mi ha pregato, alla sua maniera, di domandarvene. Io gli dissi che lo lasciavo perfettamente libero di trattar lui con voialtri come voleva, ma che, per conto mio non vi avrei detto una parola.

«Chi sa che scena ti avrà fatto!

«Scena? Non me ne ha parlato più. Non me ne fa, scene.

«Non te ne fa?

Il conte Lao pareva incredulo.

«Eh no, proprio scene, no» disse la baronessa, quasi sorpresa di dover affermare una cosa due volte. «Sai, se me ne facesse, con poche parole lo metterei a posto.

L’altro tacque.

Ecco dunque, pensò Elena, la cosa grave. Tanto grave davvero? Le gesta di suo marito la toccavano poco. Era poi evidente che lo zio non l’avrebbe lasciata confinare a Cefalù. Si crucciava quasi, malgrado se stessa, che Daniele avesse detto così. E sempre veniva giù a distesa la pioggia eguale, l’ampia voce triste parlava ancora.

«Zio» disse la baronessa, «cosa t’è venuto in mente di raccontar queste cose a Daniele?

«Io? Perchè? Non ho raccontato niente, io, a Daniele.

«Niente? Eppure l’ho visto adesso che usciva di qua e mi ha detto ch’era succeduta una cosa grave.

«Una cosa grave? Non so.

Elena sentì nella voce di suo zio un sospetto cambiamento di tono, una indifferenza esagerata.

«Non ti par grave» diss’ella sorridendo «una relegazione a Cefalù?

«Ah sì, questo sì; sarà stato questo.

«Ma zio...

«Oh, sai che mi secchi!» esclamò il conte. «Non si tratta nè di tuo marito, nè di te, nè di me; e se vuoi delle confidenze, va da Daniele.

Elena non rispose.

«Scusami» ripigliò suo zio. «È una cosa che riguarda lui solo. Non posso parlare.

Ella si pentì d’aver palesate quelle due parole di suo cugino che potevano attestare un’amicizia molto intima e confidente. A un tratto tese l’orecchio, s’avvicinò alla finestra e l’aperse. Una gran voce d’acqua corrente entrò nella camera.

«Sei matta?» gridò il conte Lao, scappando, col bavero del soprabito alzato, alla poltrona d’angolo. «Chiudi per amor di Dio! Cosa diavolo fai?

Non pioveva più; appena qualche grossa goccia batteva sulla ghiaia dalle grondaie.

«Se non piove, zio! Se non c’è un fil d’aria!

«Oh non c’è aria! Santo Dio, non c’è aria! Non la chiude mica, sapete. Con questo umido! Il Rovese che pare in camera e non ci sarà aria, ohe. Andiamo, finiamola, serra!

Elena non gli diede retta.

«Scusa, zio» diss’ella in fretta e sottovoce, «ho udito aprire l’uscio della sala. Voglio vedere chi esce.

Uscivano i preti con un grande stropicciar di piedi, con una ressa di strascicati saluti. Il senatore era con loro. Prese a braccetto il parroco di Caodemuro e gli disse qualche cosa all’orecchio. Tutti gli altri gli si strinsero intorno. Colui, un prete stecchito, rubicondo, dagli occhiali d’oro rispose forte:

«La sa, noialtri si deve star col papa; direttamente non si può far nulla. Non expedit. Io se avessi cento voti e potessi votare, certo non ne darei uno solo a questo signore qui, e sarò molto contento se farà un bel fiasco. Ma ho paura, perchè qui votano tutti per lui. Quello che possiamo far noi è di persuaderne qualcuno a star a casa. Ma poi...

«Anniamo, anniamo avanti» disse il senatore. Non gli garbava che si parlasse forte di queste cose tanto vicino a casa. Ma in quel momento Elena lo chiamò dalla finestra.

«Carmine!

Il barone si voltò, guardò in su. I preti si voltarono pure, salutarono con certa sgomenta umiltà piegando il collo, alzando gli occhi. La baronessa accennò appena del capo e chiese a suo marito se Cortis fosse ancora in sala.

«Sì» diss’egli «Perchè?

«Perchè gli debbo parlare» rispose Elena tranquillamente; e chiuse la finestra.

«E la mamma?» diss’ella, volgendosi a suo zio. «Cosa dice la mamma?

«Hai chiuso bene?» rispose il conte, tirandosi giú il bavero. «Lei si cruccia, lei piange, lei se la piglia con me perchè non sono persuaso niente affatto di accontentare il suo signor genero. Nè mi persuaderò mai. Se vuole far lei dei sacrifici con la roba sua, padrona: ma non credo che ci senta molto da quell’orecchio.

«Povera mamma!» disse Elena, sorridendo. «Le lagrime le costano meno. Addio, zio.

Gli stese la mano. Il conte Lao la strinse forte fra le sue, la trattenne un momento senza parlare.

«Senti» mormorò con voce soffocata. «Mi conosci, ah?

Ella gli offerse anche la sinistra, e raccolse a sè, con impeto affettuoso, le mani di lui.

«Basta» diss’egli.

Elena era ben sicura di quel virile cuore, tanto leale, tanto caldo sotto un’inerzia lunatica, nata da qualche difetto segreto dello spirito, favorita dalle tradizioni nobiliari, cresciuta con l’abitudine, sancita da sofferenze reali nel corpo o nella immaginazione, confermata dallo scetticismo amaro dell’uomo come degna del mondo e di lui.

Un domestico venne a vedere se il signor Daniele avesse dimenticato lì i suoi guanti.

La baronessa si spiccò in fretta da suo zio, balzò fuori della stanza, scese in loggia per un’oscura scaletta di servizio. Verso il fondo trovò qualcuno che saliva.

«Chi è?» diss’ella.

«Quel del pesce, contessina: Pitantoi.

«Oh bravo! Tu voti per il signor Daniele?

«Io? Quando voteranno i marsoni e tutto quanto il pesce popolo, voterò anch’io, signora contessina. Ma dicono che la legge non sia ancora fatta.

«Non sei elettore, tu?

«Mi pare di no, signora contessina. Cosa vuole? Abbiamo una manica di elettori, qua, che non mi degnerei neanche, la guardi. E poi...

La baronessa gli passò davanti, scese velocemente. Cortis entrava con Grigiolo dalla loggia nel porticato rustico che la continua, quando Elena vi entrava pure dalla scaletta segreta.

«Parti?» diss’ella.

Egli le stese la mano.

«Sì» rispose «vado a casa.

«Perchè ti vorrei dire una parola» replicò Elena.

Il dottor Grigiolo diede due passi indietro rispettosamente.

«Mi fa piacere, Grigiolo, di avvertire la mamma che sono uscita un momento con Daniele?

Elena parlava sorridendo, con la più franca indifferenza.

«Volo, baronessa, volo» rispose lo zelante giovinotto. «Dunque, signor Cortis, per parlare di questo programma vengo da Lei domattina?

«No,» rispose l’altro «io domattina vado via.

«Come, va via? Ma torna presto?

«Eh, non lo so.

«Non lo sa? Ma prima dell’elezione, spero?

«Non lo so.

«E allora, cosa facciamo? Scusi per carità, baronessa.

«Oh» esclamò Elena, «La prego! Se m’interessa moltissimo tutto questo! Sono un poco agente elettorale anch’io, sa.

Intanto Cortis rifletteva.

«Venga stasera» diss’egli.

Grigiolo s’imbarazzò un poco. La contessa Tarquinia contava su di lui per far divertire le signore. Come si poteva adesso...?

«Venga quando la società sarà sciolta» disse Cortis. «Alle undici, a mezzanotte, quando vuole.

L’altro, a corto di scuse, masticò un bene mal soddisfatto, pieno di pigrizia e di sonno anticipato. Ma Cortis, fosse perchè non comprendeva neppure queste mollezze, fosse perchè aveva il capo ad altro tenne la cosa per ferma e, congedato il giovane, si voltò ai grandi occhi gravi che lo interrogavano.

Rispose loro con uno sguardo pur grave e lungo. Nè l’uno nè l’altra parlarono. Dopo momenti che a lui parvero eterni s’incamminarono tutti e due, adagio, verso il portone, per un tacito consenso non sapendo chi si fosse mosso prima. Giunsero in silenzio all’aperto dove una stradicciuola corre a destra le praterie verso Villascura e casa Cortis, un’altra scende a sinistra nel fragore del Rovese, in faccia alle nude scogliere imminenti del monte Barco, una terza va diritta a tre grandi abeti che dal ciglio d’un pendio fronteggiano la vallata. Elena trepidò pensando che forse suo cugino avrebbe preso a destra, verso casa sua. Potrebbe seguirlo ancora, in questo caso, costringerlo, quasi, a parlare? Egli tirò avanti diritto, verso gli abeti. Le balzò il cuore, una vampa le salì al viso.

«Cara Elena» disse Cortis.

La maschia voce morbida e sonora cadde spossata come sotto un dolor mortale.

«Una cosa grave» diss’egli; e si fermò, guardò sua cugina. Dovette leggerle una gran commozione in viso, perchè soggiunse subito premurosamente:

«No, cara, non è una cosa più forte di me.

«Lo credo» diss’ella guardando diritto avanti a sè con gli occhi vitrei. Non pareva più, nè all’accento, nè allo sguardo, la stessa Elena che aveva parlato, due minuti prima, al dottor Grigiolo.

«Tu la devi sapere» soggiunse Cortis «ma non è facile il dirla.

«Non dirmi niente» rispose Elena sottovoce, sempre senza guardarlo. «Sono stata una stordita di venire a impormi così.

Pensò che, a rigore, era ancora in tempo di non imporsi e stese la mano a suo cugino con un sorriso forzato.

«Buon viaggio» diss’ella.

Egli fece un atto d’impazienza e disse solo:

«Oh!

La giovane signora arrossì, come se in quell’oh avesse inteso ricordarsi, con affettuoso rimprovero, tante cose intime, tanti segni d’un’amicizia più sentita che espressa. Ritirò la mano e disse timidamente:

«Scusa.

«Va bene» rispose Cortis, «Andiamo avanti, e pensa se, col tuo istinto, puoi indovinare qualche cosa.

Fecero alcuni passi in silenzio. Adesso Elena figgeva a terra gli occhi veementi.

Rialzò a un tratto la testa.

«Mio marito?...» diss’ella. Non l’aveva ancor detto che Cortis rispose: «No, no!» Ella si pentì subito amaramente, s’irritò con sè stessa. Suo marito non era mai nominato nelle conversazioni fra lei e Cortis. Non un atto era seguito, non una parola era corsa fra loro di cui egli potesse dolersi.

Intanto erano giunti agli abeti che rumoreggiavano in alto, pieni di vento, e piovevano grosse gocce. A sinistra il più vecchio dei tre inclinava le sue lunghe frange nere sull’angolo dell’altipiano e sui rapidi declivi che scendono verso le praterie e verso il fiume.

A destra la strada svoltava giù per la costa erbosa.

«Dove andiamo?» disse Cortis.

L’uno e l’altra, nel loro turbamento, erano entrati, camminando diritto, nell’erba folta, fradicia di pioggia. Tornarono sulla strada, e Cortis non parlò più fino a che non furono discesi tanto nel quieto grembo della costa, da venirne riparati alle spalle.

Allora si fermò.

«Senti» diss’egli. «Tu sai cosa vi è stato di triste molti anni or sono, in casa mia?

Ella si ricompose, dimenticò la sua domanda stordita di prima e rispose pronta: «Lo so.

Non s’aspettava questo. Sapeva che la madre di Cortis, trovata infedele dal marito, n’era stata cacciata di casa pochi anni dopo la nascita di Daniele, ed era poi morta subito nell’abbandono.

Pensò.

«Forse» esclamò, sottintendendo tutto »ha lasciato...

Cortis la interruppe con uno scoter del capo.

«No» diss’egli, dopo un momento.

Elena si ricordò di aver udito che il nome del seduttore non si era mai saputo con sicurezza, e arrischiò un’altra supposizione:

«Forse hai scoperto chi...

Cortis scosse ancora il capo.

«Pensa la cosa più incredibile» disse; e guardò sua cugina in modo che il vero le brillò al cuore.

«Ah! diss’ella, afferrandogli un braccio.

Egli accennò di sì.

Continuarono a guardarsi, muti, incontrandosi lo stupore dell’una con la gravità accorata dell’altro.

«E non lo hai mai sospettato?» sussurrò Elena.

Cortis alzò le braccia.

«Mai» rispose. «Mio padre mi ha sempre fatto credere che fosse morta. Però una volta, me ne sono ricordato oggi, una volta che gli chiesi tante cose, avrei dovuto capire, se non fossi stato un ragazzo, ch’egli mi nascondeva le verità.

Ella non osò andar oltre, fargli tante domande: temeva apprendere chi sa quali cose orribili.

«Che vuoi?» disse Cortis. «Non so ancora niente. Finora non ho che una lettera.

«Di lei?

«No, di una signora che vive con lei.

«Dove?

«A Lugano. Una lettera che mi farebbe impazzire se non avessi un cervello d’acciaio.

«Questa persona scrive che mia madre vive, è malata, e vorrebbe vedermi» soggiunse, rispondendo agli occhi ansiosi d’Elena. «Potrebbe essere una felicità grande, ma poi bisogna mettere insieme la storia di mia madre con le trivialità retoriche e anche con la carta profumata di quest’amica sua, per intendere.

Un singhiozzo gli ruppe la parola.

«Sì, sai, Elena» rispose con voce appena intelligibile. «Avevo pensato qualche volta: se ella vivesse ancora, se fosse sepolta in un ritiro o se si guadagnasse pane e rispetto col suo lavoro, e ch’io la potessi trovare, dimenticherei persino quello che mio padre ha sofferto. Una gran cosa, Elena: perchè tu non sai che cuore aveva mio padre e con che lagrime mi faceva recitare ogni sera, capisci? ogni sera, un requiem per la povera mamma. Ma io pensavo che avrei dimenticato tutto, che...

Cortis s’interruppe. Non v’erano parole umane per esprimere la tempesta di passione che lo avrebbe portato nelle braccia di sua madre. Si staccò bruscamente da Elena che rimase immobile.

«Ma ci vai?» diss’ella con improvviso fuoco.

Cortis si voltò.

«Lo sai bene» rispose severamente «che andrei se ne dovessi morire.

«Oh sì, va!» esclamò Elena facendoglisi vicina. «Pensa quanto avrà sofferto? Ci andrei io se potessi!

«Tu? E se non avesse sofferto niente?

Elena trasalì, sorpresa.

«Oh, è impossibile! diss’ella.

L’uomo d’acciaio non ebbe forza di replicare: il pianto lo soffocava. Con tutto il suo vigor leonino, egli aveva spesso, nel dolore e nella gioia, degl’impeti infantili, che passavano come nembi caldi d’inverno. Ad Elena quelle lagrime rivelarono cosa egli temesse; ella si dolse di essere così ignorante, così tarda a comprendere certe depravazioni di cui aveva inteso parlare senza credervi mai interamente; si dolse d’aver suggerito a Cortis, senza volerlo, un paragone amaro fra lei che non poteva neppure capire il male e una madre che forse non poteva capire il rimorso. Assalita e vinta dall’emozione di lui, gli parlò ansando, con una strana voce nuova che voleva essere calma.

«Ma ella ti desidera» disse: «questo esprime tante cose...

«Basta, cara» rispose Cortis, pacato. «È una follìa di turbarsi così; in questo luogo poi anche. Si fa quel che si deve e basta, non è vero, Elena? Guarda che bel cielo!

Il basso oriente dove si toccano, fra montagna e montagna, il cielo e la sconfinata pianura veneta, luceva di cristallino sereno, ma una tenda pesante di nuvoloni copriva ancora la valle, gittava sulle tempie dei monti la sua ombra azzurro-nera; e i radi abeti austeri che a sommo della costa spiccavano sul cielo, parevano attendere la seconda tempesta.

Elena guardò un momento il lontano sereno con gli occhi lagrimosi, e disse:

«Parti domattina?

«Sì, cara. Come tremano tutti, questi poveri fiori nell’erba! E quegli abeti lassù come sono intrepidi!

Elena guardò il verde tempestato di margherite che ascendeva liscio fino alle piante nere.

«A che ora? diss’ella.

«Presto. All’alba. Mi rincresce non potermi trovare alla vostra festa. Mi scuserai tu colla mamma; non è vero? Le ho già detto che dovevo partire per affari urgenti, ma glielo ripeterai, eh? Prima d’informarla voglio accertarmi che non si tratti poi d’un’impostura; tutto è possibile! A ogni modo le dirai che mi rincresceva tanto di mancare al suo invito.

Elena non fe’ neppur cenno di aver inteso e disse:

«Scrivimi.

«Sì» disse Cortis «ma...

Ella arrossì leggermente.

«No, no» disse «puoi star sicuro.

«E quanto ti fermi ancora?

«Non lo so. La mamma vorrebbe andar via a mezzo luglio se lo zio è contento, noi si potrebbe anche partire da un momento all’altro, se vi fosse un richiamo al Senato.

«E poi, ti fermeresti a Roma o andresti in Sicilia?

«Ma, si parlava di Aix-les-bains, una volta: adesso non so più nulla.

Ambedue stettero immobili e muti, come se le parole «non so più nulla» avessero risposto, nella loro mente, a un soggetto ben più grave. Non sapevano più nulla, Elena nè Daniele, del loro cammino nel mondo; non potevano prevedere neppure un avvenire probabile, nè quando mai si sarebbero ancora incontrati. Sicilia, Aix; che suono triste, questi nomi! Il cielo scuro, il Rovese con la sua cupa voce collerica parevano consci di un futuro sinistro. Gran colpi d’aria passavano alti sul capo di Cortis e di sua cugina che non sapevano staccarsi da quell’asilo quieto dove il vento taceva sì che vi si udiva il sugger lieve della ghiaia bagnata di fresco, dopo una lunga aridità.

«Pensa a me, qualche volta» disse Cortis, sotto voce.

Elena non gli rispose. Si avviarono lentamente verso casa; ella con il volto chino e le labbra serrate, egli parlando sempre a scatti, con inquietudine febbrile.

«Lo so» disse «lo so che sei una buona amica. È una brutalità stupida ch’io ti dica di non dimenticarmi. Sai cosa mi sento invece qui nel cuore, di doverti dire? Che forse sarebbe bene, per te, dimenticarmi. Che addio ti faccio, Elena! Ma forse in un altro momento non avrei la forza di dirtelo. La mia vita diventa una battaglia, vedi. Non so ancora quando, ma presto. Non posso perder tempo perchè il mio posto è avanti, molto avanti, e dovrò battermi giorno e notte per arrivarvi. Tu conosci le mie idee; sai se lascerò del sangue sulla via! No, no, non mette conto di legarsi a me; non c’è che da soffrire. È meglio lasciarmi solo, Elena.

«Questo?» diss’ella alzando il viso.

La baronessa, quand’era con Daniele Cortis, diventava umile e timida come nessuno l’aveva veduta mai, neppure da bambina; ma ora tutta la sua naturale alterezza le lampeggiava in fronte. Cortis aveva parlato con la coscienza di una energia superiore e si sentiva subitamente in faccia un’eguale, statagli sconosciuta fino a quel punto. I suoi occhi potenti si dilatarono, </noinclude> sconosciuta fino a quel punto. I suoi occhi potenti si dilatarono,

«Allora...» cominciò egli con impeto.

Ella lo interruppe, pallidissima, si mise l’indice alla bocca. Cortis tacque, la guardò attonito, triste.

«Tu non devi restar solo, con quella vita che farai» riprese Elena piano, con voce tremante. «Tu hai bisogno di una famiglia. So che la mamma ha dei progetti per te; dei buoni progetti, anche.

Infatti la contessa Tarquinia s’era fitta in capo di fargli sposare una signorina di V, bella, ricca, intelligente.

«Dei sogni» diss’egli, freddo. «Io non prendo moglie.

Non parlarono più sino al crocicchio dove avevano a dividersi. Elena si fermò la prima.

«Addio» diss’ella «va.» E poichè gli occhi di Cortis si riaccendevano come un momento addietro e la passione gli premeva nella persona, lo chetò ancora con un cenno, gli porse la mano che quegli prese con ambo le sue.

Le smorte labbra d’Elena si agitarono un momento prima di poter dire:

«Confortala.

Daniele non rispose. Ella si sciolse dalle mani gagliarde che la stringevano, e mosse verso l’entrata del portico. Di là si voltò a gittargli negli occhi con un rapido porger del viso, l’anima; e disparve.

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