< Daniele Cortis
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CAPITOLO XVI.


Alla Camera.


«Lo sapevo, io» disse sottovoce ad Elena la contessa Tarquinia facendosi vento con molto dispetto, perchè l’aula era quasi vuota, «siamo venute un’ora troppo presto. Te l’avevo ben detto! Bastava venire alle due, alle due e mezzo.

Molti ventagli battevano con voce aspra e secca lo stesso punto nella tribuna destra della presidenza. Altri misuravano placidi e lenti il durar di una pazienza flemmatica, di una placida soddisfazione; o il cammino di un pensiero su qualche via molto lontana da Montecitorio. Un signore pratico insegnava ad alcune dame l’aula e le tribune, le cose e le persone, parlando forte, cercando sul viso dei vicini l’ammirazione e il rispetto dovuto alla sua esperienza. Ma le signore si guardavano più volentieri fra loro, obliquamente. Solo quando un deputato entrava nell’aula e il signore pratico ne diceva il nome, dei ventagli tacevano, dei cappellini si porgevano avanti verso il gran vuoto. La contessa Tarquinia, elegantissima, in marron e celeste molto chiaro, con due braccialetti d’oro liscio, larghi quattro dita, era tra le più guardate. Pareva la sorella maggiore d’Elena. Questa, vestita di nero, senz’altri gioielli che una croce di turchesi al collo, soffriva delle impazienze di sua madre, delle chiacchiere inesauribili di quel signore, di trovarsi lì fra tante persone ignote e sugli occhi di tante altre, con quello che aveva in cuore. Le sarebbe bastato di vedere Cortis per togliersi da un tale disagio; ma Cortis non era ancora entrato nell’aula. Pochi deputati scrivevano sui loro stalli, altri giravano per i settori con le mani in tasca, altri discorrevano nell’emiciclo, guardavano le tribune. Uno di questi ultimi, l’on. T., conoscente di casa Carrè, vide la contessa Tarquinia, capitò subito nella tribuna, si offerse alla contessa per quanto avrebbe potuto desiderare da lui in Roma. Ella gli rispondeva con dei sorrisi luminosi, tutta rossa di piacere per quell’omaggio pubblico. T. non aveva riconosciuto Elena sulle prime e se ne scusò alla meglio, disse che la credeva in Sicilia.

«È una fede antica in Lei e molto robusta» disse Elena col suo sorriso fine. «M’ha sempre creduto in Sicilia anche quando mi vedeva a Roma.

Colui diventò tutto rosso, protestò, ma Elena lo interruppe subito, gli chiese cosa si rappresentasse quel giorno alla Camera.

«Eh!» rispose T. «Prima c’è l’esposizione finanziaria. Non lo sapevano? È per questo che vede le tribune così affollate. E poi, questo lo sapranno meglio di me, c’è il coup d’éclat che vuol fare Cortis.

«Oh!» esclamò la contessa. «Che cosa? A noi non ha detto niente.

«Allora non sarà vero. Sa che i suoi elettori hanno mandato una protesta contro di lui? Si dice che intenda rassegnar le sue dimissioni da deputato con un discorso... molto ardito, per lo meno.

I vicini guardavano T., stavano attenti. Qualcuno si voltava a ripeter sottovoce la notizia. Uno che non aveva udito bene, sussurrò: «Chi?» Gli fu risposto sullo stesso tono: «Cortis, quel clericale.» Elena udì, vibrò a chi l’aveva detto un’occhiata di freddo disprezzo. La contessa Tarquinia n’era tutta sconsolata, non voleva credere, domandava a T. come e quando e da chi fosse uscita questa voce. Sapeva della protesta, ma sapeva pure che molti sottoscrittori n’erano già pentiti. T. rispose poche frasi vaghe, si scusò di non potersi trattenere più oltre e tolse congedo.

«Capace, sai!» sussurrò la contessa a sua figlia. «Ha delle idee, certe volte! E non dir niente! Anche questa ci voleva. Ti giurò che appena comincia a parlare, vado via.

«Perchè?

«Perchè chi sa cosa succede, e allora sto male. Oh Signore, sei di sasso tu? Eh, vado via, vado via. Di’ la verità che tu staresti qui?

«Sicuro.

«Va bene, e poi vengano a dirmi...

Era un dialogo di bisbigli e l’ultima frase della contessa Tarquinia fu ancor meno di un bisbiglio; ma Elena udì, si accese di sdegno in volto, indovinando un’accusa che sapeva di non aver giustificato con alcun atto palese.

«Cosa?» diss’ella.

«Niente.

Infatti nessuno aveva parlato alla contessa Tarquinia di tenerezze sospette fra Cortis e sua figlia; ma una pia X. glie n’avea scritto molto tempo addietro, a fin di bene. Elena non parlò più. Il cuore le batteva forte di dolore, di sdegno, di disgusto, come se una curiosità villana fosse venuta a guardarvi dentro di furto. E adesso avrebbe quasi voluto andar via anche lei; le ripugnava di star lì, le pareva che quando fosse entrato Cortis, quando avesse preso la parola le si dovessero vedere i pensieri. Intanto il ventaglio della contessa Tarquinia batteva e ribatteva l’aria, più fastidioso che mai.

«Che noia!» diss’ella.

Una signora vicina mormorò timidamente:

«M’avean detto che si cominciava al tocco.

La contessa Tarquinia non rispose. Non era il ritardo che le dava maggior noia.

«Adesso comincieranno subito» disse il signore pratico. «Vedono quel deputato che si mette a scrivere là in alto, in cima al secondo settore? Quello è Minghetti. Oh! Ecco Depretis!

La contessa dimenticò un momento le sue pene per guardare anche lei, come gli altri, il ministro che entrava da destra col suo passo stanco.

Una signorina disse sottovoce:

«Come è vecchio!

«Guarda» osservò la contessa Tarquinia a sua figlia «se non è tutto lo speziale di Passo di Rovese. Ah, ma tutto!

Elena non le badava. Anch’ella s’era scossa vedendo entrare il ministro; ne aveva ricevuto un colpo, sentendo più vivamente il tardare di Cortis. Il cuore le batteva forte. «Se fosse malato!» pensava. E lo vedeva a letto col volto acceso, con gli occhi lucenti di febbre.

«Non c’è ancora il presidente», disse qualcuno. «Di solito è al suo posto mezz’ora prima.« Allora un signore entrato da pochi momenti osservò che l’aveva veduto uscire dalla Presidenza insieme al deputato Cortis.

«Ecco!» sussurrò la contessa Tarquinia. «Hai udito? si saranno intesi per questo discorso. Non c’è dubbio!

«Farini, Farini!» disse il signore pratico alle sue vicine. «Guardino Farini.

L’onorevole presidente della Camera entrò rapidamente e, scambiate poche parole con taluno dell’ufficio di presidenza, prese il suo posto. Elena aspettava palpitando che qualcun altro entrasse dietro di lui.

Entrò l’onorevole ministro Magliani, entrarono gli uscieri con i portafogli, li posarono sul banco del Ministero. Seguirono alla spicciolata una trentina di deputati, il campanello presidenziale ruppe con la sua vocina nervosa il rombo delle conversazioni, un segretario cominciò a leggere tediosamente, ad alta voce, qualchecosa cui nessuno badava. E Cortis non compariva. Ma Elena sapeva che aveva conferito col presidente, era più tranquilla.

«Dov’è il posto di Cortis?» le chiese sua madre. Elena non lo sapeva. Il signore pratico si affrettò di risponder lui con melata ufficiosità:

«Là, signora, nel terzo settore, vicino a quel deputato pallido colla barba nera. Eccolo il deputato Cortis. Arriva adesso. Là, signora.

Elena guardava a destra e Cortis entrava da sinistra a braccio d’un altro deputato. Attraversò lentamente l’emiciclo e salì al suo posto senz’alzare il capo alla tribuna. Elena non lo vedeva bene in viso, ma qualche cosa nel suo passo, nel suo atteggiamento le faceva male al cuore.

«È giù, però, Daniele» disse la contessa Tarquinia. «Pare un vecchio. No?

L’altra non rispose.

Qualcuno fece «sss!» perchè il presidente leggeva qualche cosa che richiamava l’attenzione della Camera. Nella tribuna tutti tendevan l’orecchio.

«Dimissioni» disse uno, poi che il presidente ebbe finito di leggere.

«Di chi?

Il nome non si è capito, ma Cortis non è certo. Zitto, zitto! Un deputato ha chiesto di parlare. Chi è? È questo; no, è quest’altro. È C. che propone non sieno accettate le dimissioni e si accordi all’onorevole P. un mese di congedo. Nelle tribune si mormora, si dice: «La solita commedia.» S’alza un secondo deputato, poi un terzo, poi un quarto. Tutti suonano la stessa musica. La proposta è messa ai voti, la Camera approva. Allora Cortis si alza e dice con voce malferma quello che riferiscono gli atti della Camera.

Cortis. Domando la parola.

Presidente. Su che?

Cortis. Per una dichiarazione. Siccome poi non voglio riuscir molesto alla Camera che ha una legittima impazienza di udire l’on. Magliani, prego l’onorevole presidente di volermi riservare la parola a subito dopo l’esposizione finanziaria.

Presidente. Sta bene.

Durante lo scambio di queste parole, Elena non aveva battuto palpebra.

«Manco male» disse sua madre «sentiremo Magliani e poi andremo via. Hai udito che voce aveva Daniele? Non sta bene quel ragazzo.

Elena taceva sempre, guardando Cortis con lo sguardo fisso, scuro, che diceva in lei un’acuta intensità di passione. Egli era là con i gomiti sul banco, la testa fra le mani. Non l’alzava mai ed Elena ne soffriva, s’irritava in pari tempo di soffrirne, disprezzava questa sciocca fibra egoistica del proprio cuore. Come non sarebb’egli tutto nella meditazione del suo discorso, come dovrebbe pensare a lei?

Intanto il ministro aveva incominciato a parlare. Quasi tutti i deputati erano scesi ai banchi inferiori per udirlo meglio. Dalla tribuna della presidenza si vedeva giù la sua testa bianca volgersi ora a destra ora a sinistra, piegarsi nei radi momenti di silenzio alle carte disposte sul banco, attingervi una cifra, rialzarsi; la fluida parola riprendeva ad esporre le cose della finanza pubblica con la grande abilità che altri ammira, altri deplora. Non v’erano mai nel dire dell’on. ministro effetti oratorii; ma pure, ad ogni tratto, dei bisbigli d’approvazione correvano nell’aula, padroneggiata non tanto dall’ingegno dell’uomo, non tanto dalla perizia profonda di ogni minuto congegno del suo dicastero, materia arcana ai più, quanto dalla fama de’ suoi ardimenti e, sovratutto, dallo splendore della sua straordinaria fortuna.

«Sarà un divertimento anche questo» susurrò la contessa Tarquinia dopo un po’ di tempo. «A me mi fa star giù il fiato. E quando durerà?

«Non lo so» rispose Elena, asciutta. «Io già resto anche dopo.

«Amen» rispose l’altra.

Passavano le cifre, passavano i sottili ragionamenti, ma ben poco ne giungeva alla tribuna della Presidenza. Ogni tanto qualcuno s’alzava, scivolava di fianco, in punta di piedi, lungo i sedili. Poche persone vi duravano a guardare il discorso del ministro e a udire i benissimo della Camera. Invece le tribune politiche rigurgitavan di gente. Nella tribuna dei senatori, Clenezzi guardava spesso le signore, cercava farsi riconoscere, ma inutilmente. Ad un tratto il ministro tacque e sedette. Un rumore sorse dal fondo dell’aula, come di un nuvolo di mosconi che si levassero ad un tempo dal cibo.

«Ci siamo» disse la contessa Tarquinia. «Cosa fa Cortis?» Cortis posava in quel momento sul banco le braccia incrociate e sulle braccia la testa. Non era la sua volta. Un altro ministro si alzò a presentare una relazione; poi l’onorevole Magliani, che aveva solo chiesto di riposare per cinque minuti, ripigliò il suo discorso. Elena era inquietissima. Vedeva che Cortis si sentiva male, temeva che non potesse parlare come avrebbe saputo, e che avesse poi a soffrirne moralmente. Avrebbe voluto vederlo alzarsi, andar via: le facevan rabbia quei deputati suoi vicini di posto che non si movevano per domandargli se fosse malato, per consigliarlo di andar via. Non aveva dunque amici, Cortis, in tutta la Camera? Si struggeva di scender lei a condurlo fuori. Pensava se non vi fosse modo d’incaricarne T. Si fece prestare un binocolo da una signora vicina onde scoprirlo, accennargli, se possibile, di venire nella tribuna. Ma prima guardò Cortis. In quel momento qualcuno gli batteva sulla spalla. Egli si scosse, alzò la testa. Ora Elena lo potè veder bene in viso. Era molto acceso, forse per essere stato tanto tempo col capo sul banco. Lo vide scambiar poche parole con chi l’aveva toccato e crollar la testa in segno di diniego; poi guardar un momento verso la tribuna, senza mostrar di conoscervi alcuno, e discender lentamente all’attitudine di prima. E quell’altro non gli parlava più, non lo portava subito fuori della Camera! T. era intento al discorso del ministro, non guardava mai la tribuna. Elena fu per scendere all’ufficio di via della Missione e far chiamare Cortis. Ma no: se stava meditando il suo discorso, non sarebbe una chiamata opportuna. Potrebbe far venire T., invece? Intanto il ministro finì il suo discorso fra i bravo e gli applausi. I deputati d’ogni parte s’affollavano intorno a lui. Anche nelle tribune molta gente si moveva per uscire.

«Cara te» disse la contessa Tarquinia, «non si va proprio via, dunque?

Elena non rispose; forse non udì neppure. Teneva la persona eretta, le mani sul parapetto della tribuna, aspettando, senza quasi respirare, che il presidente desse le parole a Cortis.

«Adesso l’aula si vuoterà» disse il signore pratico. Invece gli onorevoli deputati ripresero, quasi tutti, i loro posti.

«L’onorevole Cortis» disse il presidente «ha la parola.

Gli occhi di Elena salirono involontariamente all’orologio che aveva di fronte. Segnava le tre e cinquantacinque.

Cortis si alzò. Da ogni lato della Camera, tranne dal centro, tutti guardarono a lui in diverse attitudini, da quella di una viva curiosità a quella di una sprezzante noncuranza, di un anticipato giudizio.

Al centro, dove certe mediocrità boriose avevano sentito i sarcasmi di lui, conversavano e ridevano malgrado le scampanellate del presidente; perciò Elena, livida, si mordeva le labbra. Egli pareva aspettare il silenzio, inchinando la persona sul banco cui appuntava le mani. Il presidente suonò ancora il campanello e disse:

«Parli pure, onorevole Cortis.

Nello stesso momento Cortis, incominciò:

«Io debbo pregare la Camera...» S’interruppe, cercando la parola. Si pose una mano alla fronte, poi ripigliò con voce affievolita:

«Lo stato della mia salute mi costringe a domandare, anzitutto, l’indulgenza della Camera.

Fece ancora una pausa, forse uno sforzo interno di richiamare al cimento il vigore dello spirito e del corpo. La sua voce parve rianimarsi nel dire:

«È probabile che la Camera proroghi oggi le sue sedute ed io non posso differire un atto che stimo doveroso verso i miei elettori, il mio paese e me stesso.

«Prima di uscire da questo recinto forse per sempre...» Nel dire forse per sempre la voce parve mancargli, la lingua intorpidirglisi. Pronunciò ancora poche parole inintelligibili e sarebbe stramazzato sul banco se i colleghi non fossero accorsi a sorreggerlo. Si udì un grido dalla tribuna della Presidenza, ma nessuno vi pose mente. Uscieri e deputati accorrevano al banco di Cortis, che fu portato immediatamente fuori dell’aula.

Elena, sulle prime, non aveva capito, s’era chinata avanti per coglier le parole che le sfuggivano. Poi, vedendo i vicini soccorrerlo, vedendolo abbandonarsi fra le loro braccia, balzò in piedi, gittò un grido soffocato guardando là, dove tutti ora guardavano da tutte le tribune, spenzolandosi in fuori, salendo sui sedili, mettendo ai parapetti una corona di prone facce avide. Quando Cortis fu levato di peso da due suoi colleghi e portato via, ella, in un lampo, senza che altri nè lei stessa potesse dir come, si sciolse da sua madre che, tutta tremebonda, le aveva posto addosso le mani convulse, balzò fuori dalla tribuna.

L’usciere di servizio, vista venir di furia una signora pallida e stravolta, pensò di trattenerla, domandarle che volesse; ma ella lo respinse con un gesto imperioso della sinistra, passò oltre, uscì nel corridoio cui mettono le tribune di quel lato della Camera. Il corridoio era vuoto, silenzioso. Si fermò un momento, non sapendo raccapezzarsi da qual parte prendere. Allora un signore uscito dietro a lei la raggiunse.

«Signorina» diss’egli, «non si spaventi, non sarà niente; venga dalla sua signora mamma che è un po’ disturbata anche lei.

La parola «signorina» che in quel momento poteva significar tanto, avrebbe trafitto Elena se tutta l’anima e tutti i sensi di lei non fossero stati altrove. Le parve udire un suono di passi e di voci a sinistra; corse via da quella parte, senza rispondere, si trovò in capo alla scalone che mette alle stanze della Presidenza.

Saliva una frotta di gente. T. e un altro, vedendo Elena, si fecero avanti, la trassero da parte per non lasciarle vedere Cortis ch’era portato su, dietro a loro.

«Non è niente, baronessa» disse T. «Uno svenimento, una cosa da nulla, passerà subito.

«Niente, niente» ripeteva l’altro, «sia tranquilla.

«Dov’è? Voglio vederlo» disse Elena convulsa. «Ci sono medici? Voglio assisterlo. È mio cugino.

«Ma sì, ma sì» insistevano gli altri, «lo vedrà, lo assisterà. C’è il ministro B., c’è G. Adesso non ha bisogno che di quiete, si calmi.

Due o tre altri deputati si aggiunsero a loro, fecero siepe intorno a Elena mentre il triste convoglio passava rapidamente, entrava nelle stanze della presidenza.

Elena se n’avvide, non parlò, fece l’atto di slanciarsi avanti verso la porta; fu trattenuta. Si ricompose subito, pregò T. di recarsi da sua madre, nella tribuna; pregò gli altri, con dolcezza, quasi sorridendo, di lasciarla entrare dal malato, parlare con i medici. Per lei, disse, l’incertezza era peggiore di qualunque dolorosa realtà. Allora fu lasciata passare rispettosamente. Qualcuno che saliva lo scalone e non la poteva vedere, disse forte: «L’han portato là? Cattivo augurio; è la camera del povero...

E nominò un giovane lombardo, pieno d’ingegno e d’ardore, colpito anche lui al suo posto di deputato e morto nella camera dove avevano portato Cortis. Elena udì, si fermò un momento, mettendosi la mano sul cuore, poi entrò in un’anticamera oscura piena di gente che parlava sottovoce. Qualcuno dava degli ordini da una camera a sinistra, ancora più oscura; tra questa e quella era un continuo andare e venire d’uscieri. Poca luce entrava per un altro uscio spalancato, da una stanza chiara, elegante. Elena piegò a sinistra verso quel signore che dava gli ordini. Egli le disse bruscamente:

«È moglie Lei? È sorella?

«No.

«Bene, scusi; adesso non si entra.

«Ma voglio sapere...» replicò Elena fremendo.

«Cosa? Quello che nessuno sa? Potrà entrare più tardi. Aspetti là.

Le accennò la stanza chiara, rientrò presso il malato con un usciere che arrivava allora portando qualche cosa, e chiuse l’uscio dietro a sè.

Allora il deputato che le aveva parlato prima insieme a T., si accostò ad Elena, le disse che pareva trattarsi di una minaccia di congestione cerebrale, non certo leggerissima, ma neppure molto grave. Avevano adagiato l’infermo in una poltrona e stavano preparandogli il letto. La persuase che per ora non potrebbe far niente: l’opera sua diventerebbe certo utile più tardi. Entrò con lei nella stanza chiara, la fece sedere sopra un divano a fianco della porta. Là non si vedeva l’andirivieni dell’anticamera.

«Lei non si sentirà bene» diss’egli. «Avrà bisogno di qualche cosa.

Elena scosse il capo, sussurrò un grazie quasi inintelligibile, guardando la lucerna che ardeva, benchè non fossero ancora le cinque, sul tavolino davanti a lei.

«Le sedute finiscono tardi e qui si accendono sempre le lucerne per tempo» osservò colui tanto per dir qualche cosa.

Ella non rispose. Dopo qualche tempo lo pregò di non incomodarsi a star lì con lei che poteva benissimo rimaner sola. In quel punto entrò T. La contessa Tarquinia era nel corridoio ad aspettare sua figlia. Elena scattò su dal divano, raggiunse la contessa che dava il braccio al senatore Clenezzi e pareva reggersi appena.

«Oh Dio, Elena» diss’ella, «mi abbandonai in questo stato! Andiamo a casa, ti supplico. Io non ho più fiato, non ho più gambe: non posso far niente, non posso star qui!

«Coraggio, mamma» rispose Elena. «Ora non vengo. Verrò più tardi, potendo; quando si vedrà che piega prendono le cose. E poi tornerò, naturalmente. Io sono forte, posso assisterlo benissimo.

«Oh Signore, e adesso non vieni?

«Ma no, adesso prego il senatore di prendere una carrozza, e di condurti all’albergo.

«Si figuri, si figuri!» ripeteva il senatore colla sua onesta faccia grave, piena di dolore. «Dispongano. Io accompagno la contessa a casa, poi verrò a prender lei, se crede.

«Non occorre» s’affrettò a risponder Elena. «Io non le posso dire adesso, proprio con precisione, quando verrò.

«M’immagino» mormorò il senatore, accostando il viso a quello di lei «che a momenti capiterà qui la signora arrivata stamattina.

Elena trasalì.

«Non lo so, non so niente» diss’ella. «Io torno qui certo, a ogni modo.

«Elena, Elena» gemette sua madre, «pensa che non hai mica salute da buttar via neanche tu.

Elena aggrottò le ciglia, si strinse nelle spalle, sdegnosamente.

«Adesso vado» diss’ella, e guizzò via, scomparve nell’anticamera. Un momento dopo, scivolava dietro un usciere nella camera dell’ammalato.

Ne uscì due ore più tardi, pallidissima sempre, ma tranquilla, s’intrattenne con alcuni onorevoli membri dell’ufficio di presidenza, che le offersero, con la massima cortesia, quanto mai ella potesse desiderare, la persuasero che si farebbe ogni cosa possibile per Cortis, del quale parlavano con vivissima stima e simpatia. Espressero poi la loro ferma convinzione che il male potesse già considerarsi vinto con la cacciata di sangue ch’era stata fatta immediatamente. Elena chiese solo di mandare un telegramma, che diresse al conte Lao, in questi termini:

«Daniele malato piuttosto gravemente. Ho bisogno di te, subito.

Mandò poi un biglietto al senatore Clenezzi per avvertirlo che non avrebbe potuto muoversi se non per un’assoluta necessità di sua madre, e rientrò da Cortis, presso il quale c’era ora un’altra persona: una signora lunga e magra che usciva ogni tanto a gemere e singhiozzare.



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