< De Iciarchia
Questo testo è completo.
Libro I
De Iciarchia Libro II





LIBRO I


Io tornava dal tempio su alto di San Miniato dove parte per satisfare alla religione, parte per affermarmi a sanità, era mio uso non raro conscendere a essercitarmi. In via sul ponte presso all’Oratorio postovi da’ nostri Alberti trovai Niccolò Cerretani e Paulo Niccolini, omini certo prudenti e moderati e a me benivolentissimi. Salutammoci insieme, e disse Niccolò: — A’ prossimi dì passati le molte piove e la molestia de’ venti ci tenne in casa e non potemmo visitarti. Oggi questo lieto sole ci piacque. Venavamo a te. Dissonci que’ tuoi dove tu eri, ma ci parse tardi uscire lassù a ritrovarti. Però ci fermammo qui per aspettarti mirando questo fiume già molto escresciuto e ’nviato a crescere ancora più. — Ferma’mi ancora io con loro, maravigliandoci così subito tanta acqua fusse sopra modo gonfiata. Qui disse Paulo: — E quanto sarebbe felice questa nostra città, se questo Arno sequisse perpetuo così pieno. E sarebbe tua opera, Niccolò, qual fusti più volte prefetto navale, dar modo che le galee salissero cariche sino qua su. Che dici tu, Battista? Pàrt’egli che quinci venissi alla patria nostra maravigliosa utilità? — Dirotti per ora, Paulo mio, — dissi io, — quel che mi pare, che sarà il meglio levarci da questa brezza e crudità dell’acqua, e apresso il foco ragioneremo più con riposo.

In questo che noi già presso eravamo per entrare in casa, uno e un altro de’ nostri nepoti e insieme uno de’ figliuoli di Paulo Niccolini si levorono a salutarci e dissonci che il fiume era traboccato ne’ piani sopra presso alla terra, e avea battuto e dirupato il muro grosso qual prima lo sostenea. Dispiacqueci. Io mi volsi a Paulo e dissi: — Eccoti una delle utilità che ti porge questo fiume tuo così cresciuto! Ma io vedo che noi principieremo ragionamento qual sarà degno, e spero sarà utile a questi giovani, e a noi sarà sollazzo disputarne. Venitene, giovani, su, e udirete cose quali vi deletteranno e gioveranno. — Adunque su in casa sedemmo presso al foco noi tre, e circa noi stettero que’ giovani in pié.

Battista. Per rispondere a te, Paulo, vorrei non però errare, dico che in la vita de’ mortali nulla cosa troppo acresciuta e troppo ingrandita fu mai sanza publico e privato incommodo e poco da volerla. E come vedesti oggi el fiume troppo innaltato danneggia e’ culti, e lieva il frutto e merito delle fatiche a quelli che tu e gli altri buoni non vorrebbono, così interviene in tutte l’altre cose, massime in quelle che molti troppo stimano. Figliuoli, dico a voi, el troppo sopra modo potere in qualunque sia la cosa importa licenza temeraria, e fa traboccare le voglie e incita gl’impeti delle nostre imprese. Onde potendo quello che tu vuoi, ne seguita che tu vuoi tutto ciò che tu puoi, e ardisci e usiti a volere ancora più che non si lice né si conviene. Così a me pare, le immoderate voluntà quasi il più delle volte sono coniunte con la impunita licenza, e quinci e’ pensieri poco considerati fanno l’animo precipitoso, impetuoso, insolente, audace. Così li segue ch’ello transcende e’ limiti della equità e onestà, e diffundesi occupando, e rapisce quel che si dovea all’ozio e quiete degli altri cittadini. Però ben detto fu quello antiquo proverbio: «in tutte le cose pònti che nulla vi sia troppo». Della sanità chi sarà che recusi averne quanto se ne può ricevere? E questa, dicono e’ fisici, quando ella sia molto a pieno, ella sarà da dubitarne: però che delle cose tutte qual vede il sole, niuna mai si trovò si stabile che d’ora in ora ella non fusse in continuato moto. Quello adunque che giunse al summo e non può in alto più ascendere, né molto così starsi, certo li consequita el descendere; e beato a chi sia concesso descendere da uno stato eccelso senza ruina. Una delle cose che fanno la vita degli omini beata si è avere quello che bisogni a te, ed essere tale che tu satisfaccia a te e giovi agli altri; e così certo si debba, sì certo. E bastici essere in questa riputazione della plebe non ultimi, quando contendere d’essere el primo, se ben repetirete le istorie di questa e dell’altre republice, sempre fu faccenda e condizion tale che per ottenerla bisogna ostinata sollecitudine, rissosa importunità, servile summissione e confederazion d’ingegni fallaci, maligni, petulanti. Poi per mantenerla continuo ti conviene agitar te stessi concitando in te sospetti, fingendo, simulando, dissimulando, sofferendo, temendo più e più cose indegne e gravi a chi voglia vivere con tranquillità e grato riposo. E quello che più si biasima da chi conosce il vivere, si è che tu non puoi deponere quella grandezza senza periculo e ruina tua e de’ tuoi. Chi racconterà le dure condizioni di questi così primi ambiziosi? Convienti a chi ti favoreggia concederti nulla repugnante, molto ossequente in più cose quali sono ingratissime a’ buoni e a te imprima nulla piaceno, e pur le fai; servi a pochi scellerati audacissimi per non essere pari agli altri quieti cittadini; concedili te stessi, mantieni e’ loro errori per non diminuire a te que’ sussidi infedelissimi del tuo stato. Godiànci adunque, figliuoli, questa medioclità amica della quiete, vincolo della pace, nutrice della felice tranquillità dell’animo nostro e beato riposo in tutta la vita.

E così più e più cose dissi persuadendo a que’ nostri nipoti ed eccitandoli a moderarsi e terminare e’ pensieri e voluntà loro in queste cose instabili e caduche e fragili qual molti non savi stimano troppo; e addussi loro essemplo che mai sarà chi abiti non male se non pone il tetto, onde e’ seguiti che le perturbazioni de’ tempi nulla offendino, e alle estuazioni dell’animo nostro l’ambizione e cupidità meno s’accendino. In questo, uno de’ giovani che era doppo a me, porgea parole agli altri e massime al figliolo di Paulo con riguardo e sotto voce. Paulo si volse e porse al figliuolo suo il fronte e occhi non senza qualche poco indizio di severità paterna, e disseli: — Tu più solevi altrove udire con attenzione e volentieri chi ragionasse di cose degne e dotte, qual costume buono in te molto mi piacea ed erine lodato. —

Battista. Non ti dispiaccia, Paulo. Domanda quello che e’ diceano.

Niccolò. Dirottelo io che in parte tutto intesi. Non lodano questa tua esquisita mediocrità. Vorrebbono essere grandi e sopra gli altri rarissimi.

Battista. E così mi parse intendere che diceano. O letizia mia! che questa voluntà generosa e degna di molta lode fussi in voi figliuoli quanto io vorrei! Ma vediamo se io intendo bene, e se ’l desiderio mio s’aconfà col vostro. Or ditemi, voi giovani. Vorresti essere grandi e molto dissimili dagli altri? Vorresti voi essere Polifemo, del quale dicono i poeti vostri cose maravigliose? Già saresti pur grandi! Uno intero arbero di pino sarebbe in mano a voi meno che a Niccolò costì testé quella forchetta. E per essere dissimili dagli altri vorresti, beato a voi, avere non solo in fronte uno occhio grande, ma e ancora in la collottola e altrove più e più occhi e orecchie e mani. Non ridete; dimandatene me, se io vorrei essere con tanti occhi e tante mani; e vorrei sì, e dico certo, sì vorrei. Voi qui che dite?

Giovane. Che farei io di tante mani e di tante orecchie? Tutto il dì odo e vedo più cose che io non vorrei. El bisogno nostro sarebbe avere e potere, e in questo essere, non dico simile ad Alessandro Macedone o a Cesare (non voglio tanto presumere di me), ma simile a’ nostri maggiori, a messer Benedetto, vostro avo, a messer Niccolò e agli altri quali edificorono queste nostre case, onestamento della famiglia nostra e ornamento di questa città. Simili sono quelli ch’io chiamo grandi, quali sopra gli altri possono colle ricchezze e collo stato. Minimi saremo noi se mai ci converrà pregare chi possi sopra noi.

Battista. Ottima e accommodatissima risposta. Voglio che di voi creda niuno che a’ nostri avi le ricchezze dessero stato, o contro, lo stato ricchezze. Anzi la ’ndustria acrebbe loro il peculio domestico, e la virtù gli aperse publico addito e luogo onorato in la republica. Ultimo la prudenza loro gli affermò in bene e in stato dovuto a’ meriti loro. Ma quanto io manifesto potrei pe’ gesti e vita loro mostrarvi, affermo questo, che essi non fecero tanto stima di queste abundanze delle cose caduche quanta farebbe chi si persuadesse essere felice solo per le ricchezze, quale in verità sono di sua natura alla vita dell’uomo utile, ma non tanto necessarie quanto molti credono. Non vi niego, dura parola agli animi liberi dire «io ti priego». Ma vedi che questa necessità non sia da te più che altronde. La natura diede all’omo bisogni pochi e di cose minime, e tali che per satisfarsi non accade troppo richiederne altri che te stessi. Restaci che per adempiere le cupidità e voluttà diventiamo servili, ove ci sarebbe più facile e pronto qui spegnere in noi quello che ci sollecita che ivi ossecundarli altronde. E queste ricchezze tanto desiderate, se bene vi porrete mente, sono per sua condizione né tutte nostre né sempre nostre, anzi in minima parte nostre. Molte ne scemano le perturbazioni de’ tempi: molte ne rapiscano e’ pessimi omini. Quello che se ne adoperi in tutta la vita in tua utilità e necessità sarà pur poco, se già tu non imponessi a te stessi quella servitù in quale alcuni inettissimi si gloriano d’avere a pascere molti oziosi o scorridori e ministri delle loro voluttà e insolenza sua. Del resto, s’tu le tieni inchiuse, elle a te sono come alienate e rebuttate dal fine e condizione loro. Né saranno da reputarle tue, se tu l’arai dedicate ad altrui uso che al tuo nolle adoperando. D’altra parte, se tu ne fai quello si conviene, elle sono al tutto più d’altri che tue. A te solo ne resta qualche istoria della tua liberalità, forse non creduta da molti. E le più volte resulta più invidia e odio verso chi dona da chi non assegue quanto e’ chiedea, che grata memoria in altrui pel dono e beneficio ricevuto da lui. Agiugni che a molti le ricchezze spesso importorono calamità ed eccidio miserabile. Ma invero, e che male è questo insito e innato nelle ricchezze? Ciascuno, per vilissimo che sia, ti si porge severissimo censore e immoderato moderatore della vita e costumi tuoi. Questo vorrebbe largissi, effundessi, alienassi da te dove e come pare a lui. Quest’altro si move con altra opinione: tutti a biasimare ciò che tu spendi e non spendi. Parvi, giovani, ch’io dica il vero? Rispondete.

Paulo. Risponderò io per loro. Sì, pare. Non però recuserei per questo qualunque occasione onesta mi rendesse ben pecunioso. Ma qui questi giovani, come vedi l’aria loro, nati e magnificenza e a signorile amplitudine, s’io scorgo bene dove essi stendono con l’animo, vorrebbono per sé ciascuno essere un grande e ricco principe. Diss’io il vero? Ma che domandiamo noi? Eccoti, ponvi mente... tutti, non dico più, solo per queste parole si rallegrano.

Battista. E io vorrei così vederli che invero e’ fussero principi; non che e’ paressero alla multitudine imperita e stolta principi, ma fussero.

Paulo. Come si può parere in questo e non essere?

Battista. Dissi agli imperiti, quali sono molti. E par loro che ’l summo stato e bene del principato sia trovarsi in quella copia e affluenza di superchie delizie, accerchiato da molti assentatori, temuto dalla multitudine, e ogni suo cenno osservato da tutti. Tutte queste cose saziano e per uso assiduo fastidiano, e vedera’li non raro per avere qualche ora quieta si rinchiuggono in qualche cantuccio della casa solitari. E non vorrei che questi nostri figliuoli desiderassero simile vita. Nulla peggio, nulla maior infelicità in qualunque sia stato che aggiudicarsi nato per servire al ventre e all’altre oscenità lascive. E che furore fia questo degli animi bestiali, se vorranno più essere temuti che amati? Quanti saranno che temano te, tanti odieranno te. Se tu sarai odiato da molti, per certo a te sarà necessario temer molti. Tu adunque fusti cagione di questo tuo infortunio. Niuna mala fortuna piggiore che avere molti nimici. E a chi sia malvoluto e odiato, suo debito, gli sequita pessimo fine in tempo e miserabile eccidio. E queste copie della fortuna, molti cavalli, bella famiglia, suntuoso vestire, vivere lauto e splendido, la casa magnifica, ben parata, molti salutatori, qual tutte ancora cose si fanno a’ privati conviti nuziali, non vi niego sono ornamento della dignità. Ma io in altro credo che consista la maiestà e celsitudine del vero essere principe e del principato. E sarammi più facile qui testé negare che simili dette delizie e superfluità siano el summo e primario bene a’ principi, che non sarebbe facile esplicare quale i’ credo che sia e in che e’ consista, s’i’ prima non intendessi da’ suoi veri principi che differenza abbi in sé uno privato buon cittadino da un re.

Paulo. Se mai altra differenza non vi fusse, eccone una molto grande: el principe comanda ed è obbedito; e’ sudditi cittadini fanno e seguono quanto el principe comandò.

Battista. Comandò? Ora sono io in maior dubbio

Paulo. E che ti può venire in mente da dubitarne?

Battista. Vorrei meglio intendere questo nome comandare quello che egli importi. Pregovi non mi reputiate più acuto ch’io mi sia. Dirovvi quello che mi move, se prima sentirò da te, Paulo, questo che tu chiami comandare quale e’ sia in sé e come fatto.

Paulo. Rido! Ma diglielo tu, Niccolò. Insegna qui a Battista quello che e’ non sa.

Niccolò. Rido anch’io! Pur per satisfarli dirò quel ch’io ne sento. Quando omo dice: «fa qui testé tal cosa, poi farai quell’altra; non fare così», e simile, costui... che dico Paulo?

Paulo. Certo sì, comanda.

Battista. Questa risposta mi satisfa, ma non in tutto. Ecco il comito della galea tua dicea: «dà mano alla poggia, carica quella orza»; e simile el pedagogo a’ fanciugli, la madre di casa alle fanti dicono: «fa e non fare». Diremo noi per questo che costoro siano principi?

Niccolò. Chiunche comanda, ben sai, si è superiore a chi l’ubidisce.

Battista. Principe adunque s’interpetra superiore non comandatore, e questo di cui mi pare che tu rispondi, non sarà per sé vero comandatore se non arà chi l’ubidisca. E così affermano tutti i savi antiqui scrittori passati a’ quali io molto credo, e mostrano come costui si debbe reputare vero principe, qual sia superiore in cose non lieve e fragili, ma stabili di sua natura ed etterne, e nulla subiette alla volubilità e temerità della fortuna, per qual cosa e’ sia bene atto a comandare e meriti essere ubbidito. E questo chi dubita sarà la virtù, la bontà, la perizia di cose degne e utilissime a sé, a’ suoi, alla patria? Questi altri chiamati dal vulgo principi, sono non per sé principi, ma per la summissione di chi l’ubidisce, e sono ministri adiudicati a susservire alla republica, in quale numero sono tutti gli altrietiamminimi magistrati. Così sequita che il principato non concede arbitrio d’imponere nuova servitù agli altri, ma impone a chi lo regge necessità civile di conservare libertà e dignità alla patria e quiete a’ privati cittadini. Forse non potendo il conditore delle leggi provedere a tutte le cose particulari, dede ad alcuni come al duttor dello essercito, al prefetto navale, così al principe, a’ minor magistrati qualche arbitrio di provedere al ben publico secondo che i subiti casi e tempo richiedesse. Sarà e’ però quinci che costoro per lo officio loro possino sopra gli altri quanto e’ vogliono all’imporre loro servitù; e facendo costui quel che li si conviene, comanderà egli a tutti quel medesimo? o in prima a costui quello a che e’ sia atto e pronto, a quell’altro quello in che e’ sia più essercitato, e così a niuno cosa inutile o brutta, a ciascuno cose commode e necessarie, e a tutti quanto importi la salute di tutti e l’ozio e riposo onesto di tutta la città, qual un fine pretende ogni legge? Così pare a me. A voi?

Paulo. Parci.

Battista. Costui adunque publico e primo magistrato, e insieme il numero de’ privati cittadini, se vorranno vivere bene e beati in summa tranquillità e quiete, converrà ch’egli osservino equità e onestà fra loro quanto comandi la legge. Questa ragione di comandare, se tutti saranno modesti e ben sensati, pare a me sarà non altro che uno essortarli, confermarli, sollecitarli che sequitino facendo pur bene come per loro essi fanno. E sarà, dico, questa essortazione officio di vera amicizia e compiuta carità più che arrogante elazione, cupidità d’imporre servile condizione agli altri. Contro, se forse saranno improbi scellerati, el dir tuo «fa e non fare» nulla gioverebbe. Resta per questo al principe che lui ubbidisca alle legge, e sia ministro della severità castigando chi erra e provedendo alla quiete degli altri levando di mezzo la corruttela e peste de’ viziosi. Che dici tu, Paulo? Parvi così?

Paulo. Parci.

Battista. Bene est.Forse trovammo noi qui che differenza sia da un privato cittadino a uno re.

Paulo. Come?

Battista. El re in quanto re comanda, cioè ricorda a’ suoi quanto e dove bisogni aversi iusto, temperato e forte e onesto per vivere bene e non inutile agli altri e anche a sé, e così satisfarà all’officio suo ubbidendo alla servitù impostali dalle leggi. E se forse esso comandasse con imperio iniquo, sarebbe costui non re ma tiranno, cagione e autore e come operatore colle mani altrui dello errore e male che ne sequisse. Dico io quello che facci al proposito nostro?

Paulo. Sequita.

Battista. Questa servitù impose la natura, summa e divina legge de’ mortali, a te, a me, a quello, a tutti. Nulla n’è licito repugnarli; e nollo ubbidendo saremmo e pessimi cittadini e omini alieni da ogni umanità, simili alle fere nate in la selva, vivute in deserta solitudine. E così è: a ciascuno li sta imposto e innato da chi governa l’universa natura, debito comandare a’ sui, agli strani, a’ giovani, a’ vecchi, a qualunque si sia di qualvuoi qualità e condizione: comandare, dico, eccitare, ricordare, aiutare che fuggano il biasimo e pericoli della vita, seguano il bene, l’opere lodate e gloriose. Al principe vero s’aggiunge oltre a questo certa molestia più che a’ privati. E qual sarà questa molestia? Sarà grande certo, che gli bisognerà essere ministro ad impor pena e supplizio a’ contumaci e incorrigibili. E voi giovani, quali vorresti essere quello ch’io desidero e spero vedervi, persuadonvi fino a qui le ragioni nostre?

Giovani. Molto.

Battista. Adunque, per essere quello che voi e noi desideriamo, io sequirò esplicando ricordi de’ dotti scrittori, utili a ben aversi in vita, e voi disponetevi sequire quanto voi udirete. Così insieme satisfaremo al debito nostro. Voi udirete cose quali vi diletteranno. Possiamo noi pe’ ragionamenti sino a qui esplicati statuire che ’l principe, cioè il summo magistrato, sia uno aversi in servitù impostali dalla repubblica con autorità atta a reggere i suoi in vita onesta e quieta e con condizione che punisca chi disubidisse, allo instituto della patria?

Niccolò. Parmi che questo sia da te ben dimostrato.

Battista. E persuadevi quella sentenza ch’io narrai, che ’l vero principato stia in essere per virtù, costumi, prudenza e molta cognizione d’arti e cose buone superiore agli altri?

Paulo. A me questo può persuadersi, ma alla multitudine dubito però che pare che collo imperio sia innato e addicato farsi ubbidire imperando.

Battista. E così sia, purché comandi cose iuste, oneste, dove, quanto, e a chi bisogni secondo che richiede lo officio del vero principe, quale, com’io dissi, non sarà impor servitù a’ suoi, ma conservarli libertà, mantenerli in quiete, conducerli a felicità. E questo non si può senza eccellente virtù e divina sapienza. E così è: qualunque sarà chi tu dirai, «costui è vero principe» bisognerà ch’e’ sia prudente, dotto, buono, e sappi essequire quanto importa lo officio suo.

Paulo. Bisognerà.

Battista. Dimmi, come saprà uno o commandare o reggere molti, qual non sappia essere superiore e moderatore di pochi?

Paulo. Saravvi non atto, sarà inutile.

Battista. Anzi sarà impedimento e disturbo di quel magistrato. E se questo uno forse nulla saprà o comandare o farsi ubbidire da un solo, qual stolto lo iudicherà degno de anteporlo a questi per pochi che siano? Questo ordine adonque se li conviene, che cominci dal men difficile, e impari essere e sia buon moderatore prima di questo solo uno, poi intrapreenda maggiore opera adestrando gli altri più noti a sé, acciò che indi e’ sia più atto a comandare e contenere molti secondo che richiederà il suo officio.

Niccolò. Questo chi ne dubita? Non si può negare.

Battista. Fra tutto il numero e multitudine de’ mortali a niuno potrai più abile comandare che a te stessi. Ma questo comandare a sé stessi, circa che cose statuiremo noi che sia, volendo per quella opera essere simile a’ primari principi?

Paulo. Nollo fo per interrumpere, ma per certificarmi. Come vuoi tu comandare a te stessi, se altri debba essere chi move, altro chi è mosso?

Battista. Facesti bene. Dicono che in noi sono due animi. Ma dilettici adducere essemplo delle cose notissime qui a Niccolò. Alla galea e’ remi danno movimento e impeto a tutto il corpo: forse quando questo impeto perpetuasse movendo senza termine diffinito e progresso conveniente, urterebbe in scoglio. Ma il timone adestra quel moto, e reggelo che egli schifa il pericolo e prende il porto. Quella parte in noi dell’animo ove sede la ragione, regge e governa la parte in quale si commove l’appetito; come accade tutto il dì che per certi rispetti ne conteniamo e restiamo sequire quello ci diletterebbe. Ma di questo altrove. Dico qui quanto all’officio del comandare. Credo non affermeresti che sia imprima circa el culto delle membre nostre, per essere biondo, bianco, grasso; faccende e pensiere vile e femminile. Forse ad altri parerà da molto curar la fermezza robusta del corpo e la buona sanità. Nolli biasimo. Ma qui bisogna o poco o nulla altro che sobrietà, e moto e quiete contemperata, e simili. L’altre poderosità e valenze de’ nostri nervi e membra sono doni rari concessi a pochi dalla natura, più tosto da ringraziarne Idio che da molto desiderarli. Se per questi sequisse all’omo felicità, tutto el resto de’ men robusti sarebbono infelici. Giovano sì, ma solo a chi l’adopera in tempo con ragione e modo per onestamento e salute della patria e de’ suoi, affine d’essere ben voluto e lodato dagli omini gravi e maturi. E forse sarebbono da stimarli più se fussero nostri in ogni età, benché di sua natura continuo fuggitivi. Fummo giovani, ora siamo per età stracchi e gravi. Accederono in noi doglie, succederono debolezze. Onde, spento quel vigore e ardore giovinile, cessocci col potere ancor la voglia d’essere sempre giovani, e imparammo non desiderare in noi quella agilità e nervosità quale fra gli altri giovani ci parea ben pregiata. E invero simili prodezze del corpo sono per sé non necessarie a bene e beato vivere. Non consiste adunque la ragione del comandare e servire nostro a noi stessi circa i beni fragili del corpo nostro. E molto ancora dovrà essere meno circa i beni instabili della fortuna. A niuna cosa dobbiamo adiudicarci se non a quelle per quali si diventi migliore. Pella copia niuno mai diventa savio né temperato né prudente, in qual cose consiste el governo della vita e fermamento della felicità. Molti diventarono per le ricchezze insolenti, libidinosi, inconsultissimi. Restaci adunque solo imporre a noi stessi quanto appartenga alla cura dell’animo, e devemoci con ogni arte, industria, studio, assiduità, diligenza, preporci e cercare d’averlo tuttora cultissimo e ornatissimo. Questo potrà non altro che la virtù. Non cape la virtù nell’animo occupato e pieno di pensieri lievi e puerili, né patisce la virtù essere dove sia qualunque minimo vizio. Pertanto prima bisognerà riconoscere quali e’ siano per non li ricevere a sé, ed espurgarli se forse vi fussero. La copia de’ vizi nell’omo sta varia e multiplice: sarebbe prolisso e laborioso connumerarli. Ma noi esplicheremo e’ più dannosi e contrari disturbatori del proposito nostro.

Due cose in tutta la vita così a’ giovani come a’ vecchi, a’ ricchi come a’ poveri sono pestifere e da fuggirle, anzi da pugnare assiduo contro loro con ciò che a noi sia concesso: l’ozio e la voluttà. Per l’uno e l’altro di questi sequita perturbazione d’ogni bene. Nulla dissipa e consuma e’ sussidi della vita quanto le voluttuose lascivie. Dell’ozio mai sequì all’omo cosa degna o non dannosa. Per l’ozio e negligenza molti perderono onoratissimo luogo tra’ suoi cittadini, e fortune e dignità. Niuna cosa tanto contraria alla vita e condizione dell’omo quanto nulla adoperarsi in qualche cosa onesta. Non dede la natura all’omo tanta prestanza d’ingegno, intelletto e ragione perché e’ marcisse in ozio e desidia. Nacque l’omo per essere utile a sé, e non meno agli altri. La prima e propria utilità nostra sarà adoperar le forze dell’animo nostro a virtù, a riconoscere le ragioni e ordine delle cose, e indi venerare e temere Dio. E questo officio qual presta e riceve l’uno all’altro in vita aiutandosi insieme a’ bisogni umani, se tutti vivessimo oziosi, quanta sarebbe miseria essere nati omini! Per l’ozio diventiamo impotenti e vilissimi. L’arte dovute alla vita s’apparano facendo. Chi non se adopera per appreendere el suo bisogno, non lo assequisce mai. Così chi non saprà, non potrà né per sé né per altri. Daresti voi giovani uno sparviere a chi non lo sapessi adoperare? Anzi come a indegno d’averlo glielo torresti. Tu ozioso pertanto qual rendi te stesso indegno d’essere appellato omo, chi ti reputerà degno di vita? E in questa inerzia tua duri più fatica con più tedio di te stessi che se tu t’adoperassi in qualche utilità. Fastìdiati la propria casa; vai per la terra simile a chi sogna baloccando, e consumi el dì perdendo te stessi. Quanto sarebbe meglio seder fra gli altri a qualche scola imparando virtù, o adoperarti in qualche essercizio degno di te e della famiglia tua. Niuna arte sarà tanto fra le mercennarie infima, quale in un giovane non sia da preporla a questa vita desidiosa e inerte. E non fia poco acquisto usarsi a non schifare de essercitarsi. L’uso di fare qualche cosa c’invita a intrapreendere maggiori faccende. Non ti succederà d’acquistar pregio e fama con la perizia delle lettere, datti facendo come gli altri ben consigliati, esci di questo covile, pròvati con l’arme in melizia, navica, cerca con qualche industria vivere altrove onorato. Chi non cerca il ben suo, non lo cura: chi non lo cura, non lo merita. Questo non mancherà che tu tornerai con qualche cognizione di più cose e notizia di più omini e costumi, saratti onore. Almeno proccura le semente, e’ lavori, le ricolte; piglia piacere de’ posticci, nesti, frutti, pecugli, ape, palombi e altre delizie della villa, opere senza invidia, piene di maraviglioso diletto, utili alla sanità, utili a fuggire questa dapocaggine e torpedine in quale niuno buon pensiere vi può capere. Udite l’oraculo d’Apolline, giovani. Tu che ora atto ad acquistarti prospera fortuna, ma abandonato non da altri che da te stessi, recusi fare quello che fanno molti di condizione pari o migliore di te e veggonsene lodati, te troverrai vecchio, grave, inutile agli altri ma in prima a te, abbandonato, rifiutato da tutti, pallido pel freddo, vizzo pe’ disagi e fame, colle ciglie ispide, colla barba setosa, piena di sucidume e fetore, co’ panni laceri, muffati, sfidati; e converratti per sustentarti essere simile a’ gaglioffi; vedera’ti sfastidito, odioso a tutti e a te stessi. Non aranno allora in te luogo i ricordi nostri. Mancheratti ogni cosa; persino le lacrime al gran dolore tuo ti mancheranno. O miseria! Ehi, miseria sarà la tua miserabile!

Giovani, non dico questo per notare simile mancamento in alcuno di voi. Dio proibuisca tanta calamità! Anzi mi rallegro, ché spero imprima per vostra propria volontà e bontà a nullo vorrete non molto meritare della virtù vostra. E forse ancora questi nostri ricordi in qualche parte gioveranno. Dicea quel savio: «Colui si porge veramente buono quale per sé ama e segue il bene. Prossimo a questo sarà chi ascolterà e sequirà i buon ricordi e amonimenti d’altrui. Ultimo, chi né per sé mosso né da altri commosso ed eccitato si perduce in la via lodata, costui resta adietro fra le cose perdute e desperate». Paulo, l’attenzione di questi giovani e questo aconsentire col fronte e co’ gesti alle ragioni nostre credo persuade ancora a te che questi le conoscono vere, e piacciono loro e sono secondo l’animo e intenzione loro. Adonque essi persevereranno facendo onore a sé e piacere a noi.

Paulo. Questo oraculo che tu recitasti non si può negare verissimo, senza dubbio verissimo. Ciascuno di noi qui vide, e oggidì lo vede in più d’uno nati nobili e d’ingegno e d’intelletto da natura non infimi; ma’ gl’incontro ch’io non intenerisca. Duolmi la infelicità loro; ritengonsi d’apparire fra gli altri cittadini, vergognansi chiedere, e’ suoi lo schifano, gli altri non lo stimano. Non posso ricordarmi di tanta indignità loro senza lacrime.

Niccolò. Questo medesimo repetevo io testé fra me, grande essemplo a chi non lo crede. E questa colpa io la ascrivo in molta parte a’ padri loro, quali mentre che i minori suoi non ardiscono per età recusare l’imperio paterno, sono innoffiziosi e negligenti verso e’ figliuoli, né curano adestrarli a qualche industria; vengono crescendo con troppa licenza, e credono che sempre li secondino le cose prospere; in la copia e oppulenza usata errano, ultimo se ne pentono.

Battista. O venga questo e ne’ maggiori e ne’ minori da tardezza e lentezza d’animo, che loro pesi la fatica, o da imprudenza o da pravità, sì certo questo cessare e non curare e non adoperarsi nelle cose degne, utili e necessarie, nuoce a’ maggiori, nuoce a’ minori, nuoce alla sua famiglia, e spesso tutta la republica riceve da simili omini grandissimo detrimento. Agiugni che questa oziosità e inerzia eccita ne’ giovani molti altri detestabili vizi. Non patisce la natura che l’animo dell’omo stia senza qualche affezione e movimento. Non hanno in casa né altrove in che essercitarsi con laude e buona grazia; vacui dunque d’ogni bono pensiere, facile s’empieno di voglie vituperose, vanno perscrutando e’ detti e fatti altrui, solleciti investigano da’ servi, da’ noti, da’ vicini la vita e costumi d’altri, vogliono intendere ogni tuo domestico secreto, sanno ciò che tu dicesti otto anni fa nell’orecchie a mogliata, ciò che tu sognerai posdomani. Niuno adulterio, niuno strupo si fa in tutta la terra occulto a loro, tengonne conto, scorron divulgando i malefici altrui, godono essere conosciuti dicaci, maledici, mordacissimi, trovono e giungonsi a’ simili a sé; fassi principe, duttore di tutta la caterva el più temerario, audace, insolente, prodigo, profuso; congregansi presso a costui, dove chi è più lascivo, più garulo, più dissoluto, incontinente, insolente, inverecundo, atto a ogni disonesta improbità e maleficio, costui fra loro è el più richiesto. Niuno atto, niuno detto, niuno fatto se non impudentissimo piace loro. L’uscio aperto la notte; chi esce, chi entra ognora forse con qualche furto. Aspettano la cena; bevazzando in cena si caricano di molta crapula, parole stolte, rise inettissime, gesti immodestissimi. Dopo cena escono di casa ebbri di vino e di certo furore che arde in loro a far qualche cosa scellerata e pazza; errano per la terra dispiacendo e iniuriando qualunque e’ possono; ritornano gloriandosi de’ malefici loro, e ricenano la seconda volta e perseverano bevendo perfin che ’l bollor del vino gli soppozza nel sonno. Le bruttezze e scellerataggine lor comesse la notte ivi mi fastidirebbe raccontarle. Niuno di loro mai vide levare il sole; anzi perduto in quel buio gran parte del dì, quando gli altri industriosi tornano a desinare, questa brigatella ancora sonnefora oppressa dalla crapula d’iersera, voltolansi fra le piume tanto che sono stracchi di iacere, lievansi, e mentre che e’ si vestono, pur beono ed empionsi di golosità. Indi a poco divorano ciò che loro sia posto in mensa con ingluvie pari a bracchi affamati. Non molto doppo a desinare ancora pur beono; indi a poche ore merendano, anzi desinano un’altra volta e beono. Che maraviglia se costoro bene inzuppati di mosto fanno e dicono come gli altri ebbri. Vedili adunque, secondo che questo sarà prono ad ambizione ed elazione, questo altro a lascivia e levità, quell’altro a durezza e malignità, ciascuno segue senza modo el vizio suo. Disputano di cose oscene o inettissime senza intendere o pensare quel che si dica; niuno tace, tutti latrano a uno impeto e furore; danno risposte alienissime; dicono parole villane; sentesi l’altercazione e convizio loro per tutta la vicinanza; caggiono fra loro le contenzioni di cose vane, vili e abiettissime e massime amatorie. Quinci temulenti, inconsiderati, precipitosi adoperano fra loro ogni decezione e perfidia, crescono le gare, seguono e’ discidi. Perturbagli la invidia se altri consegue, impazzano se non possono quel che vorrebbono, diventano rattori, ottrettatori, calunniatori, insidiatori, perfidi, e fanno in sé abito d’ogni corruttela. Obbrobrio della città, meritano essere portati in qualche insula deserta a ciò che tanta peste non vizi gli altri. E qual di voi non vorrebbe ogni infortunio più tosto che essere simile a uno di questi, in cui cape niun buon pensiere, pieni di perversità, cupidità sfrenata, audacia furiosa, apparecchiata a ogni rapina e violenza? Vita bestiale! Non sequirò annotando alcuni altri vizi pessimi, abominevoli, essecrabili, nati pur da questo voler poco affaticarsi e molto satollarsi: furto, sacrilegio, latrocinio, lenocini, venefici, conducere con fraudolenza e tradimento persone a farli perdere la roba, l’onore, la vita, vendere l’onestà sua e de’ suoi. Simili vizi non posso stimare che mai caggino in alcun ben nato e allevato in famiglia non al tutto abiettissima.

Ma sono alcuni altri errori comuni e quasi familiari alla gioventù, nati da certa voluttà pur degna d’essere moderata, e sono errori per sé atti a perturbare la vita e quiete di chi non vi provedesse. De’ giovani le cure amatorie lasciànle adietro, quando essi ne portano più che dovuta gastigazione e pentimento. Mai aresti sì capitale inimico a cui tu desiderassi maior tormento che così vederlo al continuo afflitto e perturbato simile a chi ama. Misero te! Quelle cose per quali tutti gli altri espongono el sudore, el sangue, la vita per consequirle e conservarle, tu le getti, e perdi la roba, la libertà, la tranquillità dell’animo, solo per essere grato, ossequente e subietto a una vile bestiola piena di voglie, sdegno e stizza. Disse quella a chi la sollecitava: «Aspetta ch’io sia un’altra volta ebbra come io fui quando e tu e io errammo. Testé ch’io sono sobbria non posso consentirti». Raro sarà femina impudica qual non sia cupida e incontinente al vino. Quell’altra rispuose: «Se tu mi volessi bene, non ti crucceresti, non ti dorrebbe vedermi ben voluta da molti altri come da te». Non che l’altre, ma la moglie propria non veggo io si possa così amare sanza molta parte di pazzia e furore. Or si godono e’ giovani uscire in publico con veste suntuosa, cavagli pieni e tondi, e cose per quale e’ superino gli altri di levità e insolenza. E par loro bella cosa tornare a casa con più compagnia, e sono omini assentatori, e le più volte lecconi e usi scorrere per le case altrui proccurando la cena con qualche buffonia e blando concitamento a riso. A questi e agli altri mostrano la copia dispersa per tutta la casa, nulla utile a chi viva modesto e sobbrio, suppellettile più a pompa e ostentazione che a necessità, cose tutte esposte a testificare la poca modestia loro e la molta insolenza.

Niccolò. S’io recitassi quello che testé mi venne in mente, forse sarebbe a proposito. Ma segui. Non voglio interrumpere el tuo ragionamento.

Battista. El proposito nostro si è ragionare di cose utili a questi giovani, come que’ che fecero la via qual faranno loro, ricordano e rendano cauti dove siano e’ pericoli, e dicono: «Abbi riguardo a tal ponte, non entrare el fiume, non entrare solo la selva, non volgere a man manca, benché quella via paia più frequentata», e simili. Questa opera dovuta ancor da te sarà utile e grata a questi.

Niccolò. Io mi ricordo vedere e’ cittadini primari della terra nostra, per andare in villa caricavano in qualche soma il letto, stagni e vasi per la cucina, e riportavanle quando e’ tornavano alla terra. Testé qui entro la terra vedi più apparecchio in una sola camera e di più spesa che allora non vedevi in tutta la casa el dì delle nozze. In villa molto maggiore insania, più e più letti che non bisogna per lui e per tutti e’ suoi parenti e noti quando tutti concurressero; la sala, la mensa, tutto parato a imitazione de’ massimi prelati. E queste ville oggi, queste ville e ridotti, anzi colluvione di gente sviata, scola di lascivie, non mi piace.

Paulo. Questo medesimo pensa’ io ancora. Noi giovani, ricòrdati, vestavamo un solo abito el verno, un altro per gli altri tempi, ed erano panni utili, colori lieti condecenti alla età, verdi, celesti. Ora qual ignobile artefice sarà che non voglia veste pel verno dupplicata, per la state triplicata, a mezzo tempo quadruplicata, tutto o grana o seta: spese gravi e subito consumate. E se a queste cose la industria suppeditasse, sarebbono tollerabili, ma dove manca il potere e non si racquieta el volere, cresce la nequizia. E soleano e’ dati alla industria con assiduità sollecitar l’arte sue. La donna mandava un piccolo vasetto di vino con qualche condimento del pane; desinavano e’ maschi in bottega, la donna in casa asciolvea; non conosceano le femmine el vino. Oggidì qual infimo sarà che non voglia esser pari a’ ricchissimi, e la fante, e la tavola posta due volte il dì a uso di conviti solenni? Questo sospirare tuo, Battista, dimostra che a te pari ne duole quanto a noi.

Battista. Di questi costumi della terra mai accadde a me altrove ragionarne; e sonci come forestiere, raro ci venni e poco ci dimorai. Circa i fatti publici si potrebbe argumentare qualche pronostico da’ costumi privati de’ cittadini. Non dico altro. Quanto a’ nostri qui ragionamenti domestichi s’acconfa, dico, in qualunque famiglia sarà più onorato chi ha che chi sa, e arà più luogo la voglia di pochi che il buon consiglio di molti, e saranno in più stima le cose della fortuna che la virtù, a questa famiglia certo sta dedicata prossima ruina. Certi altri errori, quanto e’ son più puerili, tanto più sono da schifarli a chi desidera avere reputazione e grazia fra’ suoi cittadini: essere lezioso, sdegnoso, borioso, linguacciuto, difendere le sue favole con molti periuri e busie, si vogliono emendare. Precetto antiquo che la donna quale vorrà essere pregiata fuor di casa, sia sorda, muta e cieca, non veggia altro che dove ella metta i piedi, e così per casa, massime a tavola, sempre muta. Questo perché? Però che le femine di loro natura sono inconsiderate, e raro dicono cose non degne di repreensione, ciò ch’elle odono interpretano a suo modo, e tutto voglionlo emendare, di ciò ch’elle vedono fanno istoria piena di levità, e sino insulse dicono parolacce da beffarle, e raffermano el detto suo con presunzione e arroganza degna di correzione. Chi adunque non vorrà essere gracchiuola simile alle femminelle, non faccia come loro, né favelli delle cose note a sé senza premeditarvi, né delle ignote senza riguardo. Amoniscono i savi che mai si parli se non di cose qual meritino esser non taciute. Questo non potrà ciascuno, massime in età giovinile, ma solo chi con studio e diligenza le investigò e imparolle. Adonque prima lode e ultimo rimedio a’ giovani sarà il tacere. E giugni a ogni parola, questo perché? Peroché tu credi ch’io non ti creda. E perché debbo io non crederti, se tu dici il vero? E se tu mi stimi incredulo, che giova darmi occasione di reputarti e mentitore insieme e periuro? Se forse io dicessi: «non ti credo, giura», so ti sdegneresti, e diresti: «sono io omo tale a cui tu non debba credere senza sforzarmi a iuramento?». Giovani, io ben fanciullo udi’ da un grave sacerdote molto vecchio, e quanto ancora io sino a questo dì vi posi mente, e’ disse el vero: «Niuno busardo mancò mai che non fusse ladro, traditore o pazzo glorioso simile ad alcuni cacciatori e millantatori». Chi dice la menzogna, se non è insolente, lo fa o per le cose passate o per quelle che prepara testé pello avenire. Chi fece il furto sperava poterlo occultare e negare. E quanti sarebbono ladri ove e’ credessero potere negare il furto. Pell’avenire se costui pensò cose buone, non vedo perché bisogni mentire più che tacere, se non quanto crede per questo giugnermi sproveduto e tradirmi. Io lodo, giovani, l’attenzione vostra, indizio che le ragioni nostre vi satisfanno. Piacemi.

Paulo. E sarebbono da biasimarli, s’e’ ragionamenti pe’ quali e’ riconoscono quel che si conviene, nolli movesse.

Battista. Sino a qui anotammo alcuni errori familiari a molta parte della gioventù. Ora sequita che noi esplichiamo certi altri vizi più gravi, dannosi e molesti in tutta la vita, e communi parte a’ minori parte a’ maggiori d’età, e sono inimici della vera libertà dell’omo, disturbatori d’ogni instituto a chi propuose bene imperare a sé stessi: la ira e la cupidità. L’ira e lo sdegno si movono quasi pari con uno impeto, e forse raro persevererà l’uno senza l’altro. Ma el primo incitamento dell’ira par che sia quando tu non hai quello che tu vorresti; e perché ne’ giovani le voglie sono più infiammate che ne’ vecchi, per questo saranno e’ giovani più ardenti e meno rattenuti a crucciarsi. Lo sdegno pare che insurga quando tu ricevi quello che non ti pare meritare e nollo vorresti. Onde vedi e’ vecchi sdegnati, se furon reietti, schifati, postergati. Ma donde s’incenda l’ira, e quale ella sia in sé, non disputiamo. Ciascuno conosce che l’ira si è uno impeto d’animo non obbediente alla ragione, impetuoso a vendicarsi, nocivo a costui in chi e’ si move, molesto agli altri con chi e’ conversa. Porgesi l’omo irato colle parole, co’ gesti e moti simile a uno ebbro furioso; anzi, vero, più simile a una bestia feroce percossa e incrudelita dice e fa cose, non tanto aliene dalla dignità sua e degne di repreensione, ma spesso aliene d’ogni umanità, e meritano castigazione e grave punizione. E vediamo in uno adirato molti movimenti terribili, ma insieme vi vediamo molta e molta insania da riderlo e stimarlo vilissimo. Onde avviene che deposta la contenzione e sedato il furore, niuno sarà che non volesse essere stato più temperato. E tu riconoscilo in te. Ti crucciasti mai, che poi non ti pentisse e teco gastigassi il tuo errore? Tu vendesti il servo tuo perché egli era iracundo e molesto agli altri e perturbava la quiete della famiglia. Fuggi pari tu essere a te stesso nocivo e grave perturbatore. Vuolsi al tutto dare ogni opera d’escludere e propulsare da noi questa insania. Saracci questo nulla difficile, se porremo mente a quel che bisogna. Le contenzioni onde spesso s’infiamma l’iracundo, raro perseverano per cose piccole; nasconsi spesso di cose minime e vili. Ne’ pusillanimi stimare le cose vili viene pur da viltà. Poco vento move una lieve pagliuccia. Così poco incitamento commove l’animo vacuo e leggiere. L’omo grave, pieno di prudenza e consiglio, pensa alle cose grandi con maturità, stima nulla le non grandi, iudica delle cose buone con ragione, no’gli paiono buone se non quelle onde e’ sia migliore, cerca le cose oneste con perseveranza, stima nulla quanto la virtù, duo’gli solo quelle cose per quale e’ senta alcuni fatti men buoni. E dicesi che il savio non ha fele. E noi tanto siamo teneri allo sdegno e sì precipiti all’ira, che se un catellino abbaia, rompiàno a cruccio. Conviensi e contro a’ vizi racconti di sopra, contro la voluttà, e massime contro a questa ira imparare vincere sé stessi. Né possiamo imparare se non vincendo, né vincere se non dove sia proposta occasione che ti bisogni certare; e vinceremo, se affermeremo in noi nell’animo nostro proposito d’essere simili a’ savi. Apparecchiànci per questo sul primo insulto della offensione a essere in ogni cosa contrario a chi si cruccia. In lui fulmina lo sguardo, le ciglia, el fronte e tutto el viso si perturba, getta le mani, non cape in sé né in quel luogo dove e’ si trova. Tu contro asserena la faccia tua, componti tutto a mansuetudine, contienti a dignità, porgi gravità. Lui versa un diluvio di parole superbe con voce e spirito simile a una cagna mordace. Tu contro racquieta in te la voce, modera le risposte, cura più quello che sia onesto a te, che quello che sia disonesto a lui. Ma molti sono malconsiderati e dicono: «Patirò io che uno abiettissimo omo faccia sì poca stima di me?». E che farai adunque? Se qualche mal costumato rispose, come egli usa rispondere agli altri, parole condegne a sé, tu replicherai a lui parole non degne a te, e spesso più da biasimar le tue che le sue. Chi ripreende un maldetto con un altro maldetto, repreende sé stessi. Le parole d’un savio simili alle gemme, qual ben consigliato le commutasse contro un gran cumulo di sassi lutosi? Dovrei io ringraziare costui quale mi porge materia di assuefarmi e adoperarmi in essere e parere modesto e grave. Niuna cosa spegne l’ira in te e in chi ti sia infesto, quanto el tacer tuo. Come al foco il vento, così le iterate risposte sono incitamento dell’ira. Qualunque cosa farà e dirà, sia chi vuole, perché ti dolga, quando in te quel che vorrebbe non seguirà, in lui ritornerà il dolore duplicato, e sarà bello usurpare a te questa gloria d’essere il primo quale o con dolce risposta o tacendo spense la contenzione. Usufrutta questo gaudio in te: dilettiti averlo superato di modestia, e così vincendo spesso diventeremo insuperabili.

E gioveracci in le cose minori assuefarci per meglio potere poi moderarci in le più gravi. Tornasti a casa, truovi la donna rissosa; vincila de umanità, revocala con facilità. Compensa in te il frutto che tu aspetti da lei, che ella ti facci padre. El resto atribuiscilo alla natura loro. Chi fuga da sé e’ movimenti dell’ira sua, in molta parte attuta quella dell’avversario. Vedi e’ servi negligenti: perderono, guastorono. Stimali quello che e’ sono. Tu non comperasti il servo per avere un filosofo. E simile i famigli, se non fussero omini inerti e gulosi, non patirebbono essere servili. Cura che non pecchino per l’avenire, più che renderli gastigati per quello che fu fatto. La punizione non restituisce quel che manca. E per emendarli che faccino l’officio loro, sarà utile non meno mostrarli con umanità la ragione e modo onde e’ non pecchi più, che castigarli con severità. E dobbiamo ricordarci che a noi e’ servi sono non però da nulla stimarli. L’opera loro lieva a noi molte fatiche. Dove i servi non fussero, faremmo noi molte cose tediose e ingrate. Pertanto ben disse colui: «e’ servi sono a noi umili amici». E con questi domestici sarà bello essercitarci contro alla infestazione dell’ira, però che la contenzione tua verso di loro non è per lo onore, né per alcuna invidia. Sono impotenti e infimi, e non ti sarà danno ossecundarli, e sarà utile a te, benché ’l servo tuo restasse forse men buono, se tu diventerai migliore. Ultimo, non mancherà per questo che posdomani tu non lo possa punire senza ira, e lui con qualche altro nuovo errore te lo ramenterà. Ma le più volte avviene che la facilità del padrone rende i servi trattevoli e amorevoli, e dove sarà l’amore, sarà lo studio di far cosa che ti piaccia. Molti negligenti non meno che iracundi si dimenticano mostrarsi osservatori de’ costumi de’ suoi. Spenta quella prima vampa del coruccio, non perdere la dignità tua per negligenza. Castiga l’errore de’ tuoi quando altro non giova, e questo non solo dove egli errino, ma e dove e’ mostrino di volere errare. Ma non errar tu in te, né anche in loro vinto da ira. Da questa domestica essercitazione, quasi come da un preludio, bene instrutti e apparecchiati, potremo uscire a maior certame e palestra più grave, della quale diremo a luogo suo.

La cupidità viene da grande imprudenza, ed érravisi in due modi. El primo si è ch’io stimo il danaio più che non merita, e per questo lo desidero troppo, e troppo lo cerco e sequito. L’altro errore si è che io non lo so adoperare in quello a cui fine e’ fu trovato, e per questo lo tengo troppo inchiuso e constretto. Dimmi, Paulo, chi domandassi uno de’ vostri cittadini togati su in senato: «Chi chiami tu ricco?», che risponderebb’egli?

Paulo. Credo risponderebbe costui è ricco quale ha molti danari, e così forse qui crede Niccolò.

Niccolò. E chi ne dubita?

Battista. Costui qual facessi questa risposta si ravedrebbe quando io lo ridomandassi: «Dimmi, quanto oro basterà ch’io possa dire: questi sono que’ molti che ti faranno ricco?». Fu chi disse, solo colui sarà ricco quale arà danari da satisfare a’ bisogni suoi, alle voglie sue qualunque elle siano, da prestarne, donarne, gittarne, nasconderne, smarrirne, perderne senza sentire el mancamento. Pazza risposta! Due affetti c’impose la condizione umana: l’uno per satisfare al corpo. Atto strumento a questo furon trovati e’ danari. L’ardente desiderio e affezione al danaio si chiama avidità. L’altra affezione fu per satisfare all’animo, qual sempre desidera essere più pieno di sapienza. Se l’animo non fusse in tutto vacuo di quello che si li richiede, all’omo circa il corpo basterebbon poche cose, però ch’egli s’auserebbe vivere col poco, e a chi basta il poco, a costui avanza molte cose qual mancano agli altri non moderati. L’uno di questi due affetti, cioè la cupidità, o venga dalla corruttela del vivere, o dalla diffidenza e innata sua paura che no’ gli manchi, o da stultizia per essere in questa cosa caduca più abbiente che no’ gli giova, questa cupidità, dico, si vede che sempre cresce. L’altro affetto di sua natura non può avere fine, però che le cose quale per sé ciascun di noi non sa, e sono belle e utili e degne e necessarie alla perfezion dell’omo, e pertanto richieste dalla natura, sono infinite. Adonque all’omo in questa parte niuna quantità mai satisfarebbe. Ma vedete voi se questa mia fussi atta risposta. Dico che colui qual io chiamerò ricco, in tutto sarà contrario al povero.

Niccolò. Sì.

Battista. Colui è povero a cui mancano le cose atte a vivere bene, e più povero colui a cui mancano le cose necessarie secondo quello si richiede all’omo.

Niccolò. Piace.

Battista. Se così è, colui sarà più ricco che gli altri, a cui suppediteranno le cose migliori in tutta la vita. Le ricchezze sopra modo acumulate sono più gravi e moleste che la povertà ben moderata. El più delle volte le ricchezze venute senza virtù furon pestifere, e raro vedesti tiranno a congregar pecunia che fusse omo bono. La cupidità de arricchire fa gli omini violenti. Dicesi che l’omo ignorante sempre fu la più dura cosa, e fra gli altri el peggio trattevole animale che sia. Summa ignoranza sapere lodare altro nulla che la pecunia. La vera ricchezza, giovini, sta in essere copioso di cose buone; e quelle sono ottime quali fanno l’omo ottimo, e non li possono essere tolte da persona. Questa sarà la virtù, figliuoli, la bontà, la sapienza. Quale omo non al tutto senza mente non recusasse, non dico essere, ma solo parere ignorante, senza niuna virtù e scellerato? Qual premio sì grande vi sarebbe preposto a quel fine che voi non lo recusassi? E pur vedete in quel cupido, tanto può la sua imprudenza e summa stultizia, che egli pospone ogni cosa al guadagno improbità da castigarla! Chi vendessi il figliuolo per danari sarebbe scellerato. Sì. L’omo cupido vende sé stessi, la fama sua, spesso per minor pregio che non gli costò l’asino. Ove troverrai tu omo più duro che questo quale non sa vivere almen co’ suoi. Quasi tutte le quotidiane controversie fra coniunti in le famiglie vengono da questa cupidità. Lo stimare e desiderare cose superflue e a sé più tosto gravi che utili, mai caderà in un savio e prudente. Qualunque cosa io non saprò adoperare, quella a me sarà superflua. Non sarà adonque senza stultizia desiderare e con tanta industria cercare quello ch’io né sappia né voglia adoperare. El cupido avaro omo non conosce a che siano utili le ricchezze. Se le conoscesse, non perderebbe tanto frutto quanto ricoglie chi ben l’adopera. Disse colui: «desidero d’essere ricco solo per murare e donare». Degna risposta. Acquistasi col benificare mediante el danaio amici e fama. E costui, non che e’ non benefichi agli altri, ma e’ frauda sé stessi, e ripolle forse per adoperarle altrove in bisogni forse minori che questi presenti, e questo non è senza insania, soffrire testé disagio in cose certe sotto espettazione delle incerte. E se pur così fusse, arebbe men biasimo. Ma l’avaro le ripone solo per averle a custodire dalle mani de’ furoni. Molestia laboriosa e dannosa el non por modo alla cupidità di quello che non vuole usufruttarlo! Diremo noi che sia altro che solo uno gareggiare stolto contro a sé stessi?

E scusansi quasi come fusse licito essere rapace pe’ figliuoli. Non vi credo, padri: non credo che i vostri figliuoli tanto vi siano cari, quando di quel che gioverebbe e bisogna loro, voi non avete alcuna cura. Studiate, padri, che i vostri siano modesti, e sappino quanto sia da posponere el danaro alla virtù, e in che modo a noi mortali la vera ricchezza venga altronde che dalla fortuna. E in questo dovresti spendere tutto el patrimonio, ed esporvi tutte le sollecitudini e fatiche vostre, che a’ vostri non mancassero e’ ricordi e instruzioni vostre e degli altri ottimi precettori. E’ non sarà poco, s’tu lascerai loro quello che fa ricchi gli altri, la industria e buoni costumi. Gli omini dati al guadagno, quanto e’ saranno più modesti, tanto aranno più favore e indi più frutto e più utilità. E prossime, quello che molto gioverà, lasciate loro copia d’amici sotto la protezione de’ quali e’ siano ben retti. Pazzia troppo dannosa lasciare più letigi a’ suoi che beni ereditari! Voglio, sì, che il tuo sia tuo, ma quanto all’uso e liberalità, sia pari de’ tuoi, presertim buoni. E’ buoni meritano ricevere bene e dagli altri e imprima da’ buoni simili a te; e l’officio dell’omo buono sarà sempre far pur bene. Ma che fo io? Quasi come io qui a te, Niccolò, e a te, Paulo, omini maturi e prudentissimi e padri di molti costumatissimi figliuoli, volessi insegnare con che riguardi e con che instituti si regga la famiglia. E raveggomi uscito del nostro proposito.

Niccolò. Non così; anzi, come tu dicevi testé, così pare a me: ciò che si dice utile a questi giovani in tutta la vita fa molto a proposito e tuo e nostro, quali tutti vorremmo vederli felicissimi. E quanto io, Paulo, confermo el detto suo: certo e’ padri debbono avere gran cura di fare i suoi virtuosi. Questo si vede, che la virtù d’uno omo solo spesso rende beata una terra, non che una famiglia.

Paulo. Verissimo, Niccolò, quello che Battista e tu dici. E io, come tu sai, sempre curai ch’e’ miei fussero molto morigerati. Ma forse e’ pensieri di molti padri sono questi: «né posso fare a costui la persona maggiore che gli conceda la natura, né immettervi bontà e dottrina se non quanto agradi a lui: questo sussidio delle mie fortune molto necessario alla vita posso io accumulare e lasciare loro, e debbo».

Battista. Non neghiam questo, Paulo, che la cura, diligenza, assiduità de’ buoni precettori rende a miglior grado le menti giovanili tènere e atte a ogni impressione. E vedesi quanto e’ giovani, cresciuti sotto la reverenza de’ padri circunspetti e gravi, siano poi omini differenti da questi quali crebbero senza freno e buon consiglio. Ma torniamo. Noi espurgammo da quella parte dell’animo in quale abitano le perturbazioni, alcuni errori e vizi molto nocui, massime a chi propose essere principe e moderatore di sé stessi, e prossime superiore al numero degli altri. Ora procederemo esplicando ricordi de’ nostri maggiori, omini sapientissimi, pe’ quali la parte dell’animo retta dalla ragione sia ben culta e bene ornata, senza qual cosa, come più chiaro vederete, non possiamo assequire quanto desideriamo. Acconsentimmo noi nel discurso fatto di sopra, che il vero principato stava in essere per virtù e buoni costumi e cognizione di cose degne, superiore al numero degli altri?

Niccolò. Sì.

Battista. Qual di queste sia più facile ad asseguirla, più utile a colui in chi ella sia, più accommodata alla nostra investigazione, sarebbe lungo qui a me e non pronto el diffinirlo. Pur noi vediamo rari omini periti e dotti, quali non siano a’ primi luoghi con dignità richiesti e preposti agli altri; e per questo forse molti iudicherebbono ch’el primo nostro officio sia dedicarci agli studi e cognizione delle dottrine, a quale opera iudicano e’ savi che l’omo sia atto, nato, e da natura pronto, e dicono quello che non possono negare ancora que’ che sono meno intelligenti: l’uomo nacque non per essere simile a una bestia, ma in prima per adoperarsi in quelle cose quale sono proprie all’omo. Comune a tutti gli animali e insieme all’omo sta el vivere, el moversi e sentire e appetere le cose buone e accomodate alla conservazione della spezie sua, e fuggire le contrarie. All’omo resta proprio suo fra’ mortali lo investigar le cagioni delle cose, ed essaminare quanto sia questo che ora li occorre simile al vero, e cognoscere quanto e’ movimenti suoi siano da reputarli boni. Questo non è altro che solo adoperarsi in quelle facultà onde s’acquisti dottrina. Ma di questo ne lascerò il giudizio a voi.

Paulo. E’ litterati, vero, certo sono molto stimati quando e’ sono eccellenti, ma questo grado non l’acquista sempre ciascuno sanza molta fatica e difficultà ben grande. Non siamo per ingegno tutti atti alla dottrina, e senza la buona disposizione del corpo e senza le suvvenzioni della fortuna mal si può dare opera quanta si richiede a simili studi.

Battista. Concedere’ti in parte che le fortune siano commode agli studi quanto tu stimi, s’io non vedessi fra gli studiosi acquistar dottrina men numero di que’ che sono più ricchi che di que’ che sono men fortunati. E simile assenterei che la imbecillità del corpo disturba questa opera, s’io non vedessi che tutte l’altre cose per età mancano all’omo: solo le forze dello intelletto persino all’ultima imbecillità della vecchiezza tuttora fioriscono e inverdiscono. Che ci bisogni fatica, tutto el contrario. El nostro ingegno, cosa in molta parte divina, non patisce violente servitù. Le fatiche hanno in sé violenza. Qui solo si richiede affezione, diligenza e perseveranza; e spesso in lo studio la diligenza val più che l’ingegno, e quasi sempre la perseveranza farà più che la veemenza e impeto non attemperato. E troverrete in questo studio delle dottrine che ’l moderato adoperarsi segue ogni dì più pieno di maravigliose voluttà. L’animo nostro si pasce della investigazione e aprensione delle cose degne; e quando ben vi fusse qualche fatica, niuna cosa si fa in vita sì facile ch’ella non sia laboriosa a chi ella non piace. Così niuna delle cose degne sarà tanto laboriosa qual non sia con voluttà a chi la tratti con desiderio d’assequirla. Voi giovani alle cacce e altrove soffristi freddo, fame, sete, durasti fatica molte e molte ore, sudasti e vegghiasti. O beato a voi, se voi ponessi pari studio e pari diligenza presso a’ dotti in apreendere le cose di più pregio! E quanto frutto assequiresti, quanto contentamento! Non si può descrivere né stimare il piacere qual seque a chi cerca presso a’ dotti le ragioni e cagioni delle cose; e vedersi per questa opera fare da ogni parte più esculto, non è dubbio, supera tutte l’altre felicità qual possa l’omo avere in vita. Che più? Il mercatante per acquistar qualche pecuglio espone la vita sua a molti e grandissimi pericoli, soffre in mare e in terra dure e lunghe fatiche e molti disagi, e noi altri recusiamo vigilar qualche ora della notte per essere poi lume agli altri omini! E recuseremo de adoperarci in quello che rende maraviglioso frutto alle fatiche nostre. E certo sarà maiore el frutto nostro a noi che il suo a qualunque altri si trovi altrove. Ed ecci palese questa differenza, che le ricchezze e ’l poter più che gli altri nelle cose della fortuna, mai fecero più savio alcuno. E’ dotti acquistano a sé pecunia quanta e’ vogliono. Sono riceuti da fortunati principi, e riceveno da loro. E’ ricchi sono accetti a niuno se non quanto patiranno diminuire il suo. E spesso e’ dotti fanno ricchi e beati molti altri con suoi ricordi e consigli e con emolumento e acrescimento di grata memoria e fama. Agiugni che l’utile, qual porge la dottrina, sarà per sé maggiore che qualunque premio si possa mai sperare alle nostre fatiche, se ben cavassi tesoro ascoso e inchiuso in qualche muro di casa tua; però che l’oro non potrà essere utile a te, se prima in altri non viene qualche voglia o bisogno pel quale tu commuti l’oro tuo coll’opere e cose sue. La dottrina testé qui mentre che tu la sequiti, e poi sempre quando tu l’arai compresa, sempre sarà tua, utile a te testé e in tutta la vita tua. E quanto vi porrai studio, tanto di presente ti s’accresce per lei felicità, e dì per dì ti si rende più pronta e molto facile. Poi non ti può essere rapita, continuo ti sta in seno, in parte niuna ti dà gravezza, e possedila senza niuna sollecitudine. L’altre cose adoperate scemano: questa una solo, dono agli omini dato da Dio, continuo diventa maggiore e di più pregio trattandola. Vuolsi adunque con virilità d’animo continuo profferirsi e adoperarsi per acquistar dottrina, cercando, frequentando omini e cose onde tu ritorni a casa più dotto, e vuolsi perseverare in questa assiduità. Oggi benché poco sia quello che tu imparasti, domani saprai quello che tu non sapevi iersera, e in molti dì saprai molte cose, e chi sa molte cose, costui si rende in questo molto superiore agli altri. Reverisconlo e maravigliansi di lui. Seguiamo adunque, giovani, questa utile e degnissima impresa, dedichiànci a questo studio, ma più confermiànci a nulla recusar fatica per esser dì per dì quello che noi non eravamo, e facciam sì che questo dì giovi agli altri giorni che verranno, a noi e a’ nostri. Seguiamo cercando sempre ciascuno da sé e pari co’ pari e tutti insieme cose ottime e lodate, e perseveriamo e imitando e ottemperando a chi prima le trovò. Nella vita dell’omo lo essercitarsi in qualunque cosa rende la via ad acquistarvi lode e fama ogni di più aperta, equabile e luminosa. Chi conosce il bene e amalo quanto e’ merita, e fra le cose ottime ama le più degne, costui pospone tutte l’altre men degne, e tanto gli diletta quello ch’egli acquista con sua diligenza, quanto e’ si vede per questo differente da quello che egli era, e differente da quello che sarebbe sanza questo ornamento. O giovani studiosi, Dio buono, beati voi quando qui e quivi e dirimpetto sederanno mille e mille e più volte mille omini in teatro o in qualche altro publico spettaculo, o giovani, beato a qualunque di voi potrà dire seco: «Qui, fra tanto numero di questi nati omini simili a me, niuno è omo tale a cui merito io volessipotiusesser simile che a me, e a quelli che sanno più di me. Tanti che sono belli, tanti che sono agilissimi del corpo e robustissimi, tanti che sono molto fortunati e nati in nobile famiglia, e niun di loro sarà qual non desiderasse che il padre, il fratello fussi simile a me, e sarà niuno che non si gloriasse nominare fra’ suoi un simile a me tale qual io mi sia». O gaudio maraviglioso! O incredibile contentamento! O gloriosissima remunerazione agli studi nostri, alle fatiche nostre! Chi non esponesse, non che il sudore, ma più el sangue per asseguirlo! E che monta delle fatiche passate? Oggi tu senti nulla, el premio loro frutterà sino dopo la vita. Adunque, giovani, sequite, come spero farete, investigando e adoperandovi continuo con ogni studio, diligenza, perseveranza in acquistar dottrina, per esser instrutti almeno in quelle cose qual sarebbono mancamento a te nato omo nobile non le sapere. E datevi a conoscere quelle che sono necessarie a chi desideri essere, quanto merita la virtù vostra, pregiato e amato da’ nostri cittadini, e adoperato in le amministrazione della republica. O Dio, che piacere sarebbe el mio vedervi qui insieme, quando occorresse lassù in senato si trattasse forse di prendere l’arme o di iungere nuove collegazioni o innovar qualche legge e simili: che piacere sarebbe el mio vedervi disputare insieme di quella cosa, e producere vari argomenti, suadendo e dissuadendo questa e quell’altra parte, ed emendar l’un l’altro con carità e grave discurso! Quanto sarebbono questi simili ragionamenti vostri allora più belli che non sono quelli quali fanno molti sedendo pe’ muricciuoli! E per mio consiglio fatelo, figlioli, fatelo, essercitatevi in simili cose, eccitate, sollecitate l’uno l’altro, perseverate in questo certame utile e pieno di voluttà con l’animo cupidissimo d’acquistare virtù. Simili preludi vi faranno più dotti e circunspetti a riconoscere le cagioni e ragioni delle cose, e più destri a ordinarle a luoghi e tempi atti, deputati. Sarete indi più pronti, ove accaderà, a profferirle ed esplicarle in publico. E così diventerete quello che molto e molto vale fra la moltitudine: diventerete eloquenti e utili alle cose che succederanno nelle faccende publiche. Credetemi, uno omo eloquente facile farà che gli altri seguano la sentenza sua. E chi ubbidirà a’ detti tuoi sarà costui altro in questa parte che suddito dello imperio tuo?

Sarà forse non qui fra voi, quali sete d’ingegno prestante e d’ottimo intelletto, ma fra gli altri giovani chi dirà: «Io conosco e affermo che tu mi dai util consiglio, e non recuserei fatica alcuna per acquistare tanta eccellenza, ma non mi servirebbe lo ’ngegno a queste suttilità, né mi vedo atto a compreendere tanta cosa». A costui risponderei io: «Dimmi, figliuolo, che sai tu quanto tu possa s’tu nollo provi? E se tu ti conosci nell’altre cose non da meno che gli altri ove bisogni adoperare intelletto e discrezione, vedi che questo recusare qui l’acquistar dottrina non sia in te tanto diffidenza inetta quanto timidità puerile e fuga d’affaticarti». Inerzia dannosa, desidia brutta fare come e’ fanciugli vezzosi quando la mamma li vuole lavare il capo: gridano e piangono prima che sentano se ’l ranno è freddo o caldo. Escludete da voi questa lentezza e tardità effeminata. Vinca l’animo generoso e virile. Spesso interverrà che ’l disporsi a far le cose laboriose eccita la virtù in noi, e rendeti che tu puoi molto più che tu non credevi. L’omo da natura si è cupidissimo di sapere ogni cosa. Di qui viene che tu e io e gli altri tutti siamo curiosi e cerchiamo intendereetiamle cose levissime, e chi fia questo forestiere, e quanta copia e che ordine fu al convito, e che crucci siano innovati fra Mirzia e chi l’ama, e simili. Con questa cupidità di sapere se la natura non avesse immesso all’omo lo ’ngegno attissimo ad imparare, arebbe errato. Qual cosa chi dicesse, errerebbe lui. Mai in cosa niuna la natura per sé mai errò, mai errerà. Adonque, non inculpar l’ingegno tuo: inculpane la propria desidia e poca cura tua di te stessi. E quanti diventerebbono dotti, se si vergognassero esser gravi a sé e inutili agli altri per la sua ignoranza! Dissi degli studi dovuti alle dottrine. Non so quanto io mi vi satisfeci.

Niccolò. Dirò di me, e così credo affermerà qui Paulo e costoro: queste ragioni adutte da te molto mi dilettorono e persuasero; e così mi pare le dottrine sono molto commode alla vita dell’omo, rendono grande emolumento, non sono difficili a conseguirle, più amano diligenza e perseveranza che fatica. E confesso questo: certo chi sa, costui tanto è differente da chi non sa, quanto da te omo compiuto a quelli che ancora sono fanciulli.

Battista. Dicesti commode, vero, ma sono in prima necessarie. Le dottrine insegnano conoscere il vero dal falso ed eleggere il meglio. Senza questa cognizione e providenza, che differenza faremo noi da uno omo annoso, non dico a un fanciullo, ma da lui non dotto, non perito a una inutilissima bestia? E hanno in sé questo le dottrine, che in la famiglia dove elle furon ricevute, elle perseverano più tempo conservandovi ornamento privato e publico onestamento. Giovani, sequite essercitandovi, leggendo, udendo e’ precettori, ragionate insieme e con gli altri studiosi delle cose lodate e utili a vivere bene e beato; disputate ovunche acade insieme cercando il vero, investigando le cagioni e ragioni delle cose, imparando da chi sa, e referendo l’uno all’altro con instituto de accrescere publica utilità alla famiglia vostra. Così asequirete in voi mirabile contentamento, e appresso de’ vostri cittadini autorità e preeminenze nulla differente dal vero imperio. Conseque alle dottrine, — e forse sono consimili le cognizioni e perizie delle cose utili e degne, e quelle sono in prima degne qua’ sono utili alla patria, come e’ dicono in ozio e negozio, — sapere i gesti e provedimenti de’ maggiori quali constituirono e acrebbero sì questa sì l’altre republiche, sapere gli ordinamenti e osservanze prescritte e usitate nella terra, sapere e’ costumi e reggimenti pubblici e privati delle comunità, e’ principi co’ quali bisognasse in tempo confederarsi, conoscere le voglie e portamenti de’ suoi cittadini utili e inutili al ben publico, e simili. Queste sono cose molto degne a uno omo civile, e molto utili a chi presunse essere moderatore degli altri, e avere perizia di quello che bisogni a reggere e conducere lo essercito e armati per terra e per mare, e avere perizia di quel che giovi a difendere e propulsare ed espugnare inimici e simili. Queste son cose che dànno a chi le ’ntende molta autorità e reputazione in senato e presso e’ principi, questi sono commendati e primari gradi in le faccende publiche. Ma quello che sopra ogn’altra cosa in la vita dell’omo si debba, e in qual bisogna con ogni opera, studio, assiduità continuo essercitarsi per assequirlo, faccenda iocundissima, degnissima, utilissima a te, a’ tuoi, sarà la virtù, saranno i buon costumi.

Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.