< Decameron
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Conclusioni
Giornata decima Nota

Conclusione dell’autore.

Nobilissime giovani, a consolazion delle quali io a cosí lunga fatica messo mi sono, io mi credo, aiutantemi la divina grazia, sí come io avviso, per li vostri pietosi prieghi, non giá per li miei meriti, quello compiutamente aver fornito che io nel principio della presente opera promisi di dover fare; per la qual cosa, Iddio primieramente ed appresso voi ringraziando, è da dare alla penna ed alla man faticata riposo. Il quale prima che io le conceda, brievemente ad alcune cosette, le quali forse alcuna di voi o altri potrebbe dire; con ciò sia cosa che a me paia esser certissimo, queste non dovere avere spezial privilegio piú che l’altre cose, anzi non averlo mi ricorda nel principio della quarta giornata aver mostrato; quasi a tacite quistion mosse, di rispondere intendo. Saranno per avventura alcune di voi che diranno che io abbia nello scriver queste novelle troppa licenza usata, sí come in fare alcuna volta dire alle donne e molto spesso ascoltare cose non assai convenienti né a dire né ad ascoltare ad oneste donne. La qual cosa io nego, per ciò che niuna sí disonesta n’è, che, con onesti vocaboli dicendola, si disdica ad alcuno; il che qui mi pare assai convenevolmente bene aver fatto. Ma presuppognamo che cosí sia, ché non intendo di piatir con voi, che mi vincereste: dico che, a rispondere perché io abbia ciò fatto, assai ragion vengon prontissime. Primieramente, se alcuna cosa in alcuna n’è, le qualitá delle novelle l’hanno richesta, le quali se con ragionevole occhio da intendente persona fien riguardate, assai aperto sará conosciuto, se io quelle della lor forma trar non avessi voluto, altramenti raccontar non poterle. E se forse pure alcuna particella è in quelle, alcuna paroletta piú liberale che forse a spigolistra donna non si conviene, le quali piú le parole pesan che i fatti e piú d’apparer s’ingegnan che d’esser buone, dico che piú non si dèe a me esser disdetto d’averle scritte che generalmente si disdica agli uomini ed alle donne di dir tuttodí «fóro» e «caviglia» e «mortaio» e «pestello» e «salsiccia» e «mortadello», e tutto pien di simigliami cose. Senza che, alla mia penna non dèe essere meno d’autoritá conceduta che sia al pennello del dipintore, il quale senza alcuna riprensione, o almen giusta, lasciamo stare che egli faccia a san Michele ferire il serpente con la spada o con la lancia ed a san Giorgio il dragone, dove gli piace, ma egli fa Adamo maschio ed Eva femina, ed a Lui medesimo che volle per la salute dell’umana generazione sopra la croce morire, quando con un chiovo e quando con due i piè gli conficca in quella. Appresso, assai ben si può conoscere che queste cose non nella chiesa, delle cui cose e con animi e con vocaboli onestissimi si convien dire; quantunque nelle sue istorie d’altramenti fatte che le scritte da me si truovino assai; né ancora nelle scuole de’ filosofanti, dove l’onestá non meno che in altra parte è richesta, né tra chericj né tra filosofi in alcun luogo, ma ne’ giardini, in luogo di sollazzo, tra persone giovani, benché mature e non pieghevoli per novelle, in tempo nel quale andar con le brache in capo per iscampo di sé era alli piú onesti non disdicevole, dette sono. Le quali, chenti che elle si sieno, e nuocere e giovar possono, sí come possono tutte l’altre cose, avendo riguardo all’ascoltatore. Chi non sa che è il vino ottima cosa a’ viventi, secondo Cinciglione e Scolaio ed assai altri, ed a colui che ha la febbre è nocivo? Direm noi, per ciò che nuoce a’ febricitanti, che sia malvagio? Chi non sa che il fuoco è utilissimo, anzi necessario a’ mortali? Direm noi, per ciò che egli arde le case e le ville e le cittá, che sia malvagio? L’armi similmente la salute difendon di coloro che paceficamente di viver disiderano: ed anche uccidon gli uomini molte volte, non per malizia di loro, ma di coloro che malvagiamente l’adoperano. Niuna corrotta mente intese mai sanamente parola: e così come l’oneste a quella non giovano, così quelle che tanto oneste non sono la ben disposta non posson contaminare se non come il loto i solari raggi o le terrene brutture le bellezze del cielo. Quali libri, quali parole, quali lettere son più sante, più degne, più reverende che quelle della divina Scrittura? E si sono egli stati assai che, quelle perversamente intendendo, sé ed altrui a perdizione hanno tratto. Ciascuna cosa in se medesima è buona ad alcuna cosa, e male adoperata può essere nociva di molte; e così dico delle mie novelle. Chi vorrà da quelle malvagio consiglio o malvagia operazion trarre, elle nol vieteranno ad alcuno, se forse in sé l’hanno, e torte e tirate fieno ad averlo; e chi utilità e frutto ne vorrà, elle nol negheranno, né sarà mai che altro che utili ed oneste sien dette o tenute, se a que’ tempi o a quelle persone si leggeranno per cui e pe’ quali state son raccontate. Chi ha a dir paternostri o a fare il migliaccio o la torta al suo divoto, lascile stare; elle non correranno di dietro a niuna a farsi leggere: benché e le pinzochere altressi dicono ed anche fanno delle cosette otta per vicenda! Saranno similmente di quelle che diranno, qui esserne alcune che, non essendoci, sarebbe stato assai meglio. Concedasi: ma io non potea né doveva scrivere se non le raccontate, e per ciò esse che le dissero le dovevan dir belle, ed io l’avrei scrìtte belle. Ma se pur presuppor si volesse che io fossi stato di quelle e lo ’nventore e lo scrittore, che non fui, dico che io non mi vergognerei che tutte belle non fossero, per ciò che maestro alcun non si truova, da Dio in fuori, che ogni cosa faccia bene e compiutamente: e Carlo Magno, che fu il primo facitor di paladini, non ne seppe tanti creare, che esso di lor soli potesse fare oste. Conviene, nella moltitudine delle cose, diverse qualità di cose trovarsi. Niun campo fu mai sì ben coltivato, che in esso o ortica o triboli o alcun pruno non si trovasse mescolato tra l’erbe migliori. Senza che, ad avere a favellare a semplici giovanette, come voi il più siete, sciocchezza sarebbe stata l’andar cercando e faticandosi in trovar cose molto esquisite e gran cura porre di molto misuratamente parlare. Tuttavia chi va tra queste leggendo, lasci star quelle che pungono, e quelle che dilettano legga: elle, per non ingannare alcuna persona, tutte nella fronte portan segnato quello che esse dentro dal loro seno nascoso tengono. Ed ancora, credo, sará tal che dirá che ve ne son di troppo lunghe; alle quali ancora dico che chi ha altra cosa a fare, follia fa a queste leggere, eziandio se brievi fossero. E come che molto tempo passato sia da poi che io a scriver cominciai infino a questa ora che io alla fine vengo della mia fatica, non m’è per ciò uscito di mente, me avere questo mio affanno offerto all’oziose e non all’altre: ed a chi per tempo passar legge, niuna cosa puote esser lunga, se ella quel fa per che egli l’adopera. Le cose brievi si convengon molto meglio agli studianti, li quali non per passare ma per utilmente adoperare il tempo faticano, che a voi donne, alle quali tanto del tempo avanza quanto negli amorosi piaceri non ispendete; ed oltre a questo, per ciò che né ad Atene né a Bologna o a Parigi alcuna di voi non va a studiare, piú distesamente parlarvi si conviene che a quegli che hanno negli studi gl’ingegni assottigliati. Né dubito punto che non sien di quelle ancor che diranno, le cose dette esser troppo piene e di motti e di ciance, e mal convenirsi ad uno uomo pesato e grave aver cosí fattamente scritto. A queste sono io tenuto di render grazie e rendo, per ciò che, da buon zelo movendosi, tènere sono della mia fama. Ma cosí alla loro opposizion vo’ rispondere: io confesso d’esser pesato, e molte volte de’ miei di essere stato; e per ciò, parlando a quelle che pesato non m’hanno, affermo che io non son grave, anzi sono io sì lieve, che io sto a galla nell’acqua: e considerato che le prediche fatte da’ frati per rimorder delle lor colpe gli uomini, il piú oggi piene di motti e di ciance e di scede si veggiono, estimai che quegli medesimi non istesser male nelle mie novelle, scritte per cacciar la malinconia delle femine. Tuttavia, se troppo per questo ridessero, il lamento di Geremia, la passione del Salvatore ed il ramarichio della Maddalena ne le potrá agevolmente guerire. E chi stará in pensiero che ancor di quelle non si truovino che diranno che io abbia mala lingua e velenosa, per ciò che in alcun luogo scrivo il ver de’ frati? A queste che così diranno si vuol perdonare, per ciò che non è da credere che altro che giusta cagione le muova, per ciò che i frati son buone persone e fuggono il disagio per l’amor di Dio, e macinano a raccolta e nol ridicono: e se non che di tutti un poco vien del caprino, troppo sarebbe piú piacevole il piato loro. Confesso nondimeno, le cose di questo mondo non avere stabilitá alcuna, ma sempre essere in mutamento, e cosí potrebbe della mia lingua essere intervenuto; la quale, non credendo io al mio giudicio, il quale a mio potere io fuggo nelle mie cose, non ha guari mi disse una mia vicina che io l’aveva la migliore e la piú dolce del mondo: ed in veritá, quando questo fu, egli erano poche a scrivere delle soprascritte novelle. E per ciò che animosamente ragionan quelle cotali, voglio che quello che è detto basti lor per risposta. E lasciando omai a ciascuna e dire e credere come le pare, tempo è da por fine alle parole, Colui umilmente ringraziando che dopo sì lunga fatica col suo aiuto m’ha al disiderato fine condotto: e voi, piacevoli donne, con la sua grazia in pace vi rimanete, di me ricordandovi, se ad alcuna forse alcuna cosa giova l’averle lette.



qui finisce la decima ed ultima giornata del libro
chiamato decameron.

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